Ammettiamolo. Tutto l’anno di attività della nostra rivista ha come unico scopo arrivare a questa mirabilante settimana di consigli. Che si conclude, come d’abitudine, con la prosa: un po’ romanzi, un po’ racconti e un po’ saggi.
Ecco gli ormai leggendari consigli di lettura estivi a cura della redazione.
Ci prepariamo per la ripresa di settembre, con nuovi progetti in cantiere. Ma prima, un po’ di riposo.
Buone vacanze dalla ciurma!
Claudia Petrucci, Il cerchio perfetto, Sellerio (Ambrogio Arienti)
Dopo L’esercizio (La Nave di Teseo, 2020), esordio dalla prosa elegante che raccontava un labirintico triangolo amoroso, Claudia Petrucci conferma il suo talento con Il cerchio perfetto (Sellerio, 2023), romanzo dalla struttura ben più ambiziosa – più rotondo e complesso nelle intenzioni, nella forma, nello stile. La trama è bipartita: Petrucci racconta la storia di Lidia, bellissima e giovane donna che muore in un disgraziato incidente nel 1986, poco dopo aver inaugurato la sua nuova villa costruita insieme a Dario, amante e architetto animato da un’estetica visionaria, in via Saterna a Milano (l’indirizzo non sarà nuovo ai lettori buzzatiani); e quella di Irene, curatrice fallimentare quarantenne, che in un futuro prossimo non precisamente definito si reca nel capoluogo lombardo per vendere la villa di via Saterna, rimasta sfitta per anni. Le due storie, lontane l’una dall’altra una trentina d’anni o poco più, finiranno per intrecciarsi, perché il ricordo, il fantasma di Lidia, disperata per amore, finirà per tornare, percorrendo una città ormai trasformata e spaccata dagli effetti del cambiamento climatico e di politiche scellerate. Petrucci gioca con diversi moduli romanzeschi, dal distopico al dramma borghese, e trova così il modo di accordare una voce rara, forse unica nel panorama odierno. Un libro consigliato a chiunque voglia innamorarsi di una giovane, talentuosissima autrice.
Francesca Capossele, L’abitudine sbagliata, Playground 2023 (Giulia Sarli)
Maria, Lalla e Bruno passano l’infanzia nel quartiere dei palazzi costruiti vicino al fiume; un quartiere maledetto, si dice. Crescono, si trasferiscono in una città più grande dove l’incontro fatale con Luis fa deflagrare i loro destini. Tutto è già compiuto (o forse no, se è vero che le storie non finiscono), quando Luis parte per il Nord con una cicatrice sul braccio e quando il signor Franchini, padre di Bruno, decide di andare in soffitta e aprire le gabbie dove sono rinchiusi i suoi canarini, a cui nessuno ha mai insegnato a volare. Quell’ unico tentativo costa loro la vita. L’abitudine sbagliata è una vocazione alla sofferenza, che però è forse anche l’unico modo per avvicinarsi alle storie degli altri. La scrittura di Francesca Capossele, fluida ed essenziale come l’acqua dolce del fiume che descrive, ferisce per la sua capacità di non alzare mai la voce, scavando immagini che restano impresse nel profondo. Capossele (classe 1958) ha esordito nel 2017 con 1972; del 2019 è Nel caso non mi riconoscessi. L’abitudine sbagliata è il suo terzo romanzo.a storia senza linearità, un immaginario senza staticità.
