In attesa della cerimonia di premiazione della XXXIX edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 29 aprile alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Alberto Ravasio e Giorgio Vasta, tocca oggi a Silvia Cassioli, in cinquina con Il capro (il Saggiatore 2022).
1. Si è scritto molto sul Mostro di Firenze, sia durante che dopo i processi. Il tuo romanzo riesce ad essere differente perché si propone innanzitutto di essere un’opera narrativa, che per sua natura non deve preoccuparsi di reggere alla prova dei fatti; in secondo luogo, la tua scrittura cerca di restituire spazio alla polifonia di voci (indagati, inquirenti, familiari), ognuna con la propria verità. Da dove nasce l’esigenza di scrivere Il capro? Ti sei posta un obiettivo durante la scrittura o la forma è nata spontaneamente?
Sì, è un’opera narrativa. Che non inventa niente se non il fatto di essere un’opera narrativa. Non volevo far tornare nessun conto. Non consolare, non risolvere, non mettere pezze di fantasia per mandare a posto le varie tessere del puzzle, che dunque rimane irrisolto: ognuno si farà la sua idea, io metto a disposizione tutti i pezzettini. Da qui anche la polifonia e il balletto delle voci, ognuna con la sua verità. Un obiettivo preciso, no, non ce l’avevo, avevo un finale a cui arrivare e basta, e ci sono arrivata come arrivo sempre in fondo alle cose che scrivo, prendendole a testate per soffrire il meno possibile. La forma sono io: sempre in balia delle voci degli altri.
2. Altra caratteristica del romanzo è la scelta di non esasperare i dettagli morbosi degli omicidi e delle figure degli indagati. Tutto ciò, unito alla scelta di portare in primo piano alcune voci che altri definirebbero marginali pone Il capro in contrapposizione a tanta narrativa true-crime o non-fiction recente. Perché questa scelta?
L’impressione di non morbosità è legata al tipo di occhio che ho usato per focalizzare i delitti: un occhio freddo, che registra quel che c’è e non aggiunge né pathos né eros. Anche perché i delitti del Mostro di Firenze sono delitti freddi: compiuti cioè da qualcuno a cui non interessava far soffrire, ma portarsi a casa qualcosa, un souvenir del femminile, una parte per il tutto: la donna ridotta a una sua parte anatomica. È questa la faccenda inquietante, il rito a cui chi legge è chiamato a partecipare. Prendete e mangiatene tutti. Di solito in questi casi ci si fa trascinare da un entusiasmo erotico: qui no, c’è solo il gelo della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. E sulla donna, ovviamente. In generale, su tutti quelli che non sono abbastanza “uomini”, bambini inclusi. Che poi sono gli stessi tenuti a margine dalle narrazioni ufficiali: portare in primo piano le loro voci per me aggiunge qualcosa di fondamentale.
3. Il caso del Mostro di Firenze è stato uno spartiacque nella narrazione mediatica della cronaca, con soprannomi, citazioni e immagini entrate nell’immaginario collettivo italiano. L’ossessione è talmente viva che in una telefonata anonima è stato minacciato il direttore editoriale della tua casa editrice affinché rimuovesse i nomi propri dal romanzo prima di pubblicarlo (Cfr. articolo di Andrea Gentile su “Finzioni”, 18 febbraio 2023). Perché credi che questo caso abbia fatto così tanta presa sul pubblico?
Forse perché le vittime di questo Mostro sono colpite nella loro intimità e immortalate nel momento in cui piacere fa rima con morte, nel loro pre-nido d’amore (la macchina: la prima casa) che diventa una tomba, e questo di per sé è un grande tema mitico. E poi il personaggio Pacciani ha la forza vigorosa delle maschere antiche, sembra uscito dalla commedia dell’arte insieme a Arlecchino e Brighella, e come loro incarna un tipo eterno: il piagnone sventurato che ne ha fatte di più lui di Carlo in Francia e però si piange addosso e reclama la sua parte di giustizia. Ancora oggi il suo faccione viaggia nelle chat sotto forma di meme insieme al cuore e allo smile. E i compagni di merende non sono da meno: c’è il servo stupido, e il servo ancora più stupido… l’ipotesi che questa sgangherata compagnia si mettesse a trucidare coppiette fa impressione: come pensare che Zanni possa assassinare Colombina.
4. Infine, una domanda più leggera che da sempre rivolgiamo ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?
Perché ha qualcosa di elementare che è insieme comico e feroce, alto e basso, molto buono e molto cattivo.