C’è stato un momento in cui gli storiografi e i nerd del cinema hanno vissuto in tachicardia. Dopo Interstellar (2014) – o forse parzialmente con, Interstellar – Christopher Nolan sembrava aver inaugurato una nuova fase della sua autorialità, concentrata su film di azione spettacolare ed esperimento con il medium fisico (e non) del cinema. Dunkirk (2017) e Tenet (2020) sono performance sensoriali, più che sogni di celluloide. Allucinazioni che sono servite soprattutto a creare nuovi stan o detrattori del regista britannico: o con Nolan o contro Nolan. O con gli autori o con i film di genere. O mi addormento con Tenet, o con Dunkirk.
L’anticipazione (e le ansiette) che circondavano Oppenheimer, il nuovo lavoro di Nolan, nelle sale italiane dal 23 agosto, erano dunque giustificate: il nuovo film poteva segnare la disfatta di alcuni teorici, il trionfo di altri. All’ingresso in sala, il dado era tratto tra due sponde di un fiume: che Nolan avesse cominciato a fare un po’ schifo come intrattenitore, perso nei meandri delle sue visioni spazio-temporali; che Oppenheimer sarebbe stato il film dell’anno, forse del decennio. Il tutto fomentato dalla parziale uscita contemporanea a Barbie di Greta Gerwig, altro film circondato da hype aura mistica, questa volta, però, soprattutto grazie ai soldi di Mattel & accolades e alla campagna pubblicitaria monstre che era stata montata attorno all’uscita. “Parzialmente” perché in quasi tutto il mondo i due film uscivano il medesimo giorno. Ma figurarsi se l’Italia poteva.
Al netto di queste nozioni di base, riassunto per chi si fosse perso le puntate precedenti. Oppenheimer è il film di Christopher Nolan che racconta gli sforzi e le trafile legate alla costruzione della bomba atomica americana, la “bomba che avrebbe messo fine a tutte le bombe”, quella sganciata su Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Per farlo sceglie il punto di vista storico e personale di J. Robert Oppenheimer, “padre della bomba atomica”, fisico teorico che guidò il gruppo di scienziati del Manhattan Project attraverso i dilemmi pratici e morali del fare ciò che, per la scienza e i quadri militari del Governo statunitense, andava fatto: diventare morte, come dichiarò Oppenheimer stesso alla riuscita del Trinity test il 16 luglio 1945. Frase che anche Cillian Murphy, il ragazzo dagli occhi bluissimi di Peaky Blinders, ora nelle vesti di J. Robert, pronuncia: «Now I am become death, the destroyer of worlds». Curioso, forse non serendipico, che la frase provenga dal Bhagavad Gita, libro sacro Hindu, pronunciata da Vishnu per indicare che solo il divino ha il potere di premere un bottone, sì, come gli scienziati a Los Alamos, però un po’ diverso. La concezione Hindu del tempo non è lineare, e “ricominciare”, in questo sistema, ha valore letterale. Death come palingenesi e cicli dell’anima, mondo di spirali ascendenti e discendenti, proprio come lo figurava William Butler Yeats tra “secondi Avventi” e dèi greci che rifecondavano il mondo sotto forma di cigni.
Nolan non cita le scritture indiane quando parla della sua creatura, però non è nozione da cinefili incalliti che il regista abbia, giusto un po’, passione per i collage temporali. E dunque anche Oppenheimer è narrato a scatole intersecanti, con un presente narrativo che si colloca ben al di là del Trinity, ben oltre i bombardamenti sul Giappone. Il flashback parte dal 1954, e dalle udienze maccartiste che accusano Oppenheimer di aver sempre simpatizzato eccessivamente con i comunisti e le idee portate dal vento di Russia – anche perché, nel suo team, fu trovata una talpa sovietica. Si capisce subito, però, che le mire politiche superano il semplice “Oppenheimer buono-cattivo”. Le macchinazioni di potere sono immesse nell’equazione da Lewis Strauss (Robert Downey Jr., gli addetti ai lavori già vociferano Oscar), presidente dell’Atomic Energy Commission e principale antagonista di J. Robert dato il rifiuto di questi di sostenere il progetto per lo sviluppo della più distruttiva bomba-H. Ad alternarsi sullo schermo, i punti di vista di questi due giganti, in una cavalcata epica tra passato e presente, tra ricordo e verità, per creare la mitologia di una Prometeo contemporaneo (come recita la biografia di J. Robert Oppenheimer American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer di Kai Bird e Martin J. Sherwin, su cui Nolan ha basato la sua sceneggiatura) e celebrare, ancora una volta, l’abilità di Nolan nel mettere in scena personaggi più grandi della vita stessa.
Il tutto senza far ricorso a soluzioni in CGI per lo straordinario set di immagini che, tra esplosioni atomiche ricostruite per via di inquietante fedeltà e collisioni tra atomi partoriti dal cervello di Oppenheimer, fanno gridare alla meraviglia. Come quella volta che un treno minacciò di investire un gruppetto di spettatori parigini direttamente dal telo bianco di proiezione. Il cinema, in fondo, serve anche a questo.
E d’altronde nulla può essere ordinario in un film girato in parte con pellicola IMAX 65mm, in parte con IMAX 70mm e, per la prima volta nella storia, in IMAX bianco e nero. La dedizione al mestiere merita la visione in una sala, appunto, IMAX, e spero che potrete averne una vicino allo scoccare dell’O-Day, Oppenheimer Day, anche per l’Italia. Compreso nel biglietto avrete un viaggio su montagne russe degno del Katun di Mirabilandia – cioè, lo dico per riferimento culturale, io su quelle robe mica ci salgo. Nolan si dimostra, anche per Oppenheimer e dopo Tenet, uno se non uno dei pochi seri utilizzatori delle potenzialità del Dolby Atmos.
E nulla può essere ordinario nel film che racconta la vita di uno come Oppenheimer, che regolare non lo era proprio. A partire dal fatto che, come racconta Nolan in un’intervista al New York Times, il suo nome non sembrava il più papabile per guidare il carrozzone del Manhattan Project. «Penso che l’ambizione di Oppenheimer fosse più vasta del suo intelletto, e stiamo comunque parlando di uno dei più brillanti della sua generazione. Non era il migliore con la matematica. Non il migliore con la fisica quantistica. Era tra i migliori, ma non era il migliore. Non aveva mai vinto un Premio Nobel. Tanti dei suoi contemporanei, invece, sì. Ma la sua ambizione era la migliore, la più riconosciuta. Credo che [la ragione per cui è stato messo a capo del Manhattan Project] sia stata proprio la sua ambizione, unita alla sua capacità di capire e interpretare gli altri scienziati. Li conosceva tutti. Era una persona che sapeva usare il suo charme. […] Era in grado di riassumere discussioni lunghe e complesse in poche parole, e di portare la discussione subito al passaggio successivo. Era un orchestratore, ed era indispensabile per la buona riuscita del Project».
Nulla può essere ordinario in un film che Richard Rhodes, Premio Pulitzer per The Making of the Atomic Bomb, largamente considerato il racconto definitivo della corsa di Los Alamos, ha definito “first-class work”, “la cosa meno sbagliata tra tutte quelle che ho visto”.
Vabbè, a questo punto si capisce: qualcosina di ordinario, purtroppo, in Oppenheimer c’è. Sono le linee di storia guidate da Emily Blunt e Florence Pugh, moglie (Kitty Oppenheimer) e fidanzata/amante di J. Robert (Jean Tatlock) rispettivamente. Il personaggio di Blunt è ridotto alla macchietta della donna sedotta e abbandonata, e neppure affidarle alcune delle battute migliori del film riesce a renderla del tutto convincente. Per Pugh le cose si mettono anche peggio, visto che, disgraziatamente, gli atti amorosi tra Tatlock e Oppenheimer staccano le prime scene di sesso mai girate da Christopher Nolan. Basti dire che proprio memorabili non sono, o che le profezie più accorate degli spettatori si sono avverate. Il lettore ci scuserà se citiamo come fonte quel tabloidaccio del New York Post, ma quando uno scova un tweet gustoso bisogna dar credito: “Sono preoccupato che Christopher Nolan non sappia che cosa sia il sesso e che abbia fatto stare gli attori in piedi uno di fronte all’altro, nudi, a premere i pollici sulla fronte dell’altro”.
L’altra pecca di un film altrimenti perfetto rimane nell’aria, è più subdola e atmosferica. Oppenheimer è un compito ben svolto, anzi, straordinario. La sensazione, però, è che non ci ricorderemo molto di questo film, se non la terribile crasi in stile Brangelina, Barbenheimer, usata per descrivere l’uscita concomitante con il film di Gerwig, o gli occhioni blu di Cillian Murphy. Per i pidocchietti delle date e delle visioni d’insieme come chi scrive, l’aggancio sta in un grido di salvezza, il Titanic che non affonda, l’ultimo giro di boa: Oppenheimer sembra aver interrotto la pericolosa periodizzazione di Nolan come “un primo” e “un secondo”, dove il secondo si intende – giochiamo a carte scoperte – deteriore. Dunque Yes, he’s back. Speriamo ancora a lungo. Speriamo con altri grandi film come e meglio di Oppenheimer. Speriamo con qualcosa che riesca, la prossima volta, a farci rigare il volto di lacrime.