Carl Theodor Dreyer, Gesù. Il film di una vita, trad. M. Vanelli, Iperborea 2023 (Elisa Teneggi)
Che cosa siamo disposti a fare pur di dare un ordine ai giorni che si impilano uno sull’altro? Sembra l’inizio della logline di un film, e in un certo senso è la premessa della storia più potente nella società occidentale, nascita vita e morte di Gesù di Nazareth. Non è un caso che proprio il cinema abbia saccheggiato più volte il materiale biblico, producendo opere come L’ultima tentazione di Cristo (Martin Scorsese, 1988), La passione di Cristo(Mel Gibson, 2004), e Brian di Nazareth (Terry Jones, 1979). A ogni nuova narrazione, la storia è presentata come contrapposizione tra paganesimo e religione rivelata, Ebraismo e Cristianesimo incipiente, potere temporale e potere spirituale. Oltre a queste chiavi di lettura, però, ce ne può essere un’altra, più adatta per leggere i nostri tempi. A mostrarcela è Gesù. Il film di una vita, sceneggiatura del film mai realizzato di Carl Theodor Dreyer sulla vita di Gesù di Nazareth, pubblicata quest’anno da Iperborea e “assemblata” con tre edizioni del testo, di cui dà ben conto il curatore Marco Vanelli in una breve nota introduttiva. Non si pensi che il testo di Dreyer, tra i primi maestri del cinema e di fatto codificatore delle riprese in primo piano, si ponga ambizione di esaustività rispetto a quanto contenuto nei Vangeli, né che giunga con sentore documentario, scevro di interpretazione da parte del regista, qui anche nelle vesti di sceneggiatore. Tutt’altro: i dettemi morali si collocano alla base dell’opera del regista danese, che condivide con lo scandinavo Ingmar Bergman la capacità di instillare il sacro anche nelle tematiche profane. Nonostante questo, l’interesse di Dreyer per la vicenda di Gesù potrebbe risultare contro logica per un uomo che si è sempre definito “ideologicamente conservatore” e che ha affermato: «Non credo nelle rivoluzioni. Hanno la tediosa caratteristica di riportare le cose indietro, invece che muoverle in avanti. Io credo nell’evoluzione, nei cambiamenti che avvengono passo dopo passo». Se di regola, però, i grandi commenti sui personaggi storici possono arrivare solo dal partito a loro ideologicamente opposto, Dreyer è la mente perfetta per decostruire la figura di Gesù. E infatti la sceneggiatura del mai-fu-film mette in risalto sia la proposta radicalmente nuova della sua presenza nella Giudea occupata dai Romani e dalla frequente corruzione delle autorità pubbliche, che l’aspetto che, nell’era di internet, non esiteremmo a definire complottismo: il metronotte Zanfretta che dice di essere stato rapito dagli alieni per portare un messaggio alla razza degli uomini, Red Ronnie che chiama in causa le scie chimiche per spiegare la devastante alluvione in Emilia-Romagna di questo maggio. Alla fine è davvero questione di fede. Conviene leggersi la sceneggiatura di Dreyer, e se qualcuno volesse pure girarla, benvenga.
Alba de Cèspedes, Quaderno proibito, Mondadori 2022 (Alaska Libreria)
Meritoria ripubblicazione di Alba De Cespedes negli Oscar Mondadori, la collana dei libri fondamentali, ridisegnata da poco e rammodernata nelle grafiche. Parliamo di un titolo più che celebre ai tempi della prima pubblicazione (1952), poi dimenticato: Quaderno Proibito, che aggiunse fama alla già famosa scrittrice italo-cubana, spina nel fianco dei fascisti, rubricata per via delle vendite abbondanti e dei temi “femminili” e “sentimentali” sotto la sminuente voce di scrittrice di libri rosa, come fosse una Liala o un Guido da Verona. Basterebbe questo libro a riaprire il discorso col nostro passato letterario, oggi che le donne gelate e gelificate hanno preso giustamente la ribalta (Nobel di Annie Ernaux), una retrospettiva sui risultati libreschi nostrani confermerebbe densità e puntualità stupefacente. Nella storia che vi suggeriamo, trascinante e tensiva (e anche estiva, certamente) abbiamo una donna degli anni Cinquanta, stretta tra i compiti dell’accudimento e del lavoro: faccende su faccende, figli da mantenere, marito da sostenere, e niente pensiero, niente tempo. Basti dire che l’idea di tenere un diario e di non dirlo a nessuno le fa venire i brividi le palpitazioni. E non a torto. Scrivere le rivelerà un mondo diverso, allargherà la sua coscienza, la creerà si può dire. Con tutto quello che ne consegue. Tutt’altro che un romanzo rosa, questo libro parla delle relazioni familiari e sentimentali, dei rapporti di forza generati dal denaro, dello spazio dei segreti, delle ideologie che incatenano. Usciamo dalle pagine, dopo aver trepidato fino alla fine, con un sospiro di sollievo; pensiamo che quel passato è trascorso, che possiamo essere liberi ora, per fortuna, e subito dopo ci coglie l’allarme, ma sarà così? ci chiediamo, e allora ci viene da acuire lo sguardo, di verificare, d’indagare semmai in noi e attorno a noi, per l’aria anche, se viaggino ancora le stesse schiavitù
Raffaele La Capria, Un giorno d’impazienza, Mondadori 2023 (Niccolò Amelii)
Mondadori riporta finalmente in libreria Un giorno d’impazienza (nella collana degli Oscar moderni), opera prima di Raffaele La Capria che non veniva ristampata da 41 anni (ultima apparizione nell’edizione Einaudi Tre romanzi di una giornata, datata 1982). Romanzo breve (o racconto lungo, che dir si voglia), Un giorno d’impazienza apparve nel 1952 e impose immediatamente La Capria all’attenzione della critica. Si era in piena stagione neorealista e lo scrittore faceva il suo ingresso nella nostrana repubblica delle lettere con un esordio sui generis, che sfuggiva alle etichette in quel momento imperanti. Un giorno d’impazienza è, infatti, un romanzo d’impianto modernista, che guarda fruttuosamente anche a Camus e a Moravia, raccontando – mediante il monologo interiore di un narratore omodiegetico iperanalitico e però inattendibile – ventiquattro ore di turbamenti e inquietudini di un giovane “impaziente”, che vorrebbe emanciparsi dal proprio stato di intorpidimento esistenziale per fare il suo pieno ingresso nella vita, nella maturità, nella storia. Tuttavia, la grigia Napoli laurina del dopoguerra e i paludamenti politici frenano ogni entusiasmo, l’intelligenza da sola non basta a fare l’uomo se tutto il resto è finzione, camuffamento e frustrazione dei sensi. La Capria si interroga – sovrapponendo voci, tempi, luoghi – sui dubbi e sulle reticenze di un’intera generazione – la sua – venuta fuori dalla guerra priva di certezze a cui aggrapparsi, sulle ambivalenze e sulle connivenze della vecchia e nuova borghesia partenopea, ma soprattutto su ciò che può fare il desiderio quando alla base viene a mancare ogni scatto di volontà e, nella più totale latitanza dei sentimenti, non resta che aggrapparsi alle elusive immagini di sé riflesse negli specchi.
