Una delle tendenze più evidenti dell’editoria italiana negli ultimi anni, forse spinta dal successo di pubblico e di critica di Le otto montagne di Paolo Cognetti, è la pubblicazione di romanzi di ambientazione montana. Si stanno moltiplicando in libreria le uscite che sembrano voler strizzare l’occhiolino a un certo tipo di lettore, interessato a quella fuga verso l’alto.

D’altra parte, è anche vero che sono sempre esistiti sugli scaffali spazi specifici per la produzione sulla montagna in senso stretto (si pensi ad esempio alla collana Exploits di Corbaccio), contenitori di titoli molto tecnici e radicalmente legati al mondo dell’alpinismo, senza quasi mai sfociare in narrazioni con un vero valore letterario, tranne rari casi (ad esempio La morte sospesa di J. Simpson e La montagna di luce, di P. Boardman). Del resto, già nel 1985 Camanni spiegava nel suo La letteratura dell’alpinismo che «gli scritti alpinistici raggiungono di rado la dignità di un effettivo livello artistico».

Il fenomeno in atto ora pare piuttosto voler seguire la tradizione dei grandi romanzi di montagna italiani, che ha forse nel Dino Buzzati di Bàrnabo delle montagne il suo capostipite, insieme al Mario Rigoni Stern de Le vite dell’altipiano e nelle voci di De Luca, Corona, Righetto, Malaguti, Melchiorre, i suoi rappresentanti più recenti.

Tutto ciò non ha però significato una parallela riflessione, non è cioè stato accompagnato da una adeguata domanda: che cosa porta di nuovo la montagna alla letteratura?

O viceversa: cosa può dare l’arte al mondo della montagna? Ci può essere un dialogo tra i due spazi?

In questo deserto sembra inserirsi come una perla rara un libro appena uscito per 66thand2nd, a firma di Orso Tosco, ossia Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda. È il primo titolo della collana di letteratura sportiva Vite inattese con grafica rinnovata.

Protagonista è sin da subito il massiccio impresso in copertina, attraversato qua e là da cumuli di neve e per questo permeato da uno splendido chiaroscuro capace di evidenziarne la granitica ruvidezza e lontananza. Ma è tutto meno che un libro di sport. Interprete principale è la Montagna degli Dei, luogo di innominabile intensità, spazio altro, magnete spietato e materno al contempo. E solo dopo vengono gli individui che hanno provato nella storia ad avvicinarla, scalarla, a partire dagli albori, con Mummery, fino ai giorni nostri, alla tragedia di Tom Ballard e Daniele Nardi, morti lassù. L’opera di Tosco ha perciò un andamento circolare, parte e ritorna laddove tutto era iniziato, quello sperone impossibile, via perfetta mai salita, che proprio dall’alpinista inglese prese il nome.

Creatura ibrida, il saggio romanzato sembra più simile a una ricognizione poetica del sogno di alcuni uomini e donne per la conquista della vetta nera. Strutturato in nove brevi capitoli, come racconti autonomi, pur essendo legati da associazioni e rimandi vari, procede per suggestioni, con bellissimi scivolamenti di senso.

Già dalle prime pagine si comprende come l’autore si serva di materiale eterogeneo, usando le più svariate influenze culturali per raccontare le storie del Nanga Parbat: fotografia, street-art, musica, leggenda, danza, poesia, diari, arte contemporanea, letteratura. Questo perché è interessato a indagare la profondità della montagna interna, più che i caratteri alpinistici in sé: facendo questo compie un carotaggio tutto interiore.

L’autore non è un addetto ai lavori e da questo trae forza: si può dire che le scritture migliori di montagna a livello puramente letterario vengano fuori da penne non così avvezze alle conquiste impossibili, benché “montanari dentro”. Come capita in Fiamme di pietra di Rufin, un bel romanzo di amore e montagna ai piedi del Monte Bianco, con passaggi scritti finemente, limpidi e ricchi di sensibilità, specie nelle descrizioni delle scalate e degli scenari; o ancora nel classico Primo in cordata di Frison-Roche, la storia commovente di un figlio che va a recuperare il corpo del padre morto in parete, i rischi, l’asprezza delle Alpi, la vita delle guide: due rari esempi in cui l’alpinismo esula dai suoi confini, andando a scavare nelle profondità dell’animo umano.

Dedicando le cento pagine del suo testo alle figure più carismatiche che si sono poste di fronte alla Montagna Nuda nel corso del tempo, Tosco esplora la superficie di un’ossessione ch’egli chiama «avventura magica e mortale», e nel farlo sembra precipitare egli stesso, si fa trascinare e soprattutto allude, rimanda ad altro. Come quando tira in ballo l’arte di Mark Rothko per parlare degli Ottomila affrontati d’inverno, la ricerca di un mondo parallelo, l’osservazione della natura coi suoi stessi occhi:

«Odiava la natura, Rothko, e nel mentre non faceva altro che dipingerla. […] La stratificazione dei colori dona loro una densità misteriosa e affascinante, più aerea di qualsiasi pulviscolo e al contempo impenetrabile, come una fiamma, una nebbia, come una cascata».

L’atto narrativo di Tosco è perciò strettamente evocativo, capace di oscillare tra diversi livelli di comprensione, e girare intorno a quell’innamoramento mistico che porta sulla Montagna Mangiauomini.

