Fino ad oggi ho avuto due copie della sceneggiatura de L’uomo senza passato di Aki Kaurismäki, pubblicata da Iperborea. La prima la comprai alla Libreria Utopia e me la feci poi volentieri sottrarre per sempre da un Vanni Santoni estasiato nel 2014; la seconda l’ho trovata casualmente in uno scatolone di libri da buttare, e non l’ho mai più mollata…
Lo sentii nominare per la prima volta in una cena Erasmus a Parigi, davanti a un piatto di cous-cous scotto. Il mio compagno di università althusseriano disse che Mies vailla menneisyyttä (2002) era un capolavoro. Mi fidai, come sempre. Al ritorno, me ne procurai una copia in DVD dalle Paoline, lo vidi la sera stessa e piansi e risi e venni cambiato dentro: così iniziò il mio amore per il maestro finlandese. Vidi tutto di Kaurismäki, uno dei massimi interpreti viventi della settima arte, unico cineasta europeo a poter vantare 4 stelle nel Dizionario Mereghetti per due film usciti nel nuovo millennio.
Quando proprio il noto critico questa primavera, sapendo della mia passione, mi ha scritto che il regista finlandese, dopo sei anni di silenzio, sarebbe tornato a dirigere una pellicola, per di più a Cannes, con un film in concorso per la Palma d’Oro, sono saltato sulla sedia!
Perché avevo sentito da voci di corridoio che Kaurismäki si trascinava per bettole portoghesi tra Ginjinhe e Sagres, e temevo fosse giunto al capolinea, ma per fortuna ci sbagliavamo, e di tanto. Tutto ciò per dire che no, questo non sarà un pezzo imparziale, ma militante sì, nel senso che mi ritengo un soldato dell’ottimismo kaurismakiano nell’intimo.
Kuolleet lehdet, Fallen Leaves, Foglie cadute, è stato presentato in concorso al 76esimo Festival del Cinema di Cannes, dove ha vinto il Premio della Giuria, oltre a una menzione speciale al cane meticcio Bijou nel ruolo di Chaplin. Il pubblico italiano ha potuto vederlo in anteprima nazionale in occasione della rassegna Cannes mon amour in versione originale sottotitolata martedì 25 luglio alle 21.30, in contemporanea in cinque città. Io c’ero, ovviamente.
La storia è molto semplice. Ansa (Alma Pöysti) è prima cassiera in un supermercato, poi lavapiatti in un bar, dopo essere stata licenziata per una merendina scaduta. Stessa sorte per Holappa (Jussi Vatanen): prima operaio in una fabbrica, poi manovale semplice, in seguito all’espulsione per aver bevuto sul posto di lavoro. Hanno circa quarant’anni. Lei veste abiti dai colori pastello, vive da sola; lui una tuta da fabbro verde, rotta, tipo astronauta. Sta in un container da cantiere. In sottofondo da una radio arrivano notizie sulla guerra in Ucraina, alternate a canzoni del passato popolare finnico. Un calendario segna il 2024 (!). C’è il costante accompagnamento musicale di Olavi Virta con qualche incursione esotica, sempre rigorosamente in lingua finlandese, come Mambo italiano, e brevi apparizioni di musica classica (Schubert, Rachmaninov) o rock (Get on Baby!).
I due personaggi si vedono la prima volta, per caso, la sera in un locale, durante un karaoke. Sono affiancati, in due tavoli diversi, di profilo a tre quarti. La macchina da presa si sposta sull’uno e sull’altro, sui loro occhi. Si studiano, senza parlarsi, fumano, bevono; la musica farà il resto. Tutto è minimalista, scarno ma profondo: la macchina da presa, la regia stessa, lavorano per sottrazione, i dialoghi sono rarefatti, spogli come le case o i locali dove avvengono. Ogni cosa, tranne i gesti, gli sguardi e la musica, nel cinema di Kaurismäki è diventata accessoria, col tempo.
L’idea è quella di rappresentare la classe operaia, come già il regista aveva fatto, ricollegandosi a quella “Trilogia dei perdenti” avviata con Ombre nel paradiso (1986), poi proseguita con Ariel (1988) e chiusa da La fiammiferaia (1990), ma presente comunque sottotraccia in tutti i suoi film. Sono passati trent’anni, eppure Kaurismäki non cambia temi, né modalità, resta fedele a se stesso.