James Welch, L’ultimo giorno di Jim Loney, trad. N. Manuppelli, Mattioli 1885 2023 (Sergio Peter)
Vi invito a leggere un romanzo appena uscito per Mattioli 1885, L’ultimo giorno di Jim Loney, con traduzione di Nicola Manuppelli. Libro pubblicato nel 1979, è una delle migliori espressioni della letteratura nativo-americana, forse il suo capolavoro, finalmente riscoperto. Preziosa la prefazione di Jim Harrison, altro grande dimenticato. La storia è ambientata ad Harlem, Montana, nei pressi della riserva di Fort Belknap e parla di Jim, un indiano mezzo-sangue che cerca di ritrovare un posto nel mondo. Alcol, spaesamento, solitudine. Paesaggi desolati. L’imperdonabile frattura identitaria su cui poggia la storia del nuovo continente. Romanzo crudo, forte, sono certo che vi sorprenderà. Lingua e struttura essenziali, ma anche apparizioni di volatili scuri, che rimandano a un passato mitico impossibile da recuperare. Sicuramente non una lettura da ombrellone, ma senz’altro una freccia capace di mostrare una visione diversa dell’America e toccarne le ferite ancora aperte ai suoi margini.
Greta Pavan, Quasi niente sbagliato, Bollati Boringhieri 2023 (Giacomo Raccis)
Ho cominciato a leggere il romanzo d’esordio di Greta Pavan perché in quarta di copertina si dice che offre un ritratto vivido e impietoso della Brianza, i dintorni in cui anche io, come la protagonista (e come l’autrice), sono cresciuto. In realtà, a parte qualche toponimo, non ci ho trovato molto dei luoghi della mia adolescenza e nemmeno della mia esperienza di vita, senz’altro privilegiata. Qua infatti prevalgono la spietatezza dei rapporti sociali, l’ottusità del pensiero (misogino, patriarcale, materialista), la miseria dei mezzi di sostentamento. Tratti che non risparmiano nemmeno gli anni dell’infanzia, dove l’ingenuità dello sguardo rende ancora più crudele la manifestazione della meschinità. Quel che più mi ha sorpreso però in queste pagine è la precisione della scrittura, sempre in equilibrio tra la secchezza della denotazione feroce e uno slancio metaforico misurato, e per questo più puntuale. E fa niente se in realtà Quasi niente sbagliato non è proprio un romanzo, ma piuttosto una raccolta di racconti a cornice (come sembra suggerire il blurb di Sandro Campani). Anzi, a pensarci bene, è meglio così.
Francesco Piccolo, La bella confusione. L’anno di Fellini e Visconti, Einaudi 2023 (Massimo Cotugno)
Premetto che non sono un lettore di Francesco Piccolo e ad attirarmi è stato soprattutto l’argomento cinematografico. Di certo parlare di Fellini e Visconti non è affare particolarmente originale e si potrebbe pensare a un’operazione un po’ nostalgica su “gli anni di che belli erano i film”, per citare Pezzali. L’opera di Piccolo si rivela però fin da subito come il fortunato distillato di un lavoro di archivio e ricerca durato diversi anni, in cui l’autore vuole dimostrare una tesi: Otto e 1/2 e Il Gattopardo sono opere che trascendono il cinema. I due film che per molti rappresentano l’apice della cinematografia italiana e anche lo zenit da cui inizia lento ma inesorabile il declino del nostro cinema, vengono girati contemporaneamente nel 1963. Incredibile il numero di vicende che li lega. Prima fra tutte Claudia Cardinale: musa di entrambi i registi e costretta a dividersi tra i due set come un trofeo o una Elena di Troia contesa da divinità capricciose. Da una parte c’è Fellini, glorificato dal successo mondiale della Dolce Vita, ma ora preda di una profonda crisi artistica. Dall’altra abbiamo l’aristocratico Visconti e la sua estenuante ricerca della perfezione. Due mondi lontanissimi che non possono che entrare in collisione. Esattamente come le fazioni politiche del tempo, che li scelgono come propri campioni e ammantano i loro lavori di forzati messaggi ideologici. Tra tanta sfavillante pellicola c’è però anche molta letteratura, come Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, prima snobbato dalle case editrici, poi disprezzato dalla sinistra e infine reso immortale da Visconti. Ci sono poi gli scrittori dietro ai film, Flaiano per Otto e ½ e Suso Cecchi d’Amico per Il Gattopardo. Naturalmente la tentazione di Piccolo di entrare in scena è forte, così alcune pagine sono dedicate alla sua formazione cinematografica e al suo personale incontro con le due opere: “Fellini era vicino, Visconti era lontano (…) Fellini mi raccontava che si poteva tentare di esprimersi, Visconti mi raccontava che non si poteva. Erano due modi opposti di affascinarmi.” Questa intromissione nella storia da parte di Piccolo è però giustificata dalla tesi che vuole dimostrare: Otto e ½ e Il Gattopardo sono in fondo due autobiografie in cui ognuno può rispecchiarsi.
