La Sibilla di Silvia Ballestra, libro incluso nella dozzina del premio Strega e in cinquina al Premio Campiello, è una biografia di Joyce Lussu. Nata Gioconda Salvadori nel 1912 da una famiglia nobile fermana di cultura cosmopolita (tanto che i nomi italiani vengono sostituiti da altri inglesi: così Gioconda diventa Joyce), segue i genitori – convintamente liberali – in esilio in Svizzera, vicino a Losanna. È il 1925: Joyce rientrerà in Italia solo nel 1943 insieme al compagno Emilio Lussu, con il quale condividerà la vita e molte lotte dal 1938 fino alla morte del politico sardo nel 1975. Joyce ed Emilio attraversano gli anni del Fascismo, la nascita della Resistenza, l’organizzazione degli esuli e dei fuoriusciti. Tornati in Italia, a Roma, Joyce partecipa attivamente alla Resistenza; finita la guerra si dedica alla politica concentrandosi sulla condizione femminile e sui problemi dell’istruzione; successivamente si dedica alle lotte di liberazione nel Terzo mondo e traduce molti poeti fino ad allora poco o per nulla conosciuti (tra i quali Nazim Hikmet): albanesi, eschimesi, vietnamiti e molti altri. Joyce Lussu è stata anche una scrittrice, autrice di alcune raccolte poetiche (la prima, Liriche, del 1939, curata da Benedetto Croce); di testi autobiografici; di storie orali; di saggi antropologici che mettono al centro la questione femminile (Il libro delle streghe). E l’impegno per la riscoperta della storia delle donne e per le tradizioni matriarcali occuperà la fase più tarda della vita di Joyce.
Silvia Ballestra, che con Joyce Lussu ha avuto una lunga frequentazione (a partire dalle interviste raccolte in Joyce L. Una vita contro, del 1996), ripercorre con attenzione ed evidente amore le tappe della vita di questa donna dai molti talenti.
Il libro si compone di dodici capitoli, una introduzione, un post scriptum e una nota bibliografica. La struttura è perlopiù lineare, con diverse analessi e prolessi spesso brevi. La parte maggiore del libro copre gli anni dell’esilio dei Lussu e della Resistenza. Gli ultimi tre capitoli invece attraversano gli anni dal 1948 alla morte di Joyce, nel 1988. Ognuno di questi si concentra sull’attività dominante di Joyce nel periodo corrispondente: l’attivismo negli anni Cinquanta, la traduzione e le attività politiche terzomondiste nei Sessanta, la ricerca etnografica e storiografica successivamente.
Nei primi due capitoli sono invece prevalenti le acronie, creando a tratti un andamento a matrioska o a spirale, dove un piano temporale ne contiene un altro anteriore, e via così, fino a tornare poi al piano iniziale. In questo modo Ballestra può riassumere gli anni giovanili della sua protagonista senza dare l’impressione di tirare via o di tralasciare elementi: gli aspetti più importanti appaiono infatti motivati dalla visione retrospettiva della narratrice, che può giustificare una selezione a tratti rapsodica in funzione di ciò che sta raccontando.
Tra biografia e agiografia?
Questa tecnica ha però un risvolto semantico interessante: la vita di Joyce Lussu appare finalizzata sin da subito; gli eventi del passato sembrano segni o anticipazioni, in una logica che appare quella della predestinazione, in un’intensificazione della natura retrospettiva tipica del racconto biografico. Il libro sembra muoversi su due piani contrastanti: l’avvicinamento alla figura di Joyce, e un distanziamento. L’avvicinamento avviene sin da subito partendo con tic linguistici: la protagonista, suo marito, gli altri membri della famiglia vengono chiamati per nome; gli altri per cognome. L’autrice dà così un senso di confidenza e intimità con i suoi personaggi. D’altra parte l’immagine di Joyce, della sua famiglia, del suo compagno Emilio Lussu, è talmente luminosa da – talvolta – abbacinare il lettore, che può arrivare, con una punta di malizia, a chiedersi: ma questa è una biografia o un’agiografia?
