Per essere un autore di cinema, e italiano per di più, Matteo Garrone ha una qualità del tutto particolare: è capace di guardare l’altro. È da Terra di mezzo, il suo esordio al lungometraggio del 1996, che il regista romano ci abitua a mondi che non sono i suoi, ma a cui dà voce attraverso quel processo che André Bazin, dalle pagine dei Cahiers du Cinéma, non avrebbe esitato a definire neorealista: un immagine-fatto, in cui, seppur nella finzione, o al massimo con attori non professionisti, le cose vengono lasciate scorrere. Compito di chi sta dietro alla lente è fornirlo dei mezzi migliori per esprimersi, e raccontare la propria verità.
Non è forse un caso che Garrone citi il seppur controverso, bizzarro neorealista Rossellini tra le sue maggiori influenze. Non è un caso che l’unico suo lavoro di una qualche ispirazione autobiografica sia stato il secondo lungo, Ospiti (1998), in cui due ospiti albanesi trovano riparo nella casa di un fotografo – dove il “fotografo” era Garrone stesso. E che ogni storia sia acchiappata come per sentito dire. Raccontata con un punto di vista interamente diegetico, narrativamente quasi impossibile per l’assenza di commento. Eppure Garrone lo tiene. Non lo molla.
Forse in questa capacità fuori dai canoni per il cinema contemporaneo – che soprattutto su lidi italici si orpella di fraseggi grandiosi, recitazioni da banco di scuola, e grandeur da chi ti va e arraffa Fiume – c’è lo zampino della passione di Garrone per le fiabe. Non è realismo magico, intendiamoci. Ma il legame con il fatato del regista di Dogman va ben oltre il titolo da carriera, Il racconto dei racconti o Pinocchio che sia. Si infila nei sogni in inquadratura dei protagonisti, che incicciscono la realtà, ne aumentano gli strati “fattuali”. Forse è per questo che, paradossalmente, i film più steccati degli ultimi anni siano stati proprio gli ultimi menzionati, che di tutta fiaba si componevano. Il mondo dov’era? Senza il mondo, Garrone non sa proprio stare.
La riprova di questo bisogno di terra sembra trovarsi nella materia che ha dato origine a Io capitano, ultimo lavoro del regista, in Concorso per il Leone d’Oro all’80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Scritto da Garrone stesso con Massimo Gaudioso e Massimo Ceccherini (sì, proprio quello), Io capitano è la storia quasi scontata di due adolescenti del Senegal, Seydou (Seydou Sarr) e il cugino Moussa (Moustapha Fall), che decidono di imbarcarsi sulla tratta maledetta che, attraversando prima il Sahara, poi il Mediterraneo, li porterà sulle coste della Sicilia e dunque al sogno dell’Europa. Scontata per modo di dire. Il termine giusto, forse, potrebbe essere tristemente nota, oppure ipermediatizzata. E bisogna fare molta attenzione a non far accavallare i campi. Perché questa vicenda non ha proprio nulla di scontato, e anzi, come ha dichiarato Garrone, è stata creata come un “controcampo dall’Africa verso l’Occidente”, per lanciare una sfida ad alcune cose che crediamo di sapere, altre che vorremmo sapere, sui folli voli per sottrarsi a un destino che, crescendo a Dakar in una famiglia non agiata, parrebbe aver già tirato le somme su ciò che si potrà e non si potrà diventare.
In questo senso, pensare che chi fugge lo faccia per scampare all’indigenza, alle guerre, alle persecuzioni, non è sbagliato. Quello che Io capitano mette però in chiaro fin da subito è che non è quello, il desiderio dei protagonisti. Per ora a Dakar non si vedono spari. La madre di Seydou veste abiti tradizionali e sfodera un fitto armamentario di prodotti di bellezza industriali. Tutti i ragazzi girano con gli smartphone connessi a internet. C’è la scuola, anche se su strade di terra libera e pietrisco. Andare, per Moussa e Seydou, è una scelta, tanto quanto lo è trasferirsi negli Stati Uniti perché l’Italia non ci piace e speriamo di sfondare nel cinema, o nella musica, e diventare qualcuno. Il Senegal lo dice chiaro e tondo, ai due, che avranno forse una vita serena, ma non saranno mai nessuno. E loro, come ogni abitante del mondo globalizzato, non ci stanno. Non sono profughi, quei due. Vogliono mettersi alla prova. Vanno alla ricerca di fortuna. Io capitano è un viaggio dell’eroe, non un documentario di inchiesta.
Non si pensi, però, che ci si troverà davanti a una romanticizzazione dell’esperienza della migrazione dall’Africa all’Europa. Di romanzesco non ce n’è, niente subdole glorificazioni del martirio dei più deboli o l’urlo “poverini” che si leva quando, dalle comode case, leggiamo dell’ennesima barca rovesciatasi davanti alle nostre coste. L’equilibrio lo dà, ancora una volta, il mondo per com’è. Come dichiara in un’intervista al Guardian, Garrone non muove le proprie pedine a caso. E anche Io capitano è stato ispirato da una vicenda raccolta, documentata. Quella di un ragazzino di quindici anni che era stato convinto a guidare una barca con a bordo 250 persone dalla Libia all’Italia, senza avere la minima nozione di come ci si porti in mare. Il motivo è semplice: in quanto minorenne non era perseguibile in Italia, dove chi guida un barcone di migranti è automaticamente giudicato al pari di chi quei viaggi gestisce (spesso criminalità organizzata). E infatti se l’era cavata con sei mesi di custodia.