Robert Darnton, Editori e pirati. Il commercio librario nell’età dei Lumi, Adelphi 2023 (Andrea Brondino)
In Editori e pirati, Robert Darnton torna ancora una volta a “casa”, nella Francia del XVIII secolo. Se nei saggi precedenti su libri proibiti e censura Darnton si era già occupato a lungo del tema, nel suo ultimo libro lo studioso pone il mercato editoriale del ‘700 francese al centro della sua attenzione. Il quadro che emerge dalla narrazione avvincente di Darnton restituisce l’immagine di una piccola grande guerra, ricchissima di zone grige, tra un’editoria parigina dotata di privilegi di pubblicazione in esclusiva e un’internazionale di editori pirati che copiano e rivendono gli stessi titoli in tutta Europa, sotto costo e sotto banco. Senza pirati, i libri e le idee degli Illuministi non si sarebbero diffuse; al tempo stesso, con le loro pratiche imprenditoriali spregiudicate i pirati incarnano alla perfezione un certo tipo di “capitalismo predatorio” (l’espressione è di Weber) che, una volta istituzionalizzato, ha fatto scuola fornendo modelli per le business school del XX e XXI secolo. Nello scontro fra editori regolari e pirati (ma i ruoli sono spesso più fluidi di così: qualche regolare spesso acquista versioni piratate dei propri libri per rivenderle sottobanco, mentre molti pirati sono editori del tutto regolari nei Paesi di provenienza, mancando leggi sul copyright) non è difficile intravedere, con molte differenze e qualche continuità, simili contrasti tipici dell’era di Internet. Più di tutto, emerge il ruolo fondamentale che i pirati hanno avuto non solo nella diffusione di idee libertarie, ma anche nell’abbattimento di legislazioni antiquate, fondate su privilegi di casta, in ambito editoriale. Piccola nota finale: se i colti pirati (metaforici) di Darnton non bastassero a convincerci di un rapporto sostanziale tra Illuminismo e vita corsara, si consiglia di ricorrere ai pirati (letterali, questa volta) del recente e provocatorio Pirate Enlightment di David Graeber.
Noor Naga, Come dividere una pesca, Feltrinelli 2023 (Stella Poli)
Come dividere una pesca è diviso in tre sezioni da fogli di guardia scuri. Hanno tre focalizzazioni, tre strutture, tre toni differenti. Raccontano la stessa storia, senza inversioni, ma con ampie ellissi.
Come dividere una pesca si apre in una cucina di Shubra Khit, minuscolo paesino dell’entroterra egiziano, dove una madre sta dividendo una pesca in quattro, per le quattro persone presenti.
Da quella sera cambierà il numero degli spicchi: la nonna si suiciderà entrando nel forno, il ragazzo partità per il Cairo. Qui incontrerà la ragazza dai capelli rasati, che ha studiato alla Columbia, ed è tornata alla ricerca di qualcosa che nemmeno sa bene cos’è, lei che è nata negli States e parla un arabo antico e impacciato. S’innamoreranno, quei due, finché gli riuscirà.
Come dividere una pesca è un romanzo sui giorni della rivoluzione araba e sui loro strascichi, sulla maestosità del disordine del Cairo, sul privilegio di classe e sulle dipendenze. La prima parte è piena di dettagli e immagini a tratti surreali, à la Milorad Pavić, la seconda di note a piè di pagina su nodi della cultura araba che ci sfuggirebbero, la terza – forse la meno trascinante – offre una serie di riflessioni metanarrative fra i tic del discorso culturale occidentale, quasi a strapparci definitivamente dagli spicchi del Cairo.