Partendo dalla storia di Mummery, passa attraverso le spedizioni naziste di Merkl per poi arrivare al grande, solitario, primo conquistatore della vetta, una figura leggendaria: Hermann Buhl. La fratellanza dei due Messner, l’amore di Nives Meroi per il marito Romano, la razionalità istintuale di Simone Moro e la rinuncia di Tamara Lunger, lo sguardo ferito e l’alpinismo scarno di Tomek, l’approccio quasi ascetico di Tom Ballard: Orso Tosco ci fa capire nel corso delle pagine che qualsiasi gesto alpinistico, per quanto apparentemente “inutile”, che sia una conquista o un fallimento, può essere una finestra di senso.

Ad ogni capitolo il concetto stesso di alpinismo sembra ridefinirsi: prima è ossessione pura, da pioniere; poi diventa delirio del destino di razza; passione per la libertà, preghiera di commiato, gesto di amore condiviso, autoconsapevolezza, dipendenza, ascesi antisociale, possibilità di rivalsa. Comune a tutti i personaggi è la capacità di amare la montagna nonostante tutto quello che ha tolto loro: fratelli, amici, compagni di cordata.

Questa disciplina viene collocata in una visione più ampia, capace di illuminarne gli aspetti più umani proprio di fronte agli atti più grandi e, per certi versi, disumani. L’autore riesce a rintracciare nelle biografie degli alpinisti i sintomi della passione che li ha portati lassù, a giocarsi la vita a 8000 metri sul livello del mare. Indagando i moventi extralpinistici dell’alpinismo stesso compone un dialogo a specchi, quasi inedito, tra due mondi apparentemente così distanti: montagna e letteratura, corpo e lingua, muscoli e spirito. Tosco mostra aperture, fa capire che, dismettendo i panni di una disciplina ripiegata su sé stessa, l’alpinismo può godere di una sensibilità essenziale che lo accomuna alla mistica, alla poesia.

Tra le pagine più belle vi sono sicuramente quelle in cui, parlando del ritorno di Messner sul Nanga Parbat in solitaria nel 1978, dopo la morte del fratello otto anni prima, l’autore descrive l’ascesa come una preghiera di guarigione, un monologo frutto del rifiuto di un’infanzia borghese, ed egli stesso come missionario corporeo in un faccia a faccia con l’assoluto, nel ricordo della tragedia. O quando associa dei versi di Wallace Stevens alla confidenza di un uomo come Buhl col ghiaccio e la neve, col freddo mai nemici, mai terribili come dovrebbero essere lassù. Fino alla nebbia da white-out, da tempesta secca, che a quelle quote è simile e insieme diversa dalla nebbia della Pianura Padana di Celati, e porta fuori, taglia la via, fa smarrire e forse piangere.

«Perdersi nella nebbia della pianura può significare perdere tempo, andare fuori strada, procedere involontariamente a passo di gambero allontanandosi dalla meta. Ma perdersi in montagna spesso, spessissimo, significa perdere la vita. E dunque il piacere di orientarsi nel bianco assoluto, più che il piacere di restare in vita, equivale alla gioia di mettersi a disposizione del rischio e uscirne vincitori».

La lingua dell’alpinismo non può che essere quella del corpo e quindi Tosco, dal basso, rileggendone le movenze, si fa testimone e le interpreta, ce le narra come fosse la prima volta, aprendo la strada alla vera scrittura dell’alpinismo, che è qualcosa di non impresso su pagine di carta, ma su pareti, cenge, fessure e sotto seraccate minacciose. È una poetica del canto estremo che legge come atto artistico l’allestimento dei campi base e vede nei nevai vere e proprie facciate e, negli omini presi a risalire, lettere che si stanno formando, righe, capoversi.

È una delle prime volte in cui questa fusione di orizzonti avviene e permette una comprensione nuova. E permette di rispondere alla domanda iniziale: quando arte figurativa e atto estremo dialogano, permettono di vedere la montagna come filtrata attraverso il ghiaccio. Quindi finalmente priva di quella patina secolare da diario o resoconto eroico che ne ha accompagnato per decenni la produzione scritta. La montagna arriva ad essere qualcosa che riguarda l’essenza della vita e, quindi, letteratura. Così, come un cristallo, il libro si regge su un equilibrio interno precario, a volte, ma che tiene, eccome, e risplende di pura luce sotto i nostri occhi.

Le ultime pagine, dense di un autobiografismo intimo ed autentico – l’infanzia con il padre, l’opposizione tra mare e montagna – diventano una dichiarazione d’intenti. Perché la postura dell’autore è quella di un “disertore” che dà le spalle all’acqua e fissa i monti, interessato solo all’incoscienza, all’intensità dell’esperienza dei protagonisti, senza badare all’esito effettivo delle imprese. Quando l’alpinista smette di fissare la vetta come unico obiettivo e invece ritorna su di sé, svuotato, rianimato, e si guarda intorno con una nuova consapevolezza data dall’aria sottile, allora tutta la produzione linguistica montana cambia prospettiva e si avvicina all’arte.

Per questo il libro è consigliabile per chi ama le altezze, ma anche agli uomini di pianura, di città. Sarebbe una buona lettura da metropolitana, quantomeno come punto di fuga, stella polare, intensa lettura dei propri precipizi interiori.


Orso Tosco, Nanga Parbat: L’ossessione e la montagna nuda, 66thand2nd, 2023, 15€, 119 pp.