Nel panorama delle nuove “scritture dal vero” in Italia, la bergamasca CTRL books si è guadagnata in questi ultimi anni una forte riconoscibilità, grazie soprattutto alla pubblicazione di una serie di volumi collettivi che, per poetica editoriale e cura grafica, si può dire rappresentino un nuovo modo di intendere il genere del reportage dalle nostre parti. Parliamo, ovviamente, della Trilogia normalissima (2019-2021), che attraverso 35 autori e una quarantina di testi ha richiamato l’attenzione dei lettori italiani sulle storie di persone e luoghi cosiddetti “fuori dai radar” (i radar dell’editoria, della politica e dell’opinione pubblica, di noi tutti); e, non meno importante, su come provare a raccontare queste storie.
A distanza di un paio d’anni dalla conclusione della Trilogia, CTRL torna in libreria con È giusto che finisca così, una nuova raccolta di 10 reportage narrativi (più uno fotografico) dove, fin dal titolo, il motivo della fine si annuncia a denominatore comune dei testi presentati – sia essa decisione, sacrificio, pura fatalità di un meccanismo che in modi diversi sovrasta il singolo. Molti sono gli elementi di continuità rispetto ai libri precedenti: la partecipazione all’impresa di voci già affermate ed esordienti; la presenza di un reportage fotografico, che qui, dal centro esatto del volume, spande la sua luce elegiaca sulle narrazioni circostanti; soprattutto, il gusto per storie talvolta ai limiti dell’incredibile, o almeno dell’improbabile, che bastano a ricordarti come l’impensato non si nasconda solo e soltanto nei meandri dei bassifondi più remoti, ma talvolta siede sul sedile di fianco al tuo.
La prima sorpresa il libro la riserva letteralmente ad apertura, con il foglio di guardia che svela il titolo del lavoro nella sua interezza, solo parzialmente inquadrato dal ritaglio in copertina: NON CAPIRETE MA È GIUSTO CHE FINISCA COSÌ. Quel primo emistichio, “Non capirete”, un po’ scongiuro un po’ condanna, subito pone una precisa responsabilità rispetto alle storie che si stanno per leggere, e che del resto (ciò che ci si aspetta da una storia) lavorano a far emergere la complessità e l’irriducibilità di ogni vicenda a un’unica visione (come testualmente ha scritto Giulia Sarli a proposito de I dimezzati.
Gli undici momenti del volume (che inaugura, si legge, la nuova serie dei “Libri della Vertigine”) raccontano esistenze e “fini” tra loro eterogenee, in un indice dove i pezzi di Valerio Millefoglie e Stefano Valenti dedicati a due “drammi della solitudine” uguali e diversi, fra Roma e Sesto San Giovanni, abbracciano l’insieme dei testi in una cortice che è semantica e insieme etica: a ricordare evidentemente, nel tentativo di scalfire la retorica individualista con cui tendiamo a sminuire certe storie per difendercene, come la fine di uno è sempre e già la fine di molti; in altri termini, non si è mai soli nella fine, perché questa è sempre conseguenza e causa di altre fini, che hanno riguardato e ancora riguarderanno qualcuno o qualcos’altro: la solitudine terminale di una coppia di esseri umani è, in questi casi, anche quella di una comunità o di un’intera città resa indifferente e cinica dalla paura.
In mezzo ai testi I e XI, secondo una titolazione-numerazione che mi piace credere ammicchi a certe numerologie di cambiamento, si leggono le pagine di una autrice anonima temporaneamente internata in un ospedale psichiatrico, e che misura in passi il perimetro della propria esistenza reclusa, scandita da uno spettacolo di (quasi) impenetrabili apocalissi personali; un ritratto del custode del Palazzo del Cinema di Venezia (Giulia Callino); l’epica scardinata di una famiglia di “recuperanti” di residuati bellici lungo il Piave (Maria Giulia Prizzitano); un pomeriggio di tedio sulle spiagge candide di carbonato di sodio di Rosignano Solvay (Alessandro Monaci); la fine di una storia d’amore ai tempi del grande internamento pandemico, anch’essa uguale e diversa a decine di cui abbiamo sentito parlare (o che noi stessi abbiamo vissuto), sullo sfondo di una ricerca sulle problematiche di una struttura d’emergenza ricavata all’interno di una ex-scuola elementare (Francesca Mattei); un’incursione sulle tracce del lupo in Valchiusella, che è anche inciampo nella trama di diffidenze reciproche e contrasti provocati dal ritorno dell’animale in una comunità di montagna (Bartolomeo Cafarella), ecc.
Storie che, pur nella diversità di taglio e stile, si guardano a vicenda, si rimandano l’una all’altra in una sorta di narrazione subliminale per flash ricorrenti, contribuendo anche così a insinuare un senso “ecumenico” di quella frana, ora lenta e impercettibile ora improvvisa e lacerante, con cui le cose della vita si avviano alla loro conclusione.
Nel “dittico” di Martino Pinna, sul più grande collezionista di Barbie in Italia (III) e su un ignoto gamer di rinomanza mondiale (VII) – conosciuto per caso, quest’ultimo, sul Frecciarossa Napoli-Milano, di ritorno dall’incontro col primo (o almeno così racconta Pinna) –, l’invito a leggere le due storie raffrontandole tra loro è, proprio perché implicito, quasi programmatico: per il modo in cui i due protagonisti si trovano alle prese con passioni totalizzanti, onerose, tollerate a fatica persino dai propri cari, e colte però nel momento in cui si avverte – ci si impone – che è il momento di accantonarle. Che, appunto, è giusto che finisca così: si tratti di sbarazzarsi di una collezione di oltre diecimila pezzi, raccolti in trent’anni di vita, o di abbandonare alla mercé di futuri avversari (e quindi all’oblio) un ranking virtuale conquistato a prezzo di una disciplina massacrante.