«Quando si fa dell’arte, essere semplici è davvero difficile», continua il regista. «Ero conscio di quanto sarebbe stato delicato affrontare questo argomento, e mi ci sono voluti diversi anni per capire quale approccio avrei voluto tenere». Il principio per tenersi con i piedi per terra arriva da un nutrito gruppo di migranti che hanno vissuto sulla propria pelle l’esperienza del viaggio, e che consigliavano e suggerivano direzioni per restituire al meglio quello che avevano patito. Io capitano infatti mostra senza pudore, senza però indugiarci, i lati più crudi dell’odissea Dakar-Sicilia, tra viaggi a piedi nel Sahara, predoni che costringono ad arrotolarsi le banconote nel deretano, e campi di tortura gestiti dalla mafia libica. Un secondo aiuto arriva dalla scelta di girare l’intero film in wolof, lingua madre dei protagonisti, con script tradotto in francese, poi in wolof per via orale con attori diretti all’impronta, affidandosi al suono per valutare la performance. La regola, dunque, rimane: lasciar accadere. E, incidentalmente, rivelare l’interpretazione promettente, azzeccatissima del giovane interprete di Seydou, non professionista che, chissà, forse rivedremo su altri schermi. È lui che guida lo spettatore di tappa in tappa, è lui l’eroe o, come rivela già il titolo, il “capitano”. Lui che filtra la realtà attraverso speranze, rimpianti, paura. Affidarsi ad altri per dire una storia non è mai facile. Forse è il compito del regista, almeno di certi registi. Garrone ci riesce anche stavolta con grandissima sprezzatura.
Proprio per questo, la sfida maggiore che il regista si è voluto porre sembra stare quasi da un’altra parte, a livello della macchina da presa. Insolite, per lui, le grandi riprese aeree, il senso di epico che trasmettono. Lasciato quasi da parte l’indugio calmo che ha contraddistinto, tra gli altri, Dogman e Primo amore, qui la lente sembra incalzare. Forse perché di una storia lunga, nel tempo, si tratta. Forse perché, ancora, la prospettiva è ribaltata, e dunque anche l’occhio del regista si adegua a quello di Seydou, mettendosi a parlare nel codice dell’avventura e del futuro. Di una vita che sboccia e non ha intenzione di stare sdraiata a guardarsi sfiorire.
Anche in un impianto così ligio, intendiamoci, qualche sbecco si trova. Una certa disparità narrativa tra momenti diversi dell’arco, per esempio, con un grande sprecarsi iniziale che non trova controparte in alcuni dei momenti più avanzati, che meriterebbero, invece, quella spiegazione, quello scavare ulteriore.
In realtà, il proverbiale sopracciglio potrebbe alzarsi molto prima di avere avuto una visione d’insieme del film. A tratti, il patto narrativo che Garrone impone al pubblico è alto, vertiginoso. E per una ragione semplice: della tratta, anzi, delle tratte migranti verso l’Europa occidentale, ormai sappiamo molto. Ce l’hanno raccontato in tanti in varie salse. Non è un tema che, di per sé, fa scandalo, e infatti basti pensare che ben due film, tra quelli del concorso veneziano, trattano lo stesso tema seppur da prospettive diverse – oltre Io capitano, The Green Border di Agnieszka Holland. In questi casi, il rischio di solito è scivolare dall’arte, o dall’intrattenimento, nel teatro della pietà, exploitation di sentimenti che ricattano i neuroni specchio dello spettatore e lo obbligano a star male come riflesso automatico, senza nemmeno accorgersi del contesto.
Non è il caso di Garrone, che anche nella storia di Seydou riesce a portare quella componente di fiaba che gli è così cara. Lo si vede fin dalla scrittura, canonicamente divisa in tre atti. Chiamata, rifiuto della chiamata, mondo straordinario, nemici, aiutanti e così via. Io capitano farebbe felice qualsiasi docente di scuola di sceneggiatura (viaggio dell’eroe, abbiamo detto). Lo si vede nelle piccole rotture della prima parete (nozione che ci inventiamo qui), ovvero sprazzi fulminei in cui la prospettiva narrante emerge, e si finisce direttamente dentro la testa di Seydou. Non esattamente le prime cose che ci aspetteremmo per una materia tragicamente tratta dalla vita reale. Ma qui sta il discrimine fondamentale: Io capitano, come abbiamo detto e ricordiamo, non è un documentario. E non è nemmeno il film che si prefigura di raccontare il grosso problema del nostro tempo. Prima ancora che la migrazione, la materia di Garrone si rivela essere la speranza. E lo è magistralmente, in quanto non è il presupposto della storia, ma ciò che ci rivela la sua conclusione, sublimata in una composizione ineffabile: macchina fissa su Seydou mentre acqua e aria si affastellano attorno a lui, dandogli il tempo di cambiare, crescere di tre spanne, e provare tutte le emozioni del mondo in trenta secondi o poco più.
In Italia insomma, si sarà forse capito, Garrone non ci arriva. Quello che succede nella sognata Europa, almeno per chi guarda, non fa notizia, e non c’è comunicazione se due soggetti dialoganti parlano per ciò che si sa già. Nella landa desolata del cinema nostrano contemporaneo, dove si mettono in produzione solo storie che, a vari livelli, rassicurano e sanno di già visto, la hybris di Garrone è palpabile. Per questo non piacerà a tutti, Io capitano. Non deve piacere a tutti. L’oggettività si trova soprattutto nell’interpretazione di Seydou Sarr, senza peso e senza pensieri. Giustamente, è stata premiata con il Premio Marcello Mastroianni come nuova promessa attoriale nel Concorso veneziano. Al regista invece il Leone d’Argento alla miglior regia. E ora, Io capitano vi aspetta in sala dal 7 settembre.