In occasione del festival 2084 – le cose da salvare, Massimiliano Cappello e Giuseppe Carrara hanno incontrato Ben Lerner per «La Balena Bianca».

Tutti i tuoi libri sembrano gravitare attorno a due questioni principali e che spesso sono strettamente interconnesse fra loro: l’utopia e il Bildungsroman. Non a caso è spesso proprio attraverso la crescita e formazione dei giovani personaggi, sia nella narrativa che nella poesia, che prende forma l’idea o la possibilità di un pensiero utopico. Vorremmo partire proprio da qui: qual è la tua idea di utopia?

Anche se forse si vede meglio nei romanzi, credo che in tutto ciò che ho scritto distopia e utopia siano a stretto contatto. Il mio ultimo romanzo (The Topeka School) è diventato scrivibile per me mentre pensavo agli scenari estremi dell’espressione, ai punti di rottura del linguaggio sotto una pressione folle, come sono folli i corsi liceali di debate che probabilmente qui in Italia non avete o non avete ancora come negli Stati Uniti, oppure i freestyle dei ragazzi bianchi e il tipo di discorso che si spezza quando si recupera la memoria di un trauma.

I corsi di debate mi sembrano un buon esempio di come distopia e utopia si tocchino. Da un lato sono la dimostrazione di una bancarotta del linguaggio, dall’altro c’è l’esperienza della prosodia e della possibilità di rinnovamento che ha luogo proprio nell’apocalisse della lingua. È ciò che accade quando si è restituiti al miracolo del linguaggio in quanto tale. Penso quindi che ci sia una forma di visione, che è una visione realmente utopica, e un’altra che è distopica a causa del presente, del reale. Ma penso anche che un barlume di possibilità per l’utopia stia nel rinnovamento di un senso di meraviglia di fronte al linguaggio come mezzo sociale. Proprio nel momento in cui è più degradato, si avverte che forse un altro mondo sarebbe possibile.

Faccio spesso questa cosa perché fondamentalmente è così che lavoro: prendo spezzoni linguistici che prima erano saggistici e li inserisco in un contesto finzionale, oppure prendo un frammento poetico e lo metto in prosa, oppure spezzo la prosa in una poesia. Per me non è solo una questione tecnica, è anche un modo per capire come le stesse identiche parole se collocate in un contesto diverso possano sprigionare una scintilla di possibilità o di significato ulteriori.

Da un lato è una tecnica compositiva, ma dall’altro è in realtà come l’epigrafe che avevo apposto a Nel mondo a venire: l’idea che gli stessi materiali linguistici possano servire diverse possibilità è un’allegoria dell’idea che i materiali degradati di questo mondo potrebbero (se disposti in modo diverso) fare del mondo un’altra cosa – forse non un’utopia, ma comunque “qualcosa di diverso”, una possibilità di alterità con ciò che c’è.[1]

Parlando di utopia, distopia e scenari estremi del linguaggio, è paradigmatica la scena in cui Adam Gordon viene preparato per i campionati di debate da Peter Evanson. “Uno di loro […] diventerà uno dei principali architetti del governatorato più a destra che il Kansas abbia mai conosciuto […]. E l’altro tenterà di fare questa genealogia del proprio modo di parlare, dei suoi scenari e dei suoi aspetti più estremi” (Topeka School). Qui, probabilmente, è dove meglio emerge la dicotomia tra una dimensione etica e una dimensione estetica della parola. Il paradosso, qui, è che sembra Evanson a prendere la svolta estetica, nonostante tutto. 

Walter Benjamin diceva che il fascismo è l’estetizzazione della politica, e in effetti la versione di Evanson è un’estetizzazione della politica, una sorta di militarizzazione dell’eloquenza, di strumentalizzazione dell’immagine del popolo, o del popolare, che ha effetti politici reali e catastrofici. C’è una citazione che a volte ho trovato utile nella mia vita, non ricordo da chi provenga – forse proprio da La cura di sé di Michel Foucault. Di solito non ci penso in un contesto letterario, ma mi viene in mente adesso: occorre passare dalla morale, che riguarda ciò che è giusto o sbagliato, all’etica, che riguarda due diverse qualità di bene.

