Non è vero che sto per fare un salto culturale, mi dico pochi attimi dopo che un ausiliario della navetta da Stansted a St. Pancras mi ha indicato il binario dove dovrò attendere il treno. Non è vero, questo tizio mi ha appena risposto frettolosamente “there you go, mate”, e di colpo penso che tutto quello che mi sta accadendo e mi accadrà l’ho già visto e letto e ascoltato; sono anni che ingoio litri di cultura anglosassone in tutte le forme, il predominio schiacciante degli angloamericani nella cultura pop ha permesso loro di manifestare al mondo la loro quotidianità, il loro way of life; è un discorso che vale soprattutto per gli statunitensi, certo, ma anche per gli inglesi, anzi in ciò gli inglesi rappresentano una sorta di alternativa europea, e difatti una delle prime cose che noto due giorni dopo vagando per Leicester, mentre familiarizzo con la città, è l’onnipresenza dei campi da calcio, ogni parco ha due porte senza reti e attorno a esse c’è sempre qualcuno che gioca e se sono bambini mi chiedo dove sognano di essere, in quale stadio, per quale maglia compiono i gesti che nelle loro menti vengono trasfigurati in prodezze, se immaginano di segnare un gol contro una squadra italiana (non credo) o spagnola (più probabile). Il calcio è il filo conduttore, mi dico ogni giorno a Leicester: mi trovo nella terra di chi ha inventato questo gioco, nella nazione che vanta il campionato più bello e competitivo del mondo. Anche per questo una delle prime cose che faccio è trovare un pub vicino all’università e andare a vedere Arsenal-Manchester United. La partita è bella e intensa, finisce 3-2 per i londinesi, ma il pub è una delusione: è mezzo vuoto, la cucina è chiusa e dovrò arrangiare la mia cena in un fast food. Al tavolo davanti a me ci sono alcuni operai in tuta da lavoro, tifano per lo United, ironizzano sui giocatori dell’Arsenal; al fischio finale non c’è delusione in loro, si prendono in giro ordinando altre birre. Io sono dietro di loro e penso che Leicester sarà una sbornia semiotica. Penso a una caccia al tesoro di references: trovare esattamente l’esperienza di cui parlano scrittori, cantanti, registi; rivivere sulla mia pelle ciò di cui parlano le canzoni che ho ascoltato fin da adolescente, sperando di calzare gli eventi con precisione, senza sentirmi inadeguato a ciò a cui andrò incontro.
Durante il mio soggiorno comincio a leggere L’impiego del tempo di Michel Butor. È un classico del nouveau roman, ma anche se la prosa pur tradotta in italiano mi suona molto ‘francese’, è un libro che sento parlare chiaramente a me. La storia riguarda un uomo francese che si trasferisce in una città inglese che nella realtà non c’è, Bleston; non è difficile intuirvi immagini e luoghi di Manchester, Butor ha vissuto lì a lungo. Ciò apre un primo interrogativo: quanto Leicester assomiglia a Manchester? In generale, come si colloca questa città nel panorama delle città inglesi? Geograficamente, è al centro d’un cerchio, è circondata da una raggiera di città più grandi o più note: a nord-est c’è Nottingham, a sud si va verso Londra, a ovest Sheffield, a nord-ovest il duo Manchester-Liverpool, e poi più lontano, nel nord, Newcastle, e infine la Scozia remota e freddissima. Cercando concerti ed eventi sui social network, imparo che questo fuoco incrociato di grandi città (che percezione abbiamo delle grandi città inglesi e scozzesi che non siano Londra o Edimburgo?) impoverisce Leicester. “Vanno tutti ai concerti a Sheffield o Nottingham”, mi dice un ragazzo che ho conosciuto qui, “Leicester è uno shithole”. Non è incoraggiante, ma valuto la questione: sono venuto qui per scrivere un pezzo della mia tesi di dottorato, si può facilmente mettere tutto in prospettiva; i primi giorni sono soleggiati e ogni cosa mi sembra avere un significato, perché sono innamorato della cultura inglese, e quando si vive un innamoramento, ogni gesto, ogni azione, ogni parola sembra avere peso, sembra avere un ruolo e un compito, pare servire uno scopo che è quello di alimentare e rinnovare questa passione, giustificare questo amore; è un modo di contrastare lo scorrere del tempo e Leicester mi sembra appunto scorrere in un tempo tutto suo, più lento e monotono e dolce; c’è una poesia di Bertolucci che dice:
[…] Perché questo giorno di settembre splende
così incantevole nelle vetrine in ore
simili a quelle d’allora, quelle d’allora
scorrono ormai in un pacifico tempo,
la folla è uguale sui marciapiedi dorati,
solo il grigio e il lilla
si mutano in verde e rosso per la moda,
il passo è quello lento e gaio della provincia.
