Il vero talento di Giorgio Falco è sempre consistito nella capacità di ritrarre esistenze precarie, vite di personaggi in vario modo sconfitti dalle miserie di una quotidianità banale, ripetitiva e proprio perciò annichilente. È questo che rendeva memorabili i racconti dell’Ubicazione del bene, il libro che nel 2009 lo rivelò. Ed è per questo che a essergli congeniale è sempre stata la forma-racconto, o quella ibrida modellata da una prosa narrativamente debole, a tratti tendente al saggismo e forte di elementi autobiografici. In quei contesti i personaggi potevano apparire così com’erano, le loro psicologie fissate in pochi tratti, l’ordinarietà delle azioni registrata nel suo puro accadere. Ma quando il ‘contenitore’ cambia, quando i vincoli sono quelli imposti dalla forma-romanzo, le cose non funzionano più allo stesso modo. Di fronte a esigenze più schiettamente narrative il talento di Falco è come se si trovasse spaesato e dovesse in qualche modo rimodularsi. O almeno questa è l’impressione – la mia impressione – di fronte al Paradosso della sopravvivenza, l’ultimo libro dell’autore, pubblicato a gennaio da Einaudi.
Il romanzo segue la storia di Fede, dalla nascita fino ai quarant’anni. Una storia – una vita – apparentemente come tante, trascorsa a Pratonovo, paese immaginario del nord-est italiano. Ciò che rende Fede diverso da chi gli sta intorno è il fatto di essere obeso, di un’obesità vissuta come un dato di fatto, qualcosa che è da sempre con lui e che plasma il suo modo di pensare e stare al mondo. Falco ci mette in contatto con il protagonista, con il suo corpo e i suoi pensieri; ce lo mostra in vari momenti della vita, nonostante resti sempre uguale a se stesso, cinico e rassegnato, intelligente e autoironico. Soprattutto, lo dota di una storia più grande di lui. Fede e la sua obesità sono descritti, senza che la cosa venga mai detta apertamente, come prodotti del consumismo, cioè di un cancro che ha corrotto tutto, a cominciare dal latte in polvere bevuto da bambino.
Il mondo del Paradosso della sopravvivenza è quello ‘dentro al capitale’ di tutti gli altri libri di Falco, in cui di genuino non è rimasto più nulla, né sembra esistere la consapevolezza di un ‘prima’ in cui altri erano i valori, altre le possibilità di scelta. E la cosa riguarda tutti, cioè deforma tutti, non solo gli abitanti di Pratonovo. Una delle pagine più riuscite del romanzo è il ritratto di un personaggio che ce l’ha fatta, un trentenne supervisore di un’azienda di servizi milanese che «parla la lingua aziendale, è disposto a trasformare la lingua aziendale in slang intimo, lo slang intimo nella materia dei propri sogni; ha barattato se stesso con l’ideologia e imparato la lezione di Milano». Falco racconta benissimo questa condizione, così come benissimo racconta ciò che l’eterno presente delle merci ha cancellato. C’è una procedura narrativa a cui l’autore ricorre spesso e che consiste nel sovrapporre due diverse temporalità, ovvero nel collocare in una prospettiva vertiginosa dettagli e spazi. Dove oggi c’è uno studio medico, prima c’era una stalla «dove hanno sostato animali ed esseri umani morti da decenni», «cinquecento anni dopo» un residence ha preso il posto di un bosco, e così via. Sembra l’equivalente letterario della tecnica fumettistica adottata da Richard McGuire in Here, in cui nella stessa tavola uno spazio è mostrato nelle sue stratificazioni temporali.
E poi c’è la straordinaria capacità di fissare in poche parole i destini dei personaggi, e insieme quella di raccontare gesti minimi o azioni apparentemente insignificanti – Fede che fissa un punto imprecisato sul muro, intuendo senza saperselo dire che in quello sguardo a vuoto si annida il senso del suo futuro.
