Abbiamo seguito per intero i quattro giorni di CaLibro 2023, il festival che da ormai nove anni porta a Città di Castello, in Umbria, un’offerta variegata e di livello in ambito letterario. Quest’anno CaLibro si è rinnovato e, grazie alla collaborazione di Edizioni E/O, è nato CaLibro Africa Festival, edizione tematica e concentrata sulla letteratura, o meglio, le letterature africane. Tra incontri, presentazioni, letture degli autori, laboratori per l’infanzia, film e spettacoli di musica e danza, dal 28 settembre al 1° ottobre le strade e gli spazi pubblici di Città di Castello hanno potuto ospitare artisti ed esperti, professionisti dell’editoria e del giornalismo culturale provenienti da Africa ed Europa uniti nel clima familiare e accogliente che l’organizzazione del festival è stata così brava a creare. Ha partecipato anche un nutrito pubblico, locale e non, sinceramente interessato ad avvicinarsi, con postura aperta e propensione all’ascolto, alle molte voci, lingue, storie e culture provenienti dal più antico continente del mondo. 

A CaLibro Africa Festival, a Città di Castello, Niccolò Gualandris ha intervistato Damon Galgut, scrittore sudafricano del post-apartheid, autore di "La promessa".

A CaLibro Africa Festival ho avuto la possibