Con la raccolta di racconti Il Cristo iracheno, l’editore milanese Utopia prosegue con la pubblicazione italiana delle opere di Hassan Blasim, scrittore e regista formatosi a Baghdad, prima rifugiato e ora cittadino finlandese. I suoi libri, scritti in lingua araba, sono finora usciti solo in traduzione (quella italiana è a cura di Barbara Teresi).

A differenza del precedente Allah 99 (Utopia, 2021), nel quale la figura del personaggio-autore era maggiormente presente, sia nella sua difficile condizione di esule all’estero, sia nella cornice narrativa di un blog in cui venivano raccolte testimonianze di vita di persone fuggite o rimaste in un Iraq dilaniato dai conflitti (andando quindi a formare un romanzo volutamente frammentario) , ne Il Cristo iracheno Blasim opta per una soluzione più convenzionale e immediata: racconti incentrati sulla vita (e spesso la morte) nel paese tra gli anni ’90 e 2000. Il dialogo tra due voci nel racconto Parole crociate ricorda le interviste di Allah 99; un costante sottofondo – quasi un basso continuo – di dramma ed orrore permea entrambi i volumi ma ne Il Cristo iracheno esso non viene stemperato dall’autoironia, caratteristica del racconto diretto dei narratori bensì si esprime in una solennità funerea e impersonale da fiaba nera.

L’Iraq dal «volto miserabile» è rappresentato come il luogo in cui «le guerre e la violenza erano diventate una macchina fotocopiatrice e tutti portavamo la stessa maschera, forgiata dal dolore e dal tormento»; un luogo senza speranza, nel quale la miseria quotidiana finisce per trasfigurare la realtà stessa, deformandola grottescamente.

In Allah 99, un personaggio attribuisce alla scrittura dell’alter-ego di Blasim l’etichetta di «realismo magico nero», definizione quanto mai calzante per i racconti di quest’ultimo libro, narrati alternando prima e terza persona. L’ambientazione rimane di una brutalità iperrealistica – città distrutte e sventrate dai bombardamenti, waste lands belliche e interni nei quali la calma apparente è sempre in bilico – ma i personaggi che appaiono sono spesso in comunicazione con un orizzonte onirico o favolistico. Il contatto tra la realtà e l’immaginazione sembra reso possibile proprio dalla perenne atmosfera di precarietà, che assottiglia e buca la trama del Reale.

In questo territorio di transizione è possibile incontrare dei Jinn, figure mitologiche intermedie tra divino e umano che possono intervenire nel mondo terreno; è possibile assistere a racconti al presente dal punto di vista di personaggi che poi si dichiarano già morti o fantasmi reincarnati in corpi diversi; addirittura può esistere una figura christi (dal racconto che dà il titolo alla raccolta), come nei vangeli odiata e vituperata ma portatrice di speranza, salvo poi essere costretta ad un attentato suicida, in un sacrificio che non ha nulla di salvifico o escatologico, riaffermando la condanna dell’umanità alla sofferenza.

Le incursioni nei confini del sacro e del mito non sono altro che brevi lampi che illuminano per un attimo il mondo desolato degli uomini, di torturatori, jihadisti, truffatori e innocenti sopraffatti: le loro vite si avvicendano con la rapidità e la transitorietà di schegge, frammenti in una detonazione.  La psicologia dei personaggi è segnata da una certa rassegnazione al destino, alla traiettoria discendente con la quale il paese e il suo popolo inevitabilmente si dirige verso la distruzione; che sia per i conflitti interni o le ingerenze estere, per le scelte individuali o la travolgente fiumana dei grandi eventi. I subitanei istanti di epifania non possono che durare pochi secondi in un universo narrativo nel quale se si sogna troppo si è subito considerati pazzi o appartenenti a un’altra dimensione.

«In più di un’occasione ho sentito dire che la vita va avanti, cammina, naviga o magari si trascina. Le nostre vite, invece, sono esplose come petardi. Disseminate nel cielo di Dio, Colui che scrive i destini, il Grande cannone da bombardamento».(posizione Kindle 107-109)

In un mondo in cui l’illusione della divinità è appannaggio di «fedeli o piagnucoloni che muoiono di fame e sopportano qualunque cosa in suo nome», l’unica soluzione è «imparare a essere Dio», perché «questa vita è una stronzata. Se muori oggi o tra trent’anni, non fa alcuna differenza. L’importante è l’oggi, è riuscire a vedere la paura negli occhi degli altri. Sono quelli impauriti che ti daranno tutto».

I cosiddetti “forti”, ne Il Cristo iracheno si fanno portatori di questa volontà di potenza realizzabile solo in un mondo esploso ma la loro morale altro non è che un tentativo di venire a patti con l’azzeramento delle loro prospettive nell’attesa della morte, unica vera forza democratica e pacificatrice.

Lo stile di Blasim in questi racconti è asciutto senza essere spezzato, essenziale ma non minimale. La forza evocativa delle metafore e delle similitudini emerge in maniera preponderante seppure accompagnata da una disillusione e un’amarezza da mozzare il fiato.

«Il loro linguaggio ci ha avvelenati. Dovremmo limitarci ad abbaiare, smettere di capire le loro parole. Tutte quelle figure retoriche e sciocche metafore. Il professor Osso aveva ragione: gli uomini possono mettere qualsiasi parola accanto alla parola vita, parole buttate lì senza riguardi, che denotano una certa pigrizia intellettuale. È così che si innamorano, e cantano, scrivono libri e muoiono, prigionieri delle loro metafore fin dalla notte dei tempi. Ripetono le stesse vecchie canzoni: la vita è un viaggio, la vita è una scala, un mulino, una nave, un giardino, un cimitero. La vita è un libro. La vita è una galassia. […] Non c’è parola che non stia bene accanto alla parola vita. La vita è una merda. La vita è diarrea. La vita è un albero. […] Perché la vita è spazzatura e fiore nello stesso spazio-tempo. E se ci fosse una sola parola che non si adatta a vita, quella parola sarebbe la chiave per arrivare al segreto di questi umani. Una parola soltanto, o Signore della merda, non c’è una parola che non possa essere sommata matematicamente senza portare a un risultato simile: la vita è una strada, la vita è un veleno, la vita è una nuvola, la vita è un tunnel, la vita è un cesso…». (pos. 1000-1014)

La prosa è matura e ben ritmata; si fa tesa e sincopata nei momenti di terrore, per poi elevarsi in commenti gnomici e speculativi ai quali approda gradualmente, senza far percepire eccessivo lirismo o retorica.

Le vicende che si intrecciano ne Il Cristo iracheno non possono che colpire chi legge per la loro straordinaria vividezza, né possono lasciare indifferenti ai temi trattati (guerra, terrorismo, morte, inganni, rinuncia alla normalità).

Ciò che contraddistingue la narrativa di Blasim non è un generico anelito alla vita, alla sopravvivenza, quanto una fiducia incrollabile, seppur con alcuni tentennamenti, nel potere della parola letteraria come forza trasfiguratrice e donatrice di senso, della metafora come forma di conoscenza oltre-logica, sotterraneo fiume di inchiostro che scorre carsico tra le rovine del mondo.

Quando la realtà lascia senza parole, la letteratura riesce sempre a colmare il vuoto, emerge la necessità umana di imprimere un marchio nel presente, che possa aiutare a sentirlo senza dovere necessariamente viverlo e che possa durare – se si crede ancora – un po’ più di chi scrive.


Hassan Blasim, Il Cristo iracheno, trad. B. Teresi, Utopia, Milano 2023, 140pp. 18,00€