La storia di Jonathan Lethem ricorda quella di un personaggio di Jonathan Lethem. Cresce leggendo cinque libri a settimana, uno al giorno per ogni giorno di scuola nel lungo pendolaraggio in metropolitana verso il suo liceo a Manhattan. Lavora in una libreria dell’usato della sua nativa Brooklyn nel cui seminterrato, dice la leggenda, è conservata la biblioteca perduta di HP Lovecraft. A vent’anni abbandona l’università in Vermont e attraversa l’America in autostop per unirsi alla nascente Philip K. Dick Society, dedicata a preservare l’opera di uno scrittore che avrà un’importanza cardinale sulla sua poetica.

Lethem è un lettore (ma anche un appassionato di cinema, musica, e arte) di una voracità e conoscenza esagerata, quasi ingiusta. Un Umberto Eco pop e americano, o ancor meglio newyorchese. Come i critici, gli scrittori e gli artisti che popolano i suoi romanzi, dal Perkus Tooth dell’enigmatica Chronic City al Dylan Ebdus della claustrofobica Fortezza della solitudine, Lethem sa cogliere i lati più oscuri e significativi dei cartoni animati e del punk rock anni ‘70, della fiction pulp postmoderna e della fantascienza controculturale – ma sa anche sorprendersi, in maniera quasi ingenua, per gli aspetti più atroci e folli che caratterizzano la banalità del quotidiano.

Amensia Moon (1995), tradotto da Martina Testa e ripubblicato di recente da minimum fax in una nuova edizione, è un romanzo che cattura bene questo miscuglio di fascino e sgomento così centrale nell’opera di Lethem. Un testo giovanile, esuberante, estroso, che esibisce un entusiasmo quasi adolescenziale per il potere disorientante della fantascienza più psichedelica, e al tempo stesso una curiosità tanto acerba quanto potente per gli aspetti più elusivi ed ineffabili della psiche umana.

Per far capire quanto esuberante sia Amensia Moon basta menzionare il fatto che, almeno in superfice, questo non sia tanto un romanzo, ma quattro o cinque messi insieme. (Lethem ottenne il germe dell’opera combinando una manciata di racconti brevi.) A più riprese nel corso del libro, la narrazione immediata e confortevole che ci ha accolto nelle prime pagine – una road novel post-apocalittica dove un protagonista alcolizzato di nome Chaos attraversa un deserto radioattivo assieme a Melinda, mutante dodicenne coperta da una fitta peluria – viene sospesa, negata, capovolta.

Uno degli aspetti vincenti di Amnesia Moon è dunque il suo saper tener viva l’attenzione del lettore in mezzo a tutti questi cambiamenti, ossia in mezzo a una storia che viene continuamente riscritta, di capitolo in capitolo. Da un lato, il disorientamento che questo genera, mentre assieme a Chaos e Melinda attraversiamo una miriade di “microcosmi” – il deserto radioattivo delle prime pagine è, tra tutti, il più familiare – ricorda l’incertezza ontologica della fiction di Philip Dick: un tipo di narrativa in cui i confini della razionalità e della percezione diventano plastici, molli. In cui è impossibile dire se ciò che i personaggi stanno vivendo sia sogno, realtà, o allucinazione – e in cui si comincia a dubitare che sia poi fattibile trovare la linea di confine tra queste categorie.

Dall’altro, questi continui cambi di scena, in cui i personaggi cambiano fisicità, identità, e in primis i propri ricordi, strizzano l’occhio alla fantascenza straniante della serie TV anni cinquanta The Twilight Zone, altra influenza importantissima per Lethem. C’è sempre qualcosa di sinistro nei cambiamenti che i protagonisti attraversano: un senso pervasivo che essi (e noi con loro) siano privi di un tassello fondamentale per risolvere il puzzle della realtà che li circonda; e che, non appena questo tassello sarà rinvenuto, questa confusione di mondi in conflitto si risolverà in un plot twist tanto elegante quanto sconvolgente.

Che il colpo di scena da Twilight Zone giunga o meno a spiegare gli innumerevoli paradossi di Amnesia Moon non è compito della recensione rivelare. (Direi al massimo, e direi già troppo, che spetta forse al lettore deciderlo.) Quello che è certo è che, come la migliore letteratura, Amnesia Moon utilizza la propria strana, sconcertante storia – e l’amnesia selettiva che ha colto il suo mondo in rovina – per sondare alcune delle questioni profonde e irrisolvibili della natura umana. Sono i nostri ricordi a renderci ciò che siamo? O ciò che conta è come utilizziamo il presente, l’unico spazio che ci è concesso abitare? Chi plasma la realtà che viviamo: noi stessi, o gli altri? E possiamo davvero dirci, oggi, le stesse persone che eravamo quando eravamo giovani, e credevamo in altri ideali, e amavamo una persona che a malapena ricordiamo? Non è un caso che Amnesia Moon sia ossessionato dai nomi (Chaos ne cambia almeno tre nel corso del libro), essendo il nostro nome forse l’artifizio più grande che mette insieme i pezzi del nostro esistente, a formare la convincente illusione che la vita che viviamo è una sola, uniforme.