Il passo è lento anche se non siamo in autunno ma in pieno inverno, Leicester è scaldata da un sole timido che non accalora ma rincuora; la varietà dei significanti inglesi per provincia (la colazione con i biscotti al burro; i porridge; i bus a due piani; le case coi mattoni rossi) mi abbraccia e in questa sensazione si sfalda qualcosa che portavo con me da tempo: a un tratto, tutte le canzoni posh dei Blur e dei Pulp e di tutti gli altri gruppi d’argomento londinese mi sembrano meno vere (è così?), non m’interessa più la vita notturna della capitale e non ho più voglia di vedere i grandi teatri, le anteprime cinematografiche, le mostre d’arte contemporanea. Dalla provincia ero fuggito, a una provincia diversa sono approdato, dolcemente, senza rimpianti. A queste cose penso incautamente quando vado a letto, la prima settimana.
Ci penso incautamente, dicevo, perché il sole smette di splendere dopo pochi giorni e lascia il posto alla pioggia inglese, la solita pioggia inglese, la celebre pioggia inglese, l’ironica pioggia inglese. Le cose perdono concretezza sotto questa nebbiolina acquosa; in più, la lettura di Butor mi porta a diffidare del significato d’ogni oggetto; provo a concentrarmi sulle cose ma le cose cominciano a sembrare allucinazioni: i tavoli della biblioteca, i sandwich del bar, il foglio bianco di Word su cui sto provando a scrivere la tesi. L’allerta ermeneutica cessa; i luoghi, i volti, i gesti e le azioni cominciano a ripetersi; nella ripetizione perdono ambiguità e rafforzano la loro identità concreta, e per questa via perdono fascino, perché Welford Road è solo Welford Road e il pakistano che vende alimentari vende solo alimentari, così come l’autolavaggio è solo un autolavaggio; le città brulicano di storie – si sa – ma queste storie per me sono mute come le lapidi del cimitero che sorge a due passi dall’università (una ragazza mi dice che lo scorso Halloween ci è entrata coi suoi amici, cercando macabramente morti che portassero il loro stesso nome).
Non provo più l’esigenza di sovrainterpretare, non c’è alcuna polisemia da stanare, le cose non stanno più lì a significare altre cose ma diventano solo oggetti da utilizzare. L’usura delle cose, più che del tempo, mi dà la misura della durezza del capitalismo in questo paese: mi sembra che tutte le persone che conosco (ogni studente che ho conosciuto lavora) siano inseguite dalle incombenze di bollette, utilities, spesa per mangiare, l’iscrizione alla palestra… ogni gesto è ancorato alla concretezza che lo presuppone e ne dà giustificazione, e Leicester porta impressa questa condizione in ogni via, in ogni casa maltenuta che vedo, in ogni bar, in ogni insegna grossolanamente luminosa che dovrebbe attrarre i giovani… lo scopo di queste pagine è costruire una mappa, ma la mappa mi sfugge continuamente, perché non capisco più qual è lo strumento d’orientamento migliore in questa città, in questo paese, sotto la superficie che conoscevo bene pare non aprirsi più niente, mi sorprendo a canticchiare i versi delle canzoni che ho amato ma questa città ha il potere di ridurle a filastrocche sterili. L’arrivo della pioggia ha bagnato le mie povere cartucce ermeneutiche.