Ballestra è autrice di bellissimi romanzi e di saggi altrettanto interessanti. A differenza di molti altri scrittori, non si spinge mai a miscelare i due piani con opere di bassa finzionalità — opere nelle quali il confine tra fatto e finzione è incerto e il livello narrativo rielabora e altera il dato oggettivo (non scrive insomma La scuola cattolica, non scrive M o Vite che non sono la mia). Nondimeno in questo libro la forma narrativa è presente e interseca la dimensione propriamente saggistico-informativa, anzitutto grazie a un tratto tipico dei romanzi più recenti: l’iperesposizione del narratore che risulta, per usare l’efficace formula di Filippo Pennacchio (Eccessi d’autore), «eccessivo». Eccessivo per una biografia, dato che continuamente interviene e indirizza la lettura e l’interpretazione, e per il rifiuto della posizione solitamente neutra che di solito assume in testi di questo tipo. Un narratore identificabile agevolmente con l’autrice in carne e ossa, che interviene di frequente con ricordi personali e brevi digressioni che legano la figura di Joyce ai grandi problemi del nostro tempo. Il che è sì, con Genette, un segnale di non-finzionalità, ma anche una ulteriore marca dello strabordamento dell’autore nel campo letterario contemporaneo.
Ecco: forse la cosa che più distacca La sibilla da un “normale” testo informativo, oltre all’andamento fortemente narrativizzato, è proprio lo sguardo fortemente situato di Ballestra. Situato nel nostro tempo, e che guarda a Joyce per parlare dell’oggi. La domanda di fondo del libro, infatti, sembra essere: cosa può dire a noi abitanti di questo millennio Joyce Lussu, una figura molto legata al proprio tempo, alle grandi vicende del Novecento? La stessa costruzione del libro, che dà lo spazio più ampio al giro d’anni della Seconda guerra mondiale, sembra radicare Joyce in quel momento storico non solo per il valore formativo che ebbe. Pure, la scrittrice e attivista viene convocata come anticipatrice di un certo pensiero femminista; di una storiografia minima attenta ai (soprattutto, alle) marginali e alle fonti etnografiche e/o orali; capace infine di indicare e addirittura prevedere il disastro ambientale che oggi viviamo.
La Sibilla diventa così anche un libro sulle grandi questioni del dibattito odierno: antifascismo come militanza; crisi climatica; questione femminile. Il punto di vista è quello del progressismo in senso lato, e certo si potrebbe vedere nella Sibilla un altro libro che si appoggia a una doxa “di sinistra” per predicare ai convertiti, e rassicurare il lettore sulla correttezza (ideologica) delle sue opinioni. Ma è una prospettiva interessante? Non leggiamo (si spera) I promessi sposi perché apparentemente mettono in guardia dai rischi del mettersi ne’ tumulti; né Orgoglio e pregiudizio perché afferma l’autodeterminazione della donna. Vero: La Sibilla non è una prova all’altezza di questi due testi, ma non è nemmeno un libro di cassetta. Esso si situa nello spazio della letteratura «media “di qualità”» (per riprendere l’espressione utilizzata da Ferretti nel suo Il bestseller all’italiana, 1983), che si rivolge a un pubblico ampio e non specialista. Una certa linearità ideologica è, anche, frutto di una scelta di pubblico: come nell’Ottocento il romanzo prende tratti «figurativi», che ingrandiscono e semplificano per venire incontro a un pubblico più ampio (Mazzoni), così accade in parte oggi (su questo la lezione di Spinazzola resta utilissima). Forse conviene avvicinare il testo non per i contenuti manifesti ma per i suoi elementi formali e chiedersi cosa sottendono questi ultimi. E, anche, chiedersi cosa significano certe assenze.
Ballestra infatti da un lato monumentalizza Joyce Lussu, dall’altro attraverso la sua biografia evidenzia una serie di problemi che sono oggi sentiti come particolarmente urgenti (e il legame tra storia e presente è esplicitamente evocato verso la fine del libro, quando si parla di revisionismo). È, questa, caratteristica dei romanzi storici, ma qui lo spazio d’invenzione e ancor più quello propriamente romanzesco sono evitati. Si evoca il topos della vita come romanzo, tuttavia il libro sembra continuamente sottolineare proprio che non è un romanzo.