La trama è ridotta all’osso e somiglia ad altre sue pellicole: un breve incontro tra due anime sole, che si perdono e si ritrovano più volte, tra cadute e bevute, fogli scritti a mano, concerti e cene. Sullo sfondo una Finlandia umile: carbone, merce avariata da discount, cemento e tanto alcol.
La condizione dei lavoratori, pagati in nero, o con contratti a zero ore, con «la stessa paga che danno alla mensa dei poveri», sull’orlo del collasso economico e ai limiti dell’esclusione e del calpestamento sociale, sta molto a cuore a Kaurismäki. Cameriere, muratori, tranvieri, fabbri, cassieri, ma anche senzatetto e disoccupati: questa è l’umanità che gli interessa rappresentare.
Non ne fa, come Ken Loach, una esplicita questione politica, ma, tenendo il tema sullo sfondo, segnala piccoli farmaci alla malattia del capitalismo, rieducando lo stesso spettatore. Il suo montaggio apre vie di fuga proprio laddove sembra esserci il nulla. Baci sulla guancia, brioches alla cannella, strette di mano, riviste sgualcite, camminate, cani a cui si chiede di rispondere al telefono. «È opera del Signore», diceva Kati Outinen ne L’uomo senza passato (2002), in una sequenza già entrata nella storia del cinema.
L’inciviltà del progresso costringe le persone a consumarsi nel consumo, sembra dire Fallen Leaves, ma grazie all’atto cinematografico, al trasporto musicale, sono ancora possibili prodigi, come in Miracolo a Le Havre (2011), grazie a quell’abito giallo. Mentre il capitalismo sfrenato, in un’Europa inaridita e fredda, lascia indietro gli esseri umani del ceto più basso, questi ultimi, anziché andare alla deriva, si aggrappano l’un l’altro con umanità e resistono. L’amore è un antidoto al capitale.
Vive di punti fermi, il cinema di Kaurismäki, di costanti che tornano e danno sicurezza allo spettatore, lo fanno sentire a casa, in un posto accogliente. Quel mondo simmetrico, misurato, fatto di oggetti simbolici, in apparenza piatto, vuoto e opprimente, nasconde sempre brevi epifanie di mutuo soccorso: il dono di un abito dismesso; l’adozione di un cagnetto randagio; la solidarietà tra colleghi; il cibo ceduto a costo di perdere il lavoro. Molti sono i ritorni dell’uguale, e sta tutto lì lo stile, la maestria, la capacità di Kaurismäki di fare un cinema unico, immediatamente riconoscibile. Ad esempio, le sue coppie non hanno mai figli, spesso solo cani meticci al loro fianco, il cui ruolo è quello di vegliare silenti i propri padroni sofferenti. E non è un caso.
Ci sono i concerti in visione frontale, le tipiche scene nei locali Anni Ottanta con camerieri sfingei che spillano birre passivamente, operai sporchi che tracannano dalle caraffe come moderni mangiatori di patate, presi dentro il sistema ingollano pinte per strapparsi dal dolore dell’ingranaggio industriale. Ci sono i tailleur vintage e gli accessori fuori tempo massimo, come le vecchie radio o i Telefunken improbabili, pasti frugali e giacche prestate per occasioni speciali. I primi piani su volti che fissano qualcosa d’imperscrutabile, seri, e già nel punto più basso dell’intreccio nascondono il seme della propria speranza, l’altro volto, il viso che sorriderà, la luce di un faro a illuminarli.
Ci sono le trombe delle navi in lontananza, o i treni che passano in diagonale, sempre suonando, ci sono le sigarette e le posture ieratiche, quasi religiose. E i juke-box, i cagnetti da compagnia (prima Baudelaire, Hannibal), stavolta Chaplin. Ci sono i volti apparentemente inespressivi, depressi, eppure intrisi di una sensibilità radicale, compassionevole: tutto concorre alla grazia.