È questo il senso in cui intenderei il coinvolgimento dell’estetica nell’etica, nel senso che l’estetica è un modo di sperimentare idee di valore differenti e non riducibili al giusto e allo sbagliato, ma che rimandano piuttosto a modi diversi di immaginare il valore stesso. Potrebbero anche escludersi a vicenda, ma non riducono tutto a un “dentro” e a un “fuori” dal gruppo come fa l’estetizzazione della politica di destra, che è al servizio di questa violenta degradazione dell’altro.

Il critico letterario Frank Kermode parla di una differenza sostanziale tra finzione e mito nel suo Il senso della fine (1967). Un mito, per Kermode, è fondamentalmente una finzione che ha dimenticato di essere tale, e si cristallizza. Il progetto di Evanson è quello di produrre mitologie che rinnegano la loro provvisorietà e il loro carattere finzionale, mentre la creazione di finzioni è incentrata piuttosto su differenti idee di bene. Il punto è chiedersi cosa può fare una finzione; se si cristallizza, ce ne si può sempre allontanare e crearne un’altra.

Quindi sì, penso che Evanson rappresenti questa estetizzazione della politica. Invece, anche se quando perde il controllo è immorale nel suo solipsismo, Adam Gordon persegue un’alternativa, un’idea del mondo che si riorganizza intorno a ciascuno, la capacità di immaginare futuri alternativi o nuove filiazioni del passato. Penso che questa sia la pretesa etica della finzione. Non parlo solo della fiction come genere, come romanzo, ma di fiction nel senso in cui la intende Wallace Stevens: la possibilità di creare a partire dalla gretta materialità un ordine significativo che sia però anche mutevole. Questo mi riporta all’idea di come sia possibile prendere la medesima poesia, la medesima storia familiare e produrre relazioni nuove attraverso la ricontestualizzazione.

Credo però di aver davvero rinnegato l’insieme di prescrizioni di una certa avanguardia con cui sono cresciuto come poeta. Sapete, i Language poets negli Stati Uniti – e probabilmente esiste un equivalente italiano – pensavano che trasporre sulla pagina la disgiunzione, il non sequitur e la frammentazione contasse come politica radicale. Pensavano che avrebbero inceppato i meccanismi del capitale. Capiamoci, è una bellissima idea, ma in termini empirici…

La cosa più interessante è che tutti i valori disgiuntivi delle avanguardie sono profondamente inscritti nel discorso politico mainstream americano. Quando ho sentito per la prima volta Sarah Palin (forse la prima a far esplodere a livello macroscopico quel tipo di assurdo e di insensato) sembrava dada, sembrava Language poetry. Mi è subito sembrato chiaro che le istanze politiche delle avanguardie non fossero sostenibili empiricamente nel contesto americano e, quel che è peggio, fossero prescrizioni mediche e non critiche. La disgiunzione, il non sequitur: non è esattamente il modo in cui funziona il potere?

Recentemente ho avuto modo di partecipare a un incontro in cui si è discusso anche di “poesia” o meglio di “scritture di ricerca”, che stando a quanto dici potremmo intendere (con una buona dose di approssimazione) una sorta di equivalente italiano delle avanguardie di cui parli. Durante il dibattito, ho cercato di esprimere questo: che l’aspetto più concreto o autentico delle scritture di ricerca sta forse nel fornire materiali, nello scavo delle possibilità linguistico-espressive a uso di chiunque voglia servirsene, e insieme nell’istanza radicale che rinuncia al contenuto esplicito per puntare il dito contro la separatezza a cui siamo ridotti. Del resto, è dall’inizio degli anni ’60 che in Italia ci si chiede se, attraverso la mimesi dell’alienazione, le avanguardie servano una causa liberante o meno.

Ecco: l’altro dato, almeno nel contesto americano, è che le avanguardie sono apertamente antiestetiche. Certo, il discorso estetico pone un’infinità di problemi, ma penso che l’estetica possa essere anche uno spazio in cui si esercitano facoltà che non sono dettate dal mercato – l’estetica, voglio dire, come lo spazio in cui si plasmano i materiali concettuali nel linguaggio.

Questa per me non è una forma dell’intervento politico, ma mi sembra uno spazio importante per l’incubazione di idee o pratiche che alla fine potrebbero anche avere un’importanza politica. Quindi la veemente opposizione delle avanguardie all’estetica mi sembra davvero precludere ogni possibilità di funzione politica dell’arte. Perché comunque quella funzione non è diretta, non va confusa con una tecnica per intervenire direttamente sul mondo. Mi sembra che le avanguardie americane dipendano da una lettura sbagliata di Adorno, da una lettura sbagliata della Scuola di Francoforte.