Sono qui per scrivere la tesi, e a un certo punto penso ad Arbasino, al suo libro sull’America (anche così mi sembra perduta la rotta: devo parlare della controcultura, non d’Arbasino che visita la California. Oppure sì?). Ricordo la sua posizione, il suo sguardo: quello di chi arriva in un posto sapendo già tutto di quel luogo. A un tratto mi sembra l’unica posizione ragionevole. Il centro di Leicester segue lo schema classico dei borghi medievali inglesi: accanto alla cattedrale, che non ho potuto visitare perché in fase di restaurazione, si trova la City Hall, sicuramente risalente all’Alto Medioevo; da questo piccolo punto nevralgico si irradia un nuvolo di stradine ben tenute, rosseggianti, ricche di pub e negozietti; la domenica è piacevole girarci, sebbene le cose da consumare inizino a sembrarmi sempre più l’escrescenza non desiderata di tutto ciò che la città produce, questa città così piena di operai e fabbriche e nient’altro, questo enorme cane placido che gioca svogliatamente a mangiarsi la coda. Non posso fare gite in altre città, i treni sono costosi; ma soprattutto la mia vita, la mia quotidianità ha cominciato a aderire senza sforzo a questo ritmo: dal lunedì al venerdì sono in biblioteca a scrivere la tesi; scrivo molto, col furore d’uno scrittore indebitato (e in un certo senso, dato che campo sulla borsa di studio da due anni, lo sono). Il sabato mi sveglio con calma, faccio colazione nell’unico bar che offre un caffè decente, vado per parchi; la domenica la dedico al centro della città. Seguo una dieta poco equilibrata, la cucina della casa mi risulta inutilizzabile perché le mie coinquiline si alternano fra smartworking e disoccupazione la occupano costantemente, con rigore militare e incuria britannica. Ascolto molto i Baustelle. Gli eventi si susseguono così, senza seconde scoperte, e i due mesi passano più o meno tranquillamente: la visita al pronto soccorso, la febbre d’una settimana è come se non ci fossero state. Lo stato d’agitazione è finito. Chiamo spesso i miei amici in Italia per ricordarmi che non sarò imbrigliato per sempre nella trama sorniona dell’urbanistica di Leicester.
Uno degli ultimi giorni è dedicato ai regali. Mi trovo in totale disarmo e decido di recarmi nel centro di Leicester. Mentre faccio il giro dei negozi vintage, mi accorgo che guardo avidamente una serie di oggetti che la città dispone per suscitare il mio desiderio: vecchi Penguins dalla copertina azzurra, le maglie delle squadre della Premier League degli anni Novanta, le borse di tela con i loghi dei Radiohead o degli Smiths. Ogni cosa che ho sempre creduto essere l’anima della provincia inglese è qui sotto forma di merce; sotto la merce non ho trovato niente. Mentre vado in giro comincia a piovere. Gli occhiali si bagnano, le gocce mi affaticano la vista; tutti si mettono a camminare frettolosamente per trovare un rifugio, entrano nel grosso centro commerciale che hanno costruito vicino alla torre dell’orologio, considerata il centro esatto della città. Ancora una volta, la percezione del tempo ha uno scarto: mi trovo in libreria, scelgo i libri in inglese da regalare ai miei amici, esco per andare a prendere il bus. La pioggia batte scintillando lievemente sul pavimento stradale; non trovo la fermata, perché è a pochi passi da un parcheggio di autobus che mi trae in inganno; infine arrivo e devo aspettare. Alcuni ragazzi vanno in giro riparandosi con la giacca sollevata al di sopra della propria testa, c’è una gran confusione… il passo lento e gaio della provincia… le vetrine sono appannate… forse sotto la merce non ho trovato niente per miopia… mi addormento sull’aereo che mi riporta in Italia, a Bari. Nel tragitto dall’aeroporto a casa, mentre chiacchiero con i miei genitori felici di rivedermi, molte zone industriali, insegne gigantesche di aziende e oleifici pugliesi. Su tutta l’Europa è stata gettata questa rete.
Qualche settimana dopo il mio rientro in Italia, mi accorgo di ripensare all’esperienza inglese come a un lungo sogno, non brutto né bello, senza suoni e incolore. Sono di nuovo a Bologna; c’è un gran sole che fa sudare; sono a Porta Pratello, per il festival delle librerie indipendenti. Tanti bambini giocano per terra, ho pranzato con un’insalata e decido di andare a prendere un caffè. Sbuco in via del Pratello, sul ciottolato del centro bolognese, ed entro in un bar. Ordino; in quel momento alcuni ragazzi e ragazze, con molta grazia, escono dall’osteria sul lato opposto della strada e vengono al bar per un amaro digestivo. Bevo il mio caffè; esco e sosto per qualche secondo in mezzo alla via, al sole. Ripenso a una domenica piovosa in un pub molto economico di Leicester, in cui ho mangiato un hamburger, mentre molte persone si radunavano attorno al televisore per vedere una partita di calcio. Avrei voluto ricavare da questa esperienza legami fra le due domeniche, ma mi rendo conto che non trovo più alcun nesso. All things must pass.