Queste questioni di identità al centro di Amnesia Moon non appaiono mai vuote e autoreferenziali, ma sono anzi declinate in riflessioni argute, caustiche, e memorabili. Lethem condivide con altri maestri del genere, primo fra tutti Thomas Pynchon, la capacità di essere politico anche quando parla di faccende intime, persino psicologiche. C’è una fortissima vena parodica in Amnesia Moon, dove Chaos incontra ben più di un politicante affamato di potere, e pronto a sfruttare l’incertezza di un mondo dove la realtà è mutevole e irrisoria per vendere alla gente modelli di vita semplici e rassicuranti nella loro neurotica ingiustizia. In una delle zone che Chaos e Melinda attraversano, una comunità accecata da una fitta nebbia verde vive nella speranza che la propria leader conceda loro l’ingresso nell’unico edificio in cui l’aria è mantenuta artificialmente limpida. In un’altra la popolazione di un sobborgo californiano è costretta a cambiare casa e lavoro ogni tre giorni, e vive ossessionata da una casta dominante che combina le funzioni di celebrità, classe politica, e polizia. Non è un caso che gli unici personaggi immuni a queste narrative, e capaci dunque di muoversi liberamente per il territorio, siano un hippie e un eroinomane, entrambi disinteressati fin da prima della post-apocalisse alle grandi narrazioni della società e del quotidiano.

Ma prima ancora di essere satira sui politici-celebrità, prima ancora di un romanzo di fantascienza schizoide o una road novel alternativa, Amensia Moon è un romanzo sulla letteratura stessa, o meglio sulla fiction: l’opera di un giovane scrittore, apprendista stregone, in egual misura affascinato e spaventato dal potere della propria arte. (L’amnesia, ci ricorda Lethem in uno dei suoi saggi, è forse la malattia più letteraria che ci sia: elemento chiave di innumerevoli trame da Julio Cortázar a Octavia Butler, la sua versione romanzesca è pressocché inesistente nella realtà medica.) Perchè che cos’è la fiction, se non l’immergersi nel sogno di qualcun altro, l’abitare una realtà che non è la nostra? Libri, videogiochi, manifesti politici: tutte realtà in cui entriamo e usciamo di continuo, con la facilità e naturalità con cui Melissa e Chaos entrano ed escono dalle più incomprensibili zone di irrealtà e confusione.

Amensia Moon è il tipo di romanzo che si scrive, a diciannov’anni, se si è cresciuti leggendo cinque libri a settimana.

È difficile evadere, in conclusione, una domanda che sorge spontanea quando si parla dell’opera giovanile di un autore destinato a scrivere alcuni dei romanzi di più grande impatto (oltre che, ritengo, tra i più belli) del ventunesimo secolo, senz’altro americano. Vale la pena leggere Amnesia Moon nel 2023?

Fino a qualche settimana fa, prima della mia rilettura, avrei risposto che Amnesia Moon è un romanzo per fan: ottimo per chi di Lethem adora la prosa post-punk, l’umorismo cuastico ma sottile, la capacità di collassare i generi senza mai rinnegarli. Confesso che, quando ho scoperto che la minimum fax aveva puntato ancora su questo romanzo con una nuova edizione, la scelta un po’ mi ha sorpreso. Credo se ne sorprenderebbe un poco lo stesso Lethem, che nell’introduzione alla raccolta di saggi L’estasi dell’influenza menziona proprio Amnesia Moon tra i suoi romanzi che, com’è naturale sia, sono pronti ad essere consegnati alle nebbie del tempo, e a scomparire dagli scaffali.

Avendolo rivisitato, mi sento invece di dire che Amnesia Moon merita la nuova edizione. E non solo perchè i suoi antagonisti, primi fra tutti i suoi politici-vip, sono oggi più forti che mai; nè per il semplice e ovvio fatto che a leggere fuori pista, e a dimenticare i premi letterari, si scoprono spesso gemme che risuonano unicamente con le nostre esperienze e gusti.

Amnesia Moon è un romanzo giovane e ambizioso – e quindi imperfetto. Il suo ritmo è un po’ goffo, con certe scene chiave liquidate in pagine così brevi che si rischia quasi di perderle. È poi difficile scrollarsi di dosso il senso che si stia leggendo quattro o cinque buone idee fuse insieme un po’ di fretta. (Il capitolo sulla nebbia verde è, paradossalmente, sia il più memorabile del romanzo che il peggio integrato con il tutto.) Se mi si chiedesse da che romanzo approcciare Lethem non menzionerei certo questo (Brooklyn senza madre è un buon punto d’inizio), e aggiungerei un asterisco a indicare Amnesia Moon come di particolare interesse a chi già apprezzi le avventure psichedeliche a là Richard Brautigan e Angela Carter.

Ma è proprio la sua natura di opera giovane a infondere fascino e vivacità ad Amnesia Moon, e a renderlo una bella scoperta, o riscoperta. Amnesia Moon è il genere di libro che riaccende l’entusiasmo giovanile per le letture più strane e disparate: per una narrativa che sappia essere pari alla stranezza del mondo, e rendere giustizia agli enigmi dell’esistente. Un entusiasmo, questo, che è sempre giusto tenere vivo.


Jonathan Lethem, Amnesia Moon, traduzione di Martina Testa, Roma, minimum fax 2023, 17€, 278 pp.