Parlando di politica, a un certo punto Nel mondo a venire scrivi: «l’amore dev’essere imbrigliato nella sfera politica». Cosa intendevi dire? 

Molte cose, direi. La mia educazione, sempre che io ne abbia avuta una, ha avuto luogo soprattutto al college negli anni ’90 e nei primi anni ’00. La politica era vista come una dimensione del tutto sottrattiva o decostruttiva, che si riduceva alla mera critica ideologica, allo smascheramento. Per uno studente universitario americano che frequentava una scuola prestigiosa, la politica sembrava ridursi a questo. L’interpretazione americana di Derrida è stata un autentico disastro per la comprensione del rapporto tra letteratura e politica…

Qualsiasi pratica volesse smarcarsi dalla sottrazione o dalla decostruzione doveva riguardare il desiderio o l’affermazione di sé. Una figura di riferimento al riguardo per me è John Berger, perché nel suo lavoro ha sempre cercato di esprimere un tipo di meraviglia che sta prima della materialità e che però è necessario per poter essere davvero dei materialisti. Le analisi marxiste sono tutte un “qualsiasi cosa tu dica o faccia è solo un sintomo del dominio totale del capitale”. Berger invece dice più semplicemente che “ogni volta che condividi una bottiglia con qualcuno”… certo che il capitale ne fa parte, sicuramente è una cosa piena di contraddizioni. Ma non è soltanto questo, non si può ridurre a questo. C’è sempre la possibilità di una condivisione. 

G. non è tra i libri di Berger che preferisco, ma mi piace l’idea: sintetizzare una politica dell’amore con una specie di Don Giovanni, andare a fondo nella direzione opposta, sostenere che il materialismo dipende di fatto dall’eros e non è tutto solo una lettura sintomatica o malinconica della situazione. Anche l’opera di Victor Serge è affascinante – mi è stato presentato in modo bizzarro ed è certo un artista complicato, ha scritto un sacco di cose con le quali non mi so relazionare e anche politicamente è un po’ complesso, però esprime bene la tensione tra gli assunti teorici sul senso della storia e un materialismo che è quasi una metafisica della materia vibrante, un po’ come la vibrazione del desiderio.

A un livello minimo, l’idea di un amore imbrigliato nella sfera politica cerca di sottrarre la dimensione politica alla sua componente depressiva, all’idea che tutto sia una tragedia. Nel senso: certo che è tutto una cazzo di tragedia!, ma si può anche comprendere il materialismo in una sfera che non rinnega l’eros e la meraviglia.

Questo discorso ricorda anche ciò che scrivi in Odiare la poesia: “Una poesia lirica – ossia intensamente soggettiva, personale – capace di abbracciare autenticamente chiunque è qualcosa di impossibile, in un mondo caratterizzato dalla divisione e dalla violenza”. Sembrerebbe che le categorie classiche del marxismo – e su tutte la classe – non si applichino a questo tipo di discorso, oppure sì ma in un senso molto generale (laddove divisione e violenza siano assunte quasi come archetipi).

Penso che sia traducibile in diversi gerghi. Per Grossman, il critico di cui parlo nel libro, non è una questione marxista, per lui è quasi una questione religiosa, nel senso che il poeta è spinto a cantare un canto degno degli dei, ma ha a disposizione solo la materia decaduta e limitata di questo mondo, per cui ogni poesia sarebbe la testimonianza di un fallimento. Per lui, l’unica poesia che può effettivamente conciliare differenze sociali e violenza è un miracolo, un miracolo di tipo religioso.

Ma in realtà io penso che la struttura di base della contraddizione nella poesia lirica, quella di un canto irriducibilmente individuale che chiede di essere in qualche modo riconoscibile dal punto di vista sociale, possa essere descritta in termini marxisti. Pone la questione di cosa costituisca esattamente il soggetto universale. C’è un tipo di fantasia poetica che sostiene la necessità di una poesia proletaria perché questo accada. Il problema dell’uno e dei molti può essere posto in modo efficace e potente in termini marxisti. Penso solo che sia una cosa traducibile, che non sia l’unico vocabolario.

