«Perché fanno questo? Perché fanno questo?!
Dicono che è cominciato tutto quando tu sei arrivata qui!
Chi sei? Cosa sei? Da dove sei venuta? Tu sei la causa di tutto questo!
Tu sei cattiva! Sei una strega!»Alfred Hitchcock, Gli uccelli
Di una certa cosa si può dire che è perturbante, o disturbante se la stessa è intesa come portatrice di disagio. La scrittura di Mónica Ojeda – ecuadoriana, classe 1988 – è tale in questo senso: porta con sé disagio, un malessere invadente e incomprensibile, a chi la incontra per la prima volta. Eppure questo turbamento non è necessariamente da intendersi come negativo, anzi, esso può scuotere e rivelare qualcosa che giace nell’inconscio provocando, secondo uno dei principi della dinamica applicato alla letteratura, una reazione uguale e contraria. Chi si imbatte in Ojeda potrebbe indugiare a lungo in uno stato confusionario, nello smarrimento, e, a loro volta, potrebbero essere le parole della scrittrice a smarrirsi se nelle mani sbagliate.
Voladoras, raccolta di otto racconti pubblicata in Spagna nel 2020 dalla casa editrice Páginas de Espuma, è il terzo titolo dell’autrice ad arrivare in Italia, ancora grazie ad Alessandro Polidoro Editore che nel febbraio del 2021 ha portato in libreria Mandibula e dopo un anno esatto, nel 2022, Nefando. La traduzione è sempre di Massimiliano Bonatto, che bene conosce e restituisce la lingua di Ojeda.
Se nei titoli precedenti la scrittrice ha raccontato il lato più morboso e osceno dell’infanzia e dell’adolescenza, con questa raccolta vuole lasciare al lettore un testo universale, che parli dell’umanità tutta, dei vizi e delle nefandezze che le appartengono. Voladoras è a tutti gli effetti un bestiario umano in cui i fenomeni ansiogeni e persecutori della società contemporanea vengono raccontati attraverso il filtro dei riti ancestrali, della sacralità andina, delle leggende orali e dei miti nativi. Eventi che si susseguono lontani nel tempo e nello spazio, come a voler dimostrare che la teoria dei corsi e ricorsi storici si basa sull’empietà dell’animo umano.
«Abbassare la voce? Perché dovrei? La gente bisbiglia se ha paura o si vergogna, ma io non ho paura. Io non ho vergogna. Sono gli altri a credere che dovrei abbassare la voce, rimpicciolirla, farla diventare come una talpa che scava, che scende giù, però io voglio andare su, capito?, come una nuvola. Come un palloncino. O come le voladoras».
Si apre così il primo racconto, Voladoras, che dà il titolo alla raccolta. Una dichiarazione di intenti dell’autrice stessa? È plausibile. Quasi come se Ojeda volesse ricordare al lettore cosa troverà tra le pagine che lo aspettano. Da subito, infatti, l’autrice chiarisce la sua poetica che sviscera il gotico andino: un genere di natura femminista che analizza tematiche contemporanee grazie a topoi del più tradizionale gotico ecuadoriano; la narrativa di autrici come Natalia García Freire, Mariana Enriquez, Fernanda García Lao, e ovviamente Ojeda, mira infatti all’alienazione dalla realtà attraverso la generazione del terrore inteso in senso lovecraftiano. Le voladoras di Ojeda sono donne ciclopiche dai lunghi capelli corvini, streghe che tutto sanno e tutto vedono e dalle montagne irrompono tra le case portando con sé notizie e profezie sibilline – «Il mistero è una preghiera che si impone». Una donna strega è presente anche nel secondo racconto, Sangue coagulato. Si tratta della nonna della voce narrante, una bambina che porta il nomignolo di Ranocchia, un’anziana che pratica aborti in condizioni precarie e per questo considerata malvagia dagli abitanti del villaggio: «Di là dal fiume la gente diceva che la nonna era una strega. Che di notte la sua testa volava sopra i tetti». Ranocchia ha una speciale attrazione per il colore rosso, in tutte le sue sfumature, e un legame profondo con gli animali che la nonna possiede. Come per i fratelli Terán, protagonisti dell’esordio di Ojeda, Nefando, l’infanzia della bambina verrà violata dalla brutalità e dall’egoismo degli adulti della storia. Questo racconto dimostra poi come l’autrice si inserisca bene nella produzione letteraria del gotico andino: oltre a un’infanzia traumatica a causa anche della perdita della madre, il legame morboso con la flora e la fauna infatti avvicina Ranocchia al piccolo Lucas, protagonista e voce narrante di Questo mondo non ci appartiene (Sur 2022, traduzione di Lara Dalla Vecchia) della connazionale e coetanea Natalia García Freire. L’opera di Ojeda e quella di Freire sono accomunate anche dal tema della morte che risolvono però in maniera diversa. Se per Freire l’uomo è malvagio e in quanto tale viene ucciso dal bambino – Lucas ammazza suo padre per vendicare la madre –, Ojeda vuole dimostrare che esiste un adulto buono e così la nonna di Ranocchia dà la vita per la nipote, come per magia rimpicciolisce perché la nipote diventi grande: «Non cammina più, non parla più, ma a volte lancia delle brutte grida come le capre la notte prima dello sgozzamento». Suggestioni simili le ritroviamo anche nell’ultimo racconto, Il mondo di sopra e il mondo di sotto, in cui un padre sciamano tenta disperatamente di riportare in vita la figlia Gabriela. L’uomo intraprende un lungo e faticoso viaggio e ancora una volta protagonista sono la natura e il potere salvifico che la domina.