Come si è visto per gli anni di formazione giovanile, analizzati per lampi e in funzione del dopo, così la parte centrale del libro è come la preparazione dell’impegno sociale e culturale assunto da Joyce dal Dopoguerra in poi. Il valore dato alle attività resistenziali è quello di un apprendistato morale e prima ancora pratico, morale perché pratico. La domanda del libro, in effetti, potrebbe essere trasformata in: Che cosa può fare per noi abitanti di questo millennio Joyce Lussu?
Il romanzesco evitato
Nel racconto troviamo Joyce che fugge dal Fascismo e poi vaga per l’Europa in guerra; che vive la presa di Parigi da parte dei nazisti e segue il marito in clandestinità; che falsifica passaporti e si addestra per diventare un agente segreto di Sua Maestà; che attraversa la linea Gustav; che maneggia esplosivi. E poi seguiamo Joyce che scandalizza i compagni progressisti chiedendo che ai suoi comizi partecipino anche le donne; Emilio Lussu che fugge dal confino; Joyce che incontra Emilio per la prima volta durante una missione in incognito… tutto materiale che potrebbe dare vita a scene avventurose, comiche, romantiche se non apertamente melodrammatiche; tutto materiale potenzialmente romanzesco. Invece Ballestra sembra evitare accuratamente la tentazione del racconto-racconto. Tutti i momenti di tensione, di potenziale trattamento romanzesco, sono raccontati con particolare distacco dalla narratrice (che invece in altri momenti non esita ad accalorarsi), la quale tuttavia ne sottolinea proprio le potenzialità romanzesche.
Si veda come assomma le esperienze della coppia durante l’esilio:
A piedi, in treno, in aereo, su un motoscafo, Joyce ed Emilio, per tutta la guerra, viaggiano nell’Europa occupata dai nazisti. Volano, navigano, camminano. Marciano moltissimo. Parlano lingue che non sono la loro. Incontrano contrabbandieri, zingari, profughi, malavitosi, soldati, diplomatici, spie, compagni, brave persone, perseguitati politici (62-3).
Un sunto di romanzesco che potrebbe benissimo originare un Barry Lindon (o quel romanzesco epicizzante che è Il partigiano Johnny) si risolve in un sommario che nomina soltanto la varietà delle esperienze.
Il romanzesco è evocato come possibilità, ma mai realizzato davvero. Altrove si parla di un incidente in auto subìto da Joyce: Ballestra ricorda che in quegli anni, e nel punto dove avvenne l’incidente, agiva un malvivente che provocava incidenti per rapinare successivamente le vittime: «Che la famiglia Lussu sia stata vittima inconsapevole dei famosi “incidenti del km 47” provocati da Picchioni?», scrive, per subito bloccare ogni suggestione di coincidenze davvero romanzesche con «Non lo sappiamo e non lo sapremo mai». Poco oltre, l’incidente è ricondotto a «uno di quei rischi quotidiani, ordinari» (161).
Fare o pensare
Uno dei punti centrali del testo è l’insistenza con la quale Ballestra torna sull’importanza dell’azione, del fare contro il puro ragionare.
In un passaggio interessante, Ballestra collega la relazione tra Joyce ed Emilio alla comune lotta politica, e questa all’azione: sottolineando l’eccezionalità della coppia (e riversarsi dunque in quel filone epico del libro di cui a breve dirò) finisce per vedere nella storia «rocambolesca» dei due prima e più che «un libro di azione e di guerra, con molte avventure dentro», «un grande libro d’amore». Un amore basato, appunto, sull’azione, quell’azione così centrale nel testo: essenziale per la vita della protagonista, che anzitutto fa (e fa anche nelle sue attività più riflessive, come Ballestra sottolinea). La politica più interessante per Joyce (e per Ballestra) è quella «di base e dal basso, pratica, concreta, effettiva» (172).
La «cultura libresca» (30) allora è opposta a quella, pratica appunto, di Emilio e Joyce, che partono sì da un «contesto» politico ma poi riescono a trasformarlo in «azione» (36) ed è quest’ultima a valere. Addirittura le poesie di Joyce sono «vissute» (106-7), collegando la produzione letteraria e teorica alla prassi: non un’esperienza che si fa, come direbbe Contini, trascendentale, potenzialmente universale, ma una esperienza che testimonia anzitutto sé stessa. Se il pensiero novecentesco legava teoria e prassi in un legame dialettico, qui i due momenti sembrano sconnessi: Ballestra riconosce che vi è un legame, ma è come se l’apparato del pensiero ostacolasse, o almeno non favorisse, il risultato dell’azione. Tra vita e pensiero, insomma, c’è uno iato che nei fatti è incolmabile.