Tutte cose che non rappresentano delle novità per Falco, ma che qui si scontrano con il fatto che c’è una trama da mettere in movimento, con tutto quello che ciò comporta in termini di meccaniche narrative. Una parte importante del romanzo è incentrata sul rapporto fra Fede e Giulia, sua coetanea, «una mezza anoressica, come quasi tutte le donne», che lo sottopone a sedute in cui lui è costretto a mangiare mentre lei si spoglia e si masturba. Arriva anche a mettergli una cintura di castità, «per liberarti, per rompere la tua catena maschile». E le cose diventano ancora più perverse quando pretende che lui assista ai suoi rapporti sessuali con il fidanzato, e che si renda servizievole in modi sempre più umilianti. A un certo punto il limite viene oltrepassato e Fede se ne va. Scappa a Milano, dove Falco ha buon gioco nel mostrarlo spaesato in una realtà lavorativa asfittica e degradante. Ma nelle parole e nei pensieri di lui Milano non c’è mai stata, nulla faceva presagire la sua fuga; e poi Giulia scompare quasi del tutto. Così come poco dopo scompare una collega di Fede, obesa anche lei, con cui si era fidanzato. Come se entrambi i personaggi uscissero di scena non appena esaurita la loro funzione, cioè far procedere la trama. Che quando invece si ferma, ampliandosi lateralmente, ne guadagna in profondità. Come altrove nell’opera di Falco, anche qui ci sono delle specie di racconti-nel-racconto: quello del sopravvissuto a un disastro in montagna, quello della zia di Fede e di una sua possibile vita parallela, quello di tre suoi colleghi rimasti gravemente infortunati – e quindi come lui considerati «handicappati». Pezzi di bravura, ma che appunto si incastonano nel racconto principale senza mandarlo avanti.
Anche se forse a non convincere è soprattutto un altro aspetto – quello su cui Falco sembra avere investito di più, almeno rispetto ai suoi libri precedenti, vale a dire i dialoghi e più in generale il parlato dei personaggi. Giulia si rivolge così a Fede: «L’anoressia è la gabbietta del desiderio, la gabbietta è il luogo del godimento, il godimento è la rinuncia al desiderio»; e poi gli spiega che «Le tue tenebre esigono un corpo congruo, più grande, un contenitore di tenebre infinite». È verosimile che una diciottenne parli così, come se avesse letto e capito Lacan e sapesse anche stemperarlo ironicamente? Più avanti il supervisore di cui sopra spiegherà che «I desideri sono i nostri clienti», e che «noi siamo il mercato che vuole ciò che vuole il mercato». Sono solo due esempi, che però suggeriscono il fatto che quando i personaggi parlano sembrano sempre troppo intelligenti o troppo cinici. I dialoghi, in altre parole, hanno un che di artificioso, e la cosa risulta tanto più evidente perché l’imperativo di fondo del romanzo non è mimetico, la sua essenza non sta nell’imitazione delle parole dei personaggi.
A dominare, dall’inizio alla fine, è una voce narrante plurale (ogni tanto fa capolino un ‘noi’) ma solidissima, che sa tutto di tutti, guarda i personaggi dall’alto e tiene ogni cosa sotto controllo; in brevi frangenti metanarrativi può addirittura palesare il suo ruolo di deus-ex-machina. Anche se, a dirla tutta, prima che l’illusione di una voce che racconta sembra spesso di percepire la concretezza dello stile e la mano dello scrittore. Nel senso che molti passaggi colpiscono più per come suonano, o per le immagini che evocano, che non per ciò che effettivamente raccontano. «È necessario macerarsi vivi sotto un temporale che declama la fine dell’estate e allevia il terreno, il laghetto, le sanguinerole, le foglie che cadono ancora giovani e verdissime». Brani del genere, a loro modo molto lirici, potrebbero esistere in perfetta autonomia, reggersi in piedi senza alcun contorno narrativo.
Anche questa non è una novità. La stessa dinamica era attiva nelle altre opere di Falco. Qui però la cosa colpisce di più – come in effetti già colpiva nella Gemella H, non per caso il solo altro ‘vero’ romanzo dell’autore. Come lì, anche leggendo Il paradosso della sopravvivenza si ha spesso l’impressione che la forma faccia premio sui contenuti, che il lavorio stilistico non sia sempre messo a servizio della storia. A un certo punto, in un dialogo fra Fede e Giulia, lui le dice «ti prego, non scolpire le frasi». E a tratti si sarebbe tentati di rimproverare a Falco la stessa cosa.
È ovviamente una provocazione, che peraltro immagino possa suonare blasfema alle orecchie di chi continua a ritenere che anche in un romanzo a contare non è la storia ma gli artifici linguistici con i quali la si racconta. E forse è anche ingiusto, soprattutto se si prova a mettere in prospettiva il romanzo, valutandolo sullo sfondo dell’opera di Falco. Che forse avrebbe potuto assestarsi in quella misura intermedia di cui dicevo all’inizio, ma che invece da lì è partito per tentare altre strade, e che in qualche modo ha sempre cercato di reinventarsi, ovvero di mettersi in discussione. Anche solo per questo, per misurare il punto in cui è arrivato uno dei migliori scrittori italiani di oggi, varrebbe la pena leggere il suo ultimo romanzo.
G. Falco, Il paradosso della sopravvivenza, Torino, Einaudi, 2023, 256 pp., 20€.