Nel contesto della poesia americana c’è un tipo di gruppo, un tipo di poesia che si identifica come classe operaia al livello dei contenuti ed è incredibilmente conservatrice al livello della forma, e poi c’è una tradizione poetica innovativa o che si considera coinvolta in una critica della classe a un livello di forma, che fondamentalmente non ha un contenuto parafrasabile e nutre sospetti nei confronti di tutto ciò che è narrativo. Sono diverse modalità di fallimento, ma non accetto nessuna delle due, né l’idea che la classe possa manifestarsi solo su un piano di contenuto ma produca una forma conservatrice e borghese, né l’idea che una piccola avanguardia di persone altamente istruite possa evitare i contenuti ma essere anche l’avanguardia del conflitto di classe.

Quindi credo fondamentalmente che Odiare la poesia non sia formulato in termini di classe perché risponde alla dichiarazione storica della morte della poesia in un contesto americano, che non è tipicamente descritto in termini di classe. Ma penso che sia importante in termini di classe, perché c’è gente che si chiede dove siano finiti i grandi poeti del passato capaci di unirci nelle nostre differenze, come se ci fosse stato un momento nel passato in cui questo è accaduto. Ma penso che questa sia un’interpretazione da “sinistra letteraria” di Odiare della poesia.

C’è invece una tradizione intellettuale marxista che direbbe che le poesie sono fallimentari perché non possono portare alla rivoluzione. Credo che proprio nel fallire diventino figure in negativo della possibilità di qualcos’altro al di fuori del capitale. Voglio dire, c’è quel tipo di prospettiva adorniana, forse… È davvero una questione di classe o dipende da chi ti risponde? Penso fermamente che i termini di Odiare la poesia possano essere trasposti in una storia letteraria di sinistra, ma stavo anche cercando di descrivere una logica che assume forme molto diverse e che sta dietro un tipo di denuncia o di difesa della poesia sostanzialmente nostalgiche.

C’è questa poesia di Vittorio Sereni che fa: “Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro” (I versi). Mi sembra risuonare molto con Poetry di Marianne Moore (1967), con cui apri Odiare la poesia, ed è più o meno degli stessi anni. Franco Fortini disse del libro in cui è contenuta, Gli strumenti umani (1965), che “per dare torto a questi versi non ci vuole nulla di meno d’una trasformazione, intorno a noi, della vita sociale che per un certo tempo li renda incomprensibili o muti”…

Mi piace l’idea che le poesie vogliano essere rese inutili da un cambiamento sociale, che in un certo senso è una vecchia fantasia di sinistra – la rivoluzione che rende inutile l’arte. Il che è anche un incubo, se ci pensi. Siamo ancora all’utopia e alla distopia, mi sembra. E mi piace la disposizione critica a vedere in un’opera d’arte qualcosa che vuole essere smentita dalle condizioni materiali, ma che sta lì a tenere il posto per le fantasie di un mondo a venire. L’opera d’arte in questo senso è l’opposto delle opere artistiche che pretendono di negare il mondo.

Leggi poesia italiana? 

Non conosco poeti italiani contemporanei. Ovviamente ho letto Dante, ho letto molta prosa italiana, i futuristi, e ovviamente mi piace Montale… Ma non ho contezza della poesia italiana contemporanea. Anche quando leggo opere italiane, non ho la capacità di valutare le traduzioni. 

Una delle caratteristiche più evidenti del tuo lavoro creativo è lo straniamento. Il termine “estranging” compare spesso nella tua scrittura, i personaggi dei tuoi libri non si riconoscono, spesso vedono sé stessi fare delle cose, sentono sé stessi dire delle cose, sembrano non del tutto in controllo e dunque il mondo ai loro occhi appare come qualcosa che non riconoscono. Lo stesso accade nella tua poesia, fino al recentissimo The Lights, in libreria da soli pochi giorni. Perché insisti così tanto su questa tecnica?

Credo abbia a che fare con quel margine labile che separa la distopia dall’utopia di cui parlavamo prima, ma su un piano individuale, in una maniera che connette la psiche individuale alla dimensione politica. Perché lo straniamento è una delle grandi rivendicazioni di quello che il linguaggio letterario fa (o dovrebbe fare) per ripristinare la vivacità del mondo materiale, ma condivide anche qualcosa con la psicosi.