Probabilmente questa visione è frutto, come buona parte del suo sguardo fortemente situato, della storia (culturale e politica) più recente: alle analisi acute (soprattutto delle sconfitte, ma non solo) la sinistra non ha opposto delle pratiche politiche davvero efficaci. Di qui credo un certo sospetto per gli apparati analitici meno immediatamente spendibili, meno facilmente applicabili — incidentalmente lo si vede anche nello sviluppo delle theories contemporanee, fortemente volte a un’azione il più possibile diretta, non mediata, sulle coscienze. I limiti di questa impostazione emergono in modo mi pare involontario quando si racconta l’opera di denuncia di Joyce delle condizioni pessime di donne e bambini nel Dopoguerra. Nonostante i molti interventi a riguardo di Joyce, che arringa folle, scrive articoli e libri, parla con i politici, quella condizione non si risolve (per molti versi non si è risolta ancora oggi). E però alla denuncia (l’azione) segue, un po’ stranamente, la «speranza» (172): come se ci si rendesse conto che l’atto pratico in sé non basta, che l’atto andrebbe inquadrato in un progetto, collettivo e pubblico. Che probabilmente Joyce ha provato a mettere in piedi: ma non l’ha fatto. Così resta la speranza, con anche il lato consolatorio che tale termine include.
La cosa curiosa è la discrasia che si crea tra stile e idee in questo libro. Il romanzesco agisce estroflettendo; spostando sulla scena pubblica, visibile e concreta, il centro d’interesse del racconto. Dunque il senso appare attraverso dialoghi, gesti, insomma azioni. E però tanto l’azione è importante per Ballestra a livello teorico, quanto essa è assente nella concreta costruzione narrativa. Come mai? L’ipotesi è che questa biografia non tenda, come tanti scritti a bassa finzionalità, verso il romanzo, ma verso un’altra forma narrativa, l’epica. Un’epica individualizzata, soggettiva anche, ma comunque epica.
Epica, non romanzo
Joyce, si legge in apertura, «è stata il Novecento», inteso come secolo breve. Un momento di conquiste sociali e civili, indubbiamente, un momento in cui le masse hanno indirizzato o contribuito a indirizzare, almeno in parte, la vita sociale e politica delle nazioni. Parlando dell’evasione di Lussu leggiamo che questa «è la storia come deve andare» (42), ma viene facile generalizzare all’intera vita della protagonista, e alle sue battaglie.
La vita di Joyce è la vita come deve andare, sembra dire Ballestra. Al punto che il racconto vira all’epica: l’eccezionalità della protagonista, certo, e quella della sua famiglia. L’eccezionalità del marito Emilio e del loro amore. I genitori sono perfetti, il nucleo famigliare è caratterizzato da una generale armonia; la figlia è una figlia modello (nessun contrasto, qui, anzi: Joyce si sente perfetta se ha l’approvazione dei genitori); la stessa realtà abitata dalla famiglia Salvadori è una realtà più avanzata non solo di quella coeva dell’Italia fascista, ma per molti versi di quella del nostro tempo: i Salvadori sono antifascisti, illuministi, cosmopoliti, agnostici, tolleranti, capaci di eccellere in tutto quello che fanno. La madre di Joyce, in un anelito francescano, doma i cavalli «con la gentilezza» (25). Anche il fatto che tutti assumano nomi inglesi in sostituzione di quelli italiani indica una sorta di trasfigurazione (l’eroe si spoglia della propria identità per assumere quella, nuova, che rappresenti anticipi e condensi la comunità). Figure eccezionali, eroi secondo la stiltrennung classica, quindi perfetti perché eroi.
Ciò che fa Joyce è sempre giusto: i documenti falsi che produce durante la clandestinità sono «impeccabili […] infallibili» (76).
Ed epica è anche la trattazione dell’antifascismo: lo spazio preponderante che occupano gli anni dell’esilio e della Resistenza significa anche il valore fondativo di quell’esperienza: per Joyce, ma – traslando – per la comunità cui Ballestra si rivolge. Non a caso il regime è descritto come uno spaziotempo dominato dalla stasi: «E frustrazione e impotenza sono sensazioni note a Joyce: il regime ha cercato di imporgliele ma lei le ha sempre combattute, cercando in tutti i modi di contrastarle con l’azione» (17). Antifascismo come azione; azione come motore ideologico e pratico.