È anche un film che fa ridere, e spesso, a suo modo, forse come mai prima d’ora Kaurismaki era riuscito, trasformando la tragedia della vita in commedia. I dialoghi sono fatti di battute brevi, dirette, ma spesso straordinariamente costruiti intorno all’equivoco, tanto da far scoppiare la platea almeno dieci volte in poco più di un’ora. Un’autoironia sublime, al suo apice. Un film che è quindi, come tutta la cinematografia del maestro, un grande farmaco contro la depressione…
Belli gli omaggi cinematografici disseminati qua e là, a partire dalle locandine fuori dal Cinema Ritz dove Ansa e Holappa guardano un film di zombie di Jarmusch, fino alla locandina di Rocco e i suoi fratelli sopra il tavolo di un bar. Ozu, Godard, Bresson, Melville, McCarey, Lean: ogni poster traccia un solco entro cui la pellicola si adagia.
La sceneggiatura è davvero essenziale, trainata letteralmente dalla colonna sonora, quest’ultima capace di parlare al posto dei protagonisti, e coprire di significato i loro silenzi, quasi un personaggio a sé stante, simile in questo a Juha, del 1999.
È anche, a mio modo di vedere, un film autobiografico, almeno per quanto riguarda la questione dell’alcolismo, forse mai affrontata in maniera così diretta dal maestro finlandese: Holappa non riesce a smettere di bere, quando lavora, quando fa colazione, persino al cinema, ha sempre il fiaschetto nella tasca e scola litri e litri di alcol. E ogni sorso gli porta via un po’ della sua vita.
Sarà solo in una bellissima scena girata davanti a Syntyny suruun ja puettu pettymyksin cantata dal duo Maustetytöt, che nella testa dell’uomo scatterà qualcosa di decisivo, liberatorio, momento catartico anche per lo spettatore, tutto concentrato sullo sguardo silente, triste ma convinto a cambiare, di Holappa. Ci sono sempre stati, questi intermezzi epifanici in Kaurismäki, e ogni volta ritrovarli, ma con declinazioni nuove, offre un grande respiro.
Il tema della salvezza è centrale nei film di Kaurismäki, le guarigioni improvvise e immotivate, l’idea di un passaggio attraverso, redenzione o risveglio che sia. Ed è questo uno dei motivi che ho sempre amato, la capacità di passare dal male al bene – a differenza di molta arte contemporanea – il suo collocarsi fuori dal tempo e indicare, con una certa etica dello sguardo, uno spazio di minimalismo sacro in ognuno di noi. È come se abbia sempre girato, in qualche modo, un unico film, guardando al suo grande maestro Ozu. Gode della sua stessa religiosità.
Il cinema di Kaurismäki è di una «semplicità che va direttamente al cuore delle cose e alla loro verità, ma non cancella la tragicità delle cose» (Mereghetti) dando vita a favole moderne, poetiche, commoventi storie di uomini e donne, dove la solidarietà e la speranza hanno la meglio. Qui sta la forza di un’estetica filmica oramai fuori da ogni logica commerciale, capace di riportare il cinema alla sua vocazione originaria, d’autore.
Se mi chiedessero chi oggi produce arte sacra nel mondo, risponderei Aki Kaurismäki. I volti dei suoi attori, come icone russe, vivono sotto una prospettiva rovesciata, perché sempre filtrati attraverso l’occhio divino: sono loro a guardarci, loro a giudicare la nostra condotta. Da essi traspare un ottimismo ultraterreno, si trasformano in moderni affreschi, si muovono sullo schermo compiendo liturgie cui noi possiamo soltanto aspirare di assistere come fedeli.
Fallen Leaves è una storia romantica dotata di un’armonia radicale e di un umorismo profondo. Uno splendido film d’amore operaio: le foglie cadute si vedono sul serio, a un certo punto, uno stacco rapido su paesaggi autunnali. Helsinki dall’alto è un deserto immobile di palazzi insensati, con solo l’acqua del Baltico a darle una qualche forma di bellezza.
In cielo delle nuvole, sulla terra troppe gru. Le foglie si sollevano leggermente col vento; somigliano ad Ansa e Holappa che, trasportati dal destino, sempre col rischio di venire calpestati o trascinati via, s’allontanano e incontrano di nuovo come per magia solo qualche metro più avanti, con altra linfa, davanti al Cinema Ritz. Ma gli imprevisti sono dietro l’inquadratura…
Che effetti può avere sul cuore addormentato un bacio sulla fronte?