«Non dimenticarti di me. Non dimenticarti di quello che ti ho raccontato»: sono le parole con cui Giovanni, il campione di Bloodborne, si congeda dal narratore prima di andare a sbrigare le pratiche per imbarcarsi come macchinista su una nave da crociera, e che risuonano da un capitolo all’altro del libro, da una fine all’altra, a ricordare quella che resta la minima condizione di sopravvivenza di ogni passaggio su questa terra: incomprensibile forse, nelle sue ossessioni private; ma infinito e limpido, anche nelle sue meccaniche segrete, quando affidato al circuito della memoria-scrittura.
Un’altra frase che in qualche modo, ai miei occhi, condensa diversi dei reportage di È giusto che finisca così, la pronuncia invece il dottor Russo, quando, circondato dalle sue bambole più rare, proclama: «Come collezionista sono sempre alla ricerca di quello che non dovrebbe esistere e invece c’è».
Luogo di narrazioni impreviste – perché ricetto di quei detriti che raramente il temporale della storia lascia dietro di sé, generazione su generazione – è infatti la Casina delle Storie di Buti, in provincia di Pisa, oggetto del reportage fotografico di Mattia Balsamini, dove da qualche anno Alessandra Cussini raccoglie gli oggetti personalmente consegnati da visitatori che poi, nella trascrizione delle loro storie, vengono tenuti anonimi, perché «esistono storie universali in cui potersi riconoscere, anche senza sapere da chi provengono».
Nella numerazione progressiva che orienta il percorso ad anello della casa di Alessandra, dove come spiega lei c’è sempre «un luogo per ogni cosa», è dato ritrovare lo stesso principio che, nella “vertigine” cui la collana si richiama, regge l’intera raccolta di storie che abbiamo tra le mani. Centro strutturale e figurativo del libro, la collezione della Casina si percorre infatti come un ordinato cabinet di «semantiche individuali» (così Chiara Generali, a margine), un reliquiario malinconico dove riposano le speranze di senso che i rispettivi proprietari, prima di donarli o di scomparire dal mondo, hanno affidato agli oggetti in questione.
Alcuni di essi restano come la silenziosa, minima parte di un tutto, o il paradossale tutto di quel niente verso cui scivola la vita (i vasetti di terra a memoria dei parenti; la copia di un romanzo di Stieg Larsson posseduta da un “invisibile”, suo unico lascito; un braccialetto d’oro appartenuto a una famiglia finita sul lastrico e scampato alla fusione; un’anfora ammaccata sopravvissuta al terremoto…); altri si propongono come l’emblema (talvolta ironico, talaltra angosciante) di un momento o condizione terminale in cui l’esistenza del loro possessore si potrebbe immortalare (il porta-anelli sporco di terra «trovato su strada provinciale asfaltata pochi minuti dopo la fine di una storia d’amore», la cassetta di legno di ulivo appartenuta all’uomo che un giorno ha deciso di togliersi la vita sotto i suoi amati alberi in fiore; l’antico pallottoliere di un padre che, ora, invita il figlio a “farci i conti”). Altri oggetti, ancora, sono il puro residuo delle nostre modeste fughe, come tracce nella neve a ricordarci che, se non altro, da qualche parte nel tempo e nello spazio, siamo stati (una spugnetta blu rimasta fuori dall’ultimo sacco nero alla fine di un trasloco: a fianco, in evidente richiamo, frammenti di piastrelle raccolti tra le macerie del vecchio bagno demolito; o il cartoncino rosa-azzurro di un regionale Bologna-Ferrara, di ritorno come centinaia di altre volte dal lavoro, dall’università, dall’appartamento della ragazza di un tempo). Qualche oggetto, infine, sembra alludere a una metafora, a cose dette pensate o vissute al posto di altre, secondo un’idea di montaggio di ascendenza vagamente surrealista, come nella coppia costituita da una grattugia e dall’ineffabile gabbia dello zoo o testamento tenuta in piedi da pochi chiodi e fildiferro arrugginito.
«Sono solo oggetti», continua a ripetere il dottor Russo dal fondo della sua collezione votata alla dispersione, a voler convincere più che altro sé stesso, come se non sapesse che gli oggetti sono anche (a volte soprattutto) zavorre emotive, scrigni di ricordi di cui è necessario sbarazzarsi se non si vuole colare a picco con tutto il carico alla prossima burrasca. In una delle tante, splendide didascalie scritte da Chiara Generali ad accompagnamento delle foto di VIII, trovo una “nota esistenziale” che, di nuovo, getta su tutto il paesaggio circostante, sui racconti che precedono e seguono, un’ombra di significato sfuggente: «resta quello che non serve». E davvero risalendo alla luce, dopo la catabasi tra le reliquie della Casina, cominci a credere che forse, per una dura legge naturale, quello che non serve è proprio tutto ciò che a un certo punto ti resta fra le mani – laddove il proverbiale “essenziale” è soltanto ciò che non c’è più: o perché ti ha lasciato, insegnandoti la necessità di doverne fare a meno, magari di cercarlo altrove; o perché, appunto, te ne sei sbarazzato (magari donandolo a una “casina”), perché troppo tardi o troppo presto per continuare a vivere tra fantasmi che vedi solo tu.
Se il destino di ogni storia è quello di precipitare, prima o poi, nel grande falò di ciò che è stato, quell’istante di comunione fuori dal tempo che ancora ricerchiamo nella lettura resta il modo migliore di onorare la sacralità di ogni fallimento, di ogni fine: un silenzioso incontro con chi ci ha preceduti, tra fiamme che non bruciano.
AA. VV., È giusto che finisca così, CTRL books, Bergamo 2023, pp. 272, 20 €