La storia di Joyce è la storia che ci ha portato qui oggi. Ma è tutta la storia? Il Novecento è stato anche il secolo degli stermini di massa, dei colpi di stato attuati o tentati, delle repubbliche delle banane, del napalm sui civili, del soffocamento di quelle istanze libertarie ed emancipatrici in nome della politica dei blocchi e della stabilità geopolitica. Joyce, dunque, la Joyce restituitaci da Silvia Ballestra, non è stata il Novecento: è stata il Novecento migliore. Perfetto, ottimo, assoluto. Eroico, ed epico.
Dico «la Joyce di Ballestra» perché il ritratto è, in virtù della funzione fondativa del testo e della sua protagonista, se non monco a tratti indulgente.
Manca l’ironia che contraddistingue le opere d’invenzione di Ballestra (dalla Guerra degli Antò fino, ancorché in termini meno forti, ai Giorni della rotonda). E se è vero che nella scrittura saggistica Ballestra utilizza strumenti diversi, è pur vero che nel raccontare una persona la letteratura ha spesso insistito sui tratti ambigui del reale — e ancor più del soggetto. L’idea di un Io scisso o almeno attraversato da spinte contrastanti qui viene respinto. La complessità di Joyce è tutta nei suoi molteplici talenti e interessi.
Le contraddizioni riguardano al più il mondo, come nel caso dei rapporti tra partiti progressisti e questione femminile nel Dopoguerra: Ballestra descrive l’indifferenza e il fondo di maschilismo che domina anche nei partiti di sinistra. Le eventuali, potenziali contraddizioni di Joyce vengono tutte respinte. Si veda il primo matrimonio di Joyce con un avventuriero fascista o semifascista, che la donna segue in Africa. Ballestra rileva che Joyce non ne parla nei suoi pur numerosi racconti autobiografici né nei colloqui avuti con lei: sottolinea la scarsa importanza dell’avvenimento e arriva a lanciarsi in un brano metanarrativo che puzza un po’ di giustificazione:
Cosa scegliere […], cosa mostrare dei fatti accaduti, cosa metterci dentro […] Quanto vogliamo condividere dei nostri sentimenti, dei nostri eventuali errori? Un’autobiografia deve necessariamente essere una specie di confessione? […] A quali vicende diamo più peso? E soprattutto cosa ci ricordiamo? […] Un matrimonio annullato è importante? Oggi diremmo proprio di no […] (50)
Se è ovviamente legittimo escludere qualcosa da un’autobiografia, e la pura trasparenza è impossibile, non si può non essere un po’ sorpresi nel vedere negato (in quanto «pratica gesuitica») il valore anche confessorio che molte autobiografie hanno; e ancor più nel sentir suggerire che Joyce potrebbe essersi dimenticata del proprio primo matrimonio (il quale, peraltro, le impedì per un certo tempo di sposarsi con Lussu). Se se ne dimentica, non è perché se ne scorda, ma per una vera e propria rimozione. Infatti una volta terminato il racconto delle avventure africane, Ballestra inserisce due poesie di Joyce che riguarderebbero proprio il primo matrimonio (nel primo il nucleo tematico è l’inganno perpetrato dall’io lirico nei confronti dei suoi cari; nella seconda l’io lirico scrive: «ho amato e creduto. È un errore»). Dunque Ballestra può concludere che sì Joyce «rimuove l’errore, ma è severa con sé stessa, è una di noi, del nostro tempo» (58). Contraddicendo in parte il brano precedente, che sottolineava la legittimità di escludere ciò che si preferisce dal proprio racconto autobiografico, qui l’avversativa evidenzia che in realtà l’omissione è in certa misura un errore, «ma» compensato dalla severità del giudizio di Joyce su sé stessa.