La natura come riparo torna anche in La testa che vola, una storia raccapricciante in cui l’essere umano ricorda che il «mondo è un posto orribile per lasciare il proprio corpo». La vita della protagonista è sconvolta da un fatto inquietante: Guadalupe Gutiérrez viene decapitata dal padre, il dottor Gutiérrez, che per quattro giorni dopo l’omicidio ha giocato a calcio con la testa della figlia, l’unica parte del corpo della vittima ritrovata, nel giardino di casa. In un primo momento potrebbe sembrare solo il racconto di un femminicidio: una famiglia normale, una ragazzina che va a scuola in divisa – un elemento che la avvicina a Clara, protagonista di Mandibula –, un padre rispettabile, una villetta borghese, un omicidio efferato, il responsabile che confessa e viene condotto in carcere. Eppure il perturbante, l’assurdo, è lì, pronto a sconvolgere il lettore. Di notte la protagonista sente strani rumore e bisbigli provenire dalla casa ormai vuota dei vicini. Sono le umas, figure primigenie che fluttuano nell’aria e come le voladoras arrivano dalle montagne. Riescono a staccare la testa dal proprio corpo portandola in mano come un sacrificio offerto, intonano canti sacri e la loro preghiera riecheggia tutt’intorno: «fuoco, spirito, bosco, montagna». Si intuisce quindi la centralità del corpo – un punto fermo della narrativa di Ojeda – che torna anche in Canini, racconto in cui una figlia narra la morte del padre ripercorrendo il processo di lacerazione e decadenza della carne. Anche qui forme umane e animali si confondono tanto che il padre potrebbe essere un cane, Godzilla o un suo rivale: «Di notte lo lasciava ululare e abbaiare».
La riflessione sui corpi torna anche in Slasher, la storia di due sorelle gemelle, Paula e Bárbara. Paula è sordomuta e in quanto tale viene tacciata come strana, diversa, dai suoi coetanei che la considerano strega. Lei non fa nulla per smentirli, anzi, partecipa insieme alla sorella a festival musicali le cui esibizioni sono basate sul terrore e la repulsione. Le gemelle sono conosciute dal pubblico come “le barbare” e non per il prevalere dell’una sull’altra – di quella sana su quella senza orecchie e senza lingua, quella «guasta» –, ma per il loro interesse verso l’estremo e il dominio della brutalità sul raziocinio.
Il vincolo tra sorelle è presente anche in Terremoto. Lucrecia e Luciana sono legate da un amore incestuoso vissuto nella loro casa alle pendici di un vulcano attivo che fa tremare ogni cosa: «amare è tremare». L’autrice qui dà ampio spazio al simbolismo grazie a una scrittura evocativa e metaforica più vicina alla sua produzione poetica – El ciclo de las piedras (2015) – che a quella in prosa: il mondo esterno crolla sotto il peso della polvere e della cenere così come crollano i valori ritenuti tradizionali dalla società attuale.
Infine, in Soroche si vira verso un’altra tecnica narrativa e la narrazione è affidata a più voci. Un gruppo di amiche racconta di un’escursione in montagna organizzata per dare conforto a una di loro, Ana, vittima di revenge porn. Si tratta di narratrici inaffidabili perché tutte stravolte dal soroche, il mal di montagna, la mancanza d’aria che affatica e appanna la vista e i sensi tutti, e che porta con sé allucinazioni. Ognuna di loro tenta di convincere il lettore dell’attendibilità della propria versione come in un diario della persuasione e della menzogna. Al tema del corpo – stavolta quello di Ana, messo alla berlina e da lei stessa negato e ripugnato – si affianca quello della precarietà dei rapporti umani: lo squallore su cui fonda l’amicizia che solo in apparenza lega queste donne si palesa parola dopo parola e scuote il lettore dal soroche che stavolta non è causato dall’altitudine, ma dalle parole.
«Quando sei in alta quota pensi che sarà difficile vederci chiaro, ma non è vero. Vedi nitidamente quello che sei e quello che sono gli altri, vedi che laggiù è tutto piccolo e miserabile e che è da lì che vieni. Ecco cos’è il vero mal d’altitudine. Ecco cosa ti spinge a correre».
Ojeda sceglie una struttura circolare che si apre e si chiude con una storia di sortilegi, sibille, natura animale e premonitrice, la regione andina tanto surreali quanto terrene. Nessuno di tali elementi viene mai davvero abbandonato e si incarna nelle donne protagoniste di questi racconti: streghe militanti che smascherano il loro persecutore a costo di trasformarsi in sacerdotesse della violenza.
Con Voladoras l’autrice ecuadoriana è riuscita, ancora una volta, nel suo intento: destabilizzare. E lo fa, ancora una volta, miscelando con sapienza folklore e contemporaneità, sacro e profano, ciò che è nascosto dal terreno e ciò che si trova sopra di esso, tra le nuvole e i condor. Ogni parola tra queste pagine ha un peso e uno spessore tale che non potrebbe essere sostituita da un’altra diversa, né simile. Come scrive Ojeda in Nefando, «le poesie non sono gradevoli, per lo meno non quelle belle. La poesia che vale davvero la pena è quella che ti lascia cadere. È impossibile non uscire in frantumi da una cosa così». È impossibile non cadere tra queste pagine, è impossibile non abbandonarsi a una letteratura che destruttura e rende volubili: Voladoras di Mónica Ojeda è un compendio della natura umana osservata, studiata e vivisezionata attraverso immagini evocative e repellenti, che non temono di essere tali.
Mónica Ojeda, Voladoras, Polidoro editore, 2023, 15 euro.