Molto nella mia scrittura e nella mia vita cammina su quel filo, quel confine, l’idea che il mondo è reso di nuovo strano, defamiliarizzato, ri-visto in un modo che lo risana – e la letteratura è una tecnologia per rendere questa esperienza condivisibile e sociale –, ma lo straniamento rischia anche il solipsismo, una sorta di privacy psicotica. È la sottile linea fra il ricordare che hai un corpo e il sentire che la tua mano appartiene a qualche creatura aliena e tu stai perdendo la testa.

Anche quegli esempi linguistici che facevo poco fa sulla distinzione fra distopia e utopia sono esempi dove il linguaggio è straniato e straniante, ed è insieme terrorizzante e divertente, ma anche potenzialmente rinnovativo, un rinnovamento del miracolo del linguaggio. 

Se il romanzo è una sorta di dispositivo di miniaturizzazione del mondo, come fai a far percepire le grandi forze politiche dentro le relazioni intime? Lo straniamento mi aiuta anche a fare questo, è l’indecisione fra l’utopia e la distopia, è il contatto con l’arbitrarietà, la stranezza, la mutevolezza, è l’eruzione del reale: è tutte queste cose.

Non ci ho mai pensato prima, ma nel mio racconto più recente, The Ferry, pubblicato lo scorso aprile sul New Yorker, il narratore percepisce troppo gli schemi della realtà, ne soffre e perde il senso stesso della realtà. A un certo punto dice: “quando tutto è poesia, so che non sto bene”. Quando tutto diventa poesia, quando vede dovunque degli schemi, sa di stare male. E c’è un modo in cui questa iperconsapevolezza degli schemi, del linguaggio, è allo stesso tempo una condizione benedetta e uno stato che si avvicina alla psicosi. E questo confine sfumato, attraversabile, è stato per me un tema. 

Sì, quello che dici si vede molto bene anche in The Topeka School, il tuo ultimo romanzo. Lì, più che altrove, quando il linguaggio fallisce è spesso associato alla poesia. 

Voglio dire, se facciamo un esempio paradossale, c’è un momento buono, positivo, o come vogliamo chiamarlo, anche in quella psicosi che è QAnon, e Trump e tutto il resto. La nostra generazione è cresciuta leggendo Fredric Jameson, grande critico marxista, una mente brillante senza dubbio – e lo rispetto molto –, ma il succo del discorso è stato un po’ “il neoliberismo è così potente che possiamo solo aspettare, fare le nostre letture sintomatiche e forse le circostanze storiche cambieranno e la politica sarà di nuovo possibile”. E poi all’improvviso un gruppo di stronzi destrorsi semplicemente se ne fotte e dice “no, vale tutto”.

Il neoliberismo non è così forte, bastano venti tizi che semplicemente entrano al Campidoglio, basta un tipo che nessuno prende sul serio. E naturalmente, per un verso, tutto ciò è terrificante, è di nuovo il 1939, o forse siamo già oltre il 1939, in ogni caso sembra di assistere alla ripetizione di una fucina fascista, ma allo stesso tempo mi porta a pensare: aspetta un attimo, ci ho creduto davvero a questa ideologia del neoliberismo, perché ho pensato che ci fossero tutti questi geni malvagi che avevano tutto sotto controllo, un cattivo controllo, certo, e alla fine realizzi che nessuno è in controllo.

Ma è servito lo straniamento causato dalla psicosi trumpiana per far realizzare a persone come me, a persone di sinistra, quanto fragile fosse l’ordine politico, perché lo abbiamo naturalizzato. In fondo non siamo stati abbastanza fiduciosi nel potere dello straniamento. Credevamo sarebbe stato un’altra sfida Clinton vs Bush, e la avremmo odiata, ma pensavamo non ci fosse nulla da fare. 

Tutto Topeka School gira attorno a una palla da biliardo, che è una sorta di pistola di Čhechov ma anche una versione dark della palla da baseball di Underworld. È l’arma di fortuna con cui il personaggio che più rappresenta la fragilità del maschio bianco americano, Darren, sfoga la sua rabbia senza oggetto. Ma è anche una metafora di come il mondo intero possa diventare un’arma, appunto…

Ecco, l’altra cosa interessante nel contesto americano è che il commento-tipo sull’esplosione di violenza in Topeka Schoolè stato: “vabbè, ma è solo una palla da biliardo, mica un’arma semiautomatica”. Tutti pensano che ci saranno venti morti, e invece c’è solo una mascella rotta. Ma è una sorta di proto-Columbine. È sempre lì lì per diventare un’altra cosa.