A un certo punto Ballestra riporta alcuni giudizi degli addestratori del servizio segreto britannico su Joyce, definita come «sostenuta da un odio fanatico per il fascismo», 90). E subito la narratrice chiosa: «piccola notazione: “fanatico” o “esaltato” sono termini spesso usati per tradurre l’inglese fanatic, ma personalmente ritengo più appropriati “appassionato”, “radicale”, “intransigente”, soprattutto pensando a due persone come Joyce ed Emilio». Pure, l’Oxford English Dictionary riporta come primo significato “un individuo caratterizzato da uno zelo eccessivo e ossessivo, in particolare per una causa estremista religiosa o politica”. D’altra parte più avanti (120 ss.) si illustrano idee piuttosto estremiste: Joyce osservando la vita agiata dei ricchi a Capri nel tardo ’43 pensa con discreto favore a un attentato al caffè in piazzetta; in un’altra citazione leggiamo «io volevo fare la rivoluzione». Insomma, direi effettivamente un fanatico antifascismo, una rivoluzionaria fanatica. Che poi non sia passata dalle parole alle azioni è se mai un aspetto interessante. Che viene alla luce quando, nella Roma ancora occupata, Joyce decide di volere uccidere un nazista, ma nel momento fatale cambia idea.
Un simile evento potrebbe aprire a una riflessione sulle spinte contraddittorie che abitano un essere umano, specie in tempi eccezionali. Ma invece no, scivola via senza essere indagato o spiegato. In questo libro non c’è spazio per la contraddittorietà dell’uomo: appunto, abbiamo davanti personaggi eccezionali, eroi.
La non banalità del bene
Cosa succede, dunque? A un certo punto Ballestra racconta di uno degli evasi da Pianosa con Emilio Lussu che, nel rievocare l’impresa, fa cadere un prezioso vaso cinese del suo ospite. La scena con i suoi risvolti comici fa dire alla narratrice: «Si può raccontare non da eroi» (43). Una storia eroica può essere raccontata in modo comico, o romanzesco appunto. Qui invece abbiamo l’epico, abbiamo la messa tra parentesi o la revoca di ogni incertezza, ambivalenza, dubbio. Come mai? L’ipotesi che avanzo è un legame tra stile e condizione politica: nell’epoca della retorica roboante del regime fascista, si predilige l’understatement; nell’epoca dell’understatement dominante, come la nostra, s’insiste invece sulla retorica “alta”. Una retorica che prende spunto, certo, dal giudizio ammirato dell’autrice su Joyce Lussu, che alimenta quell’ammirazione e che ne è alimentata. Ideali, azioni, stile, tutto converge. L’immagine è limpida e cristallina, e però proprio questo incrina l’umanità del personaggio, la capacità per il lettore di empatizzare. Qui si può solo restare ammirati. D’altra parte questa è “la storia come deve andare”: con una scelta di parole stranamente simile a quella di un passo celebre della Poetica di Aristotele, ripreso dai teorici d’ancien régime, per legare i personaggi alla verosimiglianza come biénseance: la poesia rappresenta le cose come dovrebbero essere, e l’accento cade sul dover-essere. Fuori dell’ambiguità del romanzo moderno (, davvero dentro una specie d’epos.
«Sarà banale dirlo, ma di uomini e donne di questo tipo non ne nascono molti in un secolo» (100). Ecco, La Sibilla è un libro sulla non-banalità del bene. Scritto senz’altro con l’intento di onorare una figura dimenticata della nostra storia, e – per rispondere alla domanda su cosa può fare Joyce per noi – per insegnarci come mettere in pratica i nostri ideali in un’epoca che vede la scissione tra virtù analitiche e prassi, specie nella sinistra, il libro, come la vita della sua protagonista, è anzitutto una «lezione» (7).
Tuttavia proprio per la perfezione della figura di Joyce, proprio la non banalità del bene rappresentato da lei, da suo marito, dalla sua famiglia, sembrano situare questo orizzonte al di fuori delle nostre possibilità di comuni mortali. Possiamo certo aspirare a diventare come Joyce, ma l’impresa a tratti sembra così ardua da spingere subito alla rinuncia. Insidiati dalla nostra difficoltà a concentrarci su un compito, dalle nostre contraddizioni, dalle spinte e controspinte che ci lacerano, al confronto di figure così luminose rischiamo di sentirci irrimediabilmente incapaci. Anche se quella luminosità è probabilmente un effetto ottico, a volte ci abbaglia, e ci fa sbagliare strada.
Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Laterza, Roma-Bari 2023, 248 pp. 18,00€