L’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, ancor prima che fosse esplicito, mi ha ricordato uno spettacolo di Federico Buffa che vidi a Trieste anni fa con mio padre: il noto giornalista sportivo immaginava cosa sarebbe successo se l’esito di un rigore in una partita tra Estrella Polar e Deportivo Belgrano del 1958 avesse avuto un esito differente. Dicasi, tecnicamente, narrazione controfattuale, le famose sliding-doors per dirla all’inglese, sperimentatissime nel cinema d’oltre oceano, che nello sport contendono uno spazio fenomenologico più ingombrate che altrove. Moretti ci si è tuffato a pesce, da attento osservatore e conoscitore del dopoguerra italiano, e – difficile dire il contrario – ha centrato e ribadito il peccato originale della narrazione (storica, politica ecc.) di questo paese, l’ingrediente, in altre parole, che dall’8 settembre ’43 ci riporta alla lotta (diventata uno dei sintomi del provincialismo) tra rossi e neri, in un paese che, sembra retorico dirlo, difficilmente isola un sentimento comune, insomma l’eco al dramma del film, «nella vita non si cambia mai veramente».
In questo senso, quello etimologico del dramma, dal greco dràma cioè azione, Il sol dell’avvenire è la pellicola più drammatica della filmografia di Moretti, avviluppata alla necessità del fare, bulimico, irrequieto, che non ha tempo per il confronto, come Giovanni (alias Nanni Moretti) e Fabiola (Margherita Buy) non hanno il tempo per parlare di loro stessi, dei loro problemi, lasciati, così, alle mani dello psicologo, che in Moretti, sin dagli inizi, è un punto d’accumulazione, un accentratore/motore narrativo, per lo più stereotipato, che ridicolizza l’umano, il desiderio di appartenenza e libertà. Da questo punto di vista, l’irrisolutezza sentimentale (e non solo) di Tre piani è stata il miglior campo di prova per Moretti, in cui guardarsi dall’esterno: Il sol dell’avvenire è un faccia a faccia con il tempo – passato, presente? – del “morettismo”. Se, come ben scrive Giuseppe Gangi su Ondacinema, da La stanza del figlio proprio a Tre piani, passando per Habemus Papam e Il caimano, Moretti «ha operato un processo di graduale dissoluzione del proprio corpo cinematografico», in Il sol dell’avvenire Moretti è diviso tra la necessità di (ri)consustanziarsi e smaterializzarsi per alimentare l’autoanalisi di genere e personale.
Il gioco, tra personale e collettivo funziona, tra Inner speech e discorso pubblico, che si interroga, per esempio, su un tema carissimo a Moretti nella sequenza chiave di volta del film, come quello della violenza, la ragione che mette sotto scacco sia il film di Moretti, sia il film che Fabiola sta producendo (per la prima volta senza il marito), in una cacofonia di ipertesti che porta al collasso, cioè il piano sequenza in cui proprio Moretti, mestamente, abbandona il set e lascia che la scena sia girata così com’è, che la pistola spari per citare ancora una volta Cechov. Un film, dunque, morettiano perché perlocutivo all’ennesima potenza, che al pubblico ci pensa eccome, come fosse a teatro. La sequenza introduttiva, il titolo spalmato a caratteri cubitali sul lungo Tevere, programma l’impostazione metanarrativa, l’involucro a matriosca in cui Moretti ha scelto di sparire e/o riapparire, violare le regole di Mia madre, ma, al contempo tenere a mente «quei due tre principi che bisogna avere» per vivere.
Nel ginepraio di autocitazioni, rimandi, spiccano ne Il sol dell’avvenire l’estensione di Caro Diario e l’intensione di Ecce Bombo: del primo, la camera a precedere che traccia il percorso di Giovanni e del suo produttore francese in giro per Roma, cioè, l’idea del peregrinare attorno a un centro di gravità (Battiato, anche ne Il sol dell’avvenire, si dimostra l’ossessione benigna del regista), Nanni stesso, Roma, il quarticciolo, dove prende corpo il film nel film («la recita nella recita»), che racconta un pezzo cruciale della storia comunista italiana, e poi il tema del matrimonio, del sodalizio sentimentale, che resta una delle nemesi del regista romano (forse quella che l’ha mosso in Tre Piani), e in più generale del lessico famigliare italiano, una sorta di impalcatura narrativa, un contro altare alla dimensione pubblica (che però resta politico); del secondo, l’impressione che Moretti, alla domanda «che lavoro fai?», non tradisca il motto «beh mi occupo di molte cose», esattamente ciò che racconta Il sol dell’avvenire, molte cose appunto. In altre parole, un meltingpot esistenzialista, che, cosciente, presta il fianco a chi sostiene che il “Moretissimo” ha poco da dire ormai, ma che, al contrario, almeno ne Il sol dell’avvenire mantiene un approccio squisitamente semantico, attento al significato carveriano – «qual è il tuo giorno preferito della settimana?» -, come rivoluzione, non estetica ma etica verrebbe da dire citando il regista protagonista del film.
In particolare, ne Il sol dell’avvenire, mi sembra si avveri ciò che scrive Rachel Cusk in La seconda casa, ovvero che le parole, per arrivarle, devono attraversare la sua mente, per non essere “solo parole”. Ecco, Il sol dell’avvenire è a tutti gli effetti un lungo processamento, pedagogico più che psicanalitico, un suggerimento, quello che Moretti regala agli amanti, all’orecchio, didascalico, teatrale, come se riconoscesse il sentimento di chi guarda, generoso, alla Pavese, che si è sacrificato per noi, perché imparassimo a vivere, come ricorda Giovanni. Se Il sol dell’avvenire non è un testamento, come dice Moretti, non ce ne voglia ma ci assomiglia; di sicuro, riassume, con la sua intenzione controfattuale, cioè l’ipotesi che il PCI italiano si fosse schierato contro l’invasione comunista dell’Ungheria, il quid del morettismo: una forma di sopravvivenza, che per necessità dev’essere idisioncrasica, personale com’è in realtà la storia di ognuno, anche se proiettata politicamente – «mi fa stare male non stare bene con te», un rito, due idee che si ripetono, la storia appunto.