Ma hai ragione. Intendo quel romanzo appunto come una sorta di dispositivo di miniaturizzazione per rappresentare il contesto planetario. La palla da biliardo è prima di tutto un globo, e si ricollega (anche se in un modo strano) a una digressione che fa il personaggio di Claus sulla teoria del ghiaccio cosmico e sull’idea nazista delle lune di ghiaccio e delle comete di ghiaccio. Ma è anche la sfera stroboscopica, cioè la riproduzione in scala di uno dei simboli della festa d’inverno sui pattini della Scuola Elementare Randolph. È un planetarium, è un satellite. L’ambiguità più grande sta nella sua scala.

È un pianeta, è una cosa che puoi tenere in mano? È al centro di un gioco, il biliardo, che si gioca sul tappeto verde, che può essere il luogo attorno al quale si raduna una comunità, ma è anche associato allo spaccio, al gioco d’azzardo, eccetera. È tutte queste cose, e nel libro vuole appunto rimarcare la questione della scala.

È una figura che sta a significare che questa violenza regressiva è l’analogo di una violenza nichilista, regressiva, fascista e collettiva, come suggerisce la teoria del ghiaccio cosmico o la figura di Claus? O è solo un fatto banale che avviene in uno scantinato? È la superficie a specchio della stroboscopica, o ha una misteriosità lunare e rappresenta la follia?

Voglio dire, quella palla da biliardo contiene in sé tutte queste ambiguità, ma penso che sia l’ambiguità dei rapporti in scala. Avevo bisogno che prima accadesse la violenza e che il libro poi si sviluppasse attorno al concetto di pre-storia.

Nei tuoi libri di narrativa, fin dagli esordi, sono presenti delle immagini. Hai molto spesso parlato dei tuoi modelli (Sebald, Marias, Berger, Kluge, con il quale hai collaborato per The Snow of Venice). Che ruolo svolgono le foto, come ci lavori nella composizione dei testi?

È un po’ diverso per ogni libro. Nel mondo a venire è nato dalla giustapposizione, se vogliamo un po’ triviale, fra la mano di Ritorno al futuro e la mano della Giovanna d’Arco di Bastien-Lepage: l’idea del libro nasce da lì, prima ho scritto una poesia che parla di questa giustapposizione, ma non ho mai avuto intenzione di pubblicare quel testo con le immagini: la poesia è ecfrastica.

In ogni caso il germe di quel romanzo viene da lì, volevo poter mettere insieme, anche materialmente, quelle due immagini, e associarle all’Angelo della storia di Klee, che richiama anche Benjamin, e così stabilire una relazione fra l’Angelo e il film Ritorno al futuro. Quindi, in fondo, il romanzo dipende dalla possibilità di giustapporre queste immagini. 

In Un uomo di passaggio la questione è un po’ diversa. Non ricordo esattamente quando ho inserito le fotografie nel libro, ma uno dei temi di quel testo è l’impossibilità di Adam, il protagonista, di vedere chiunque a causa del suo solipsismo. Le immagini, accostate a delle didascalie a volte sfalsate rispetto al testo, sono spesso vicine alle cose che vogliono illustrare, ma non sono davvero illustrative. Infatti spesso sono strettamente in relazione con questa impossibilità della vista di Adam: per esempio la foto di Franco ha la faccia oscurata, l’immagine del bombardamento su Guernica è sgranata e quasi astratta e così via.

Inoltre, affrancano la prosa dal peso della descrizione realistica, cosa abbastanza importante per me, soprattutto in quel primo libro, poiché pensavo che il romanzo dovesse fare quello, fornire delle descrizioni realistiche, ma io non volevo farlo: così ho utilizzato le immagini anche come forma di compensazione. Infine, le immagini mi davano la possibilità di giocare con le didascalie, che è una delle cose che trovo più interessante: viviamo in un’età dominata dall’immagine, e una delle cose affascinanti per la letteratura di questo tempo è proprio data dalla possibilità ricontestualizzante della didascalia. Quindi, le immagini contemporaneamente alleggeriscono la prosa dal peso della descrizione esatta e inseriscono un ordine diverso di ambiguità nella scrittura. 

In Nel mondo a venire, invece, anche se come dicevo prima le immagini sono state proprio alla base della genesi di quell’opera, la loro funzione non si esauriva lì. Non so esprimere questo concetto con la giusta precisione terminologica, ma in ogni caso posso dire che le immagini avevano anche a che fare con il tempo: quando descrivi un’immagine e mostri quell’immagine al lettore, quando racconti di un personaggio che sta guardando un’immagine e inserisci quell’immagine nel libro, il tempo del personaggio e il tempo del lettore si uniscono, perché il personaggio finzionale e il lettore reale stanno guardando la stessa cosa nello stesso momento.

Trovo sia una bella corrispondenza fra il tempo diegetico e il tempo al di fuori del libro – che è, per altro, uno dei temi di Nel mondo a venireTopeka School, invece, ha una sola immagine, quella della cornice, e il discorso è un po’ diverso. Intanto, in quanto cornice è anche un’immagine metapoetica, che rimanda all’inquadramento, alla cornice finzionale; ma c’è un riferimento anche all’analisi terapeutica: in una seduta l’analista ti fa considerare l’evento traumatico inserito in una cornice e dentro quella cornice non c’è tutta la tua vita, è solo un pezzo, il resto è fuori.

Il bello dell’immagine della cornice è che è insieme un segnale di ingresso nel mondo finzionale, ma è anche in relazione con la storia materiale dell’esposizione, perché la fotografia fa vedere una cornice bruciata dalle candele, a testimonianza di tracce che mostrano una relazione diversa con lo statuto dell’immagine da quella odierna. Quindi quella foto è sia un simbolo di come si produce un’opera d’arte finzionale (e infatti dentro la cornice c’è un quadro), sia uno spazio liminare fra la storia e la finzione, come sottolinea anche una poesia contenuta in The Lights.

Ma per la poesia il discorso è diverso, anche se spesso i libri di prosa sono nati da una poesia scritta in precedenza, nelle mie raccolte poetiche non ho inserito immagini. The Lights in parte per me è stato anche questo, dire che questi testi vivevano senza immagini. 

Quello che dici sembra quasi un negativo fotografico della poetica di David Lynch per certi versi. Lynch ti racconta una storia finzionale, ma a fianco c’è il mito, un mito che è (ancora) ignoto. Tu invece dici: “c’è la finzione, ma la finzione è in contatto con la storia”. 

Sì, è così.  E inoltre, lo sanno tutti, certo, ma è importante anche dire, in un discorso sulla finzione, che viviamo in un mondo in cui la fotografia ha ancora sulle spalle il peso del documentario. In inglese diciamo pic or it didn’t happen. Ma contemporaneamente nessuno crede più nell’immagine, tutti sanno che può essere manipolata, modificata, falsificata.

È una situazione affascinante: la verità fa ancora pressione sull’immagine, ma nessuno ha fiducia in queste immagini. E dunque la finzione letteraria, mentre riconosce lo statuto reale di una foto, contemporaneamente attribuisce e costruisce il significato di quella foto solamente attraverso il suo contesto narrativo, entrando dunque in stretto contatto con l’ambiguità innestata nel ruolo dell’immagine oggi. 

Soprattutto in Le figure di Lichtenberg sembra esserci una sorta di ambiguità fra l’estetica e l’anestetico nella tua poetica (enfatizzata dalla traduzione italiana di Damiano Abeni). 

Non penso molto all’anestetico, ma è interessante la questione dell’indifferenza, dell’insensibilità. Soprattutto se la riportiamo al problema dello straniamento. Molta dell’arte che abbiamo letto, che la mia generazione ha letto, riguarda proprio il problema di come si rappresenta l’insensibilità. Come rappresentare o rendere condivisibile e sensibile l’assenza di sentimento.

Da un lato è una preoccupazione molto antica, ma senza dubbio ci hanno caratterizzato molto domande come “Quand’è che sto avendo un’esperienza?”, “Come so se sto provando i giusti sentimenti?”, “Come so se sto sentendo qualcosa?”, “Quando so se sono capace del giusto livello di intensità emotiva?”. Non voglio essere imbarazzato da un eccesso di sentimenti, soprattutto quando tutto è uno scherzo e devi essere cool. Insomma, l’estetica del cool è un anestetico: si tratta di anestetizzarsi dai sentimenti.

Nelle Figure di Lichtenberg una delle cose che cercavo di esplorare era il fatto che il massimo del cool, nella mia adolescenza, era essere in grado di una violenza incredibile con indifferenza, cosa che è diventato il nichilistico crimine di firma della mia generazione, perché solo così potevi dimostrare di essere un uomo vero. E questa cosa mostra bene che non ti era permesso mostrare dei sentimenti, di provare delle emozioni. Forse mi sto allontanando dalla domanda, ma il problema della desensibilizzazione è senz’altro un tema di quel libro.

La comunicazione della desensibilizzazione è una sfida estetica. Molta letteratura americana, pensate al culto di Bret Easton Ellis, è di questo tipo, una variazione di “guarda, non abbiamo sentimenti”, e questo può senz’altro essere un motivo da serial killer hollywoodiano, ma fa parte di una tematica artistica antica più ampia. Come so se il modo in cui mi sento è proporzionale all’evento che sto vivendo, e come so se la mia risposta emotiva è adeguata all’evento?

Questa può essere anche una domanda politica, può riguardare, per esempio, la guerra, cosa sia il coraggio, cosa significhi non avere accesso alle emozioni quando sei gettato in battaglia. L’autenticità dovrebbe significare una sorta di proporzionalità fra la tua esperienza emotiva e le circostanze storiche. Ma pensate a Stendhal: la cosa che mi ha influenzato di più della Certosa di Parma è il momento in cui Fabrice vaga nel campo di battaglia di Waterloo chiedendosi se è già stato nella battaglia, se ne ha preso parte. Come sapere quando hai preso parte a un evento storico? Quando avrai il diritto di raccontarlo?, quanto si deve soffrire o si deve essere uccisi o feriti per poter tornare a casa e raccontarlo?

Insomma, sto divagando molto, ma credo che questa questione sia una delle preoccupazioni della letteratura contemporanea. Per esempio, pensate agli effetti della luce blu degli schermi nella nostra vita colonizzata dai media digitali, in particolare alla nostra difficoltà di distinguere lo choc dalla noia. Oh, ho appena visto questo video in cui qualcuno viene decapitato, sono così scandalizzato. E questo è il motivo per cui la pornografia del web è la vera forma dell’internet: è allo stesso tempo estrema e banale. A un certo punto ho realizzato che se avessi voluto essere uno scrittore fedele alla mia esperienza, a qualche livello ci sarebbe dovuta sempre essere una tensione fra intensità e appiattimento, una sorta di indecidibilità fra l’esuberanza e la piattezza. The Lights parla anche di questo.

Una delle cose che reputo interessanti a questo proposito è che per me la ripetizione è il dispositivo poetico per eccellenza. Lo è per molte persone, naturalmente, è il modo in cui si crea la forma, come la struttura è generata. La ripetizione è interessante perché noi ne parliamo sia in termini di accrescimento, di sensibilizzazione, di sottolineatura (la tecnica retorica di fermarsi e ripetere per enfasi). Ma allo stesso tempo la ripetizione produce desensibilizzazione. Lo stesso procedimento è estetico e anestetico. E questo avviene senza dubbio in Le figure di Lichtenberg e in Topeka School, che è una sorta di versione in prosa di quel primo libro di poesia.

In un certo senso quest’ultimo romanzo cerca di tenere insieme tutti i libri precedenti. Dunque, alla fine, il problema è la relazione fra l’estetica e l’indifferenza, e quella strana dialettica del voler far sentire, percepire in maniera intensa l’indecidibilità fra intensità e intorpidimento. Quella dialettica fra la violenza che agita senza sentire nulla e la mancanza di sentimenti che ha una sua intensità e una sua sublimità. Per un’altra generazione il sublime era l’unione di bellezza e terrore. Io sento che per noi, in questo momento, è l’unione di bellezza e noia. 


[1] L’epigrafe recita: “Fra gli chassidim si racconta una storia sul mondo a venire, che dice: là tutto sarà proprio come è qui. Come ora è la nostra stanza, così sarà nel mondo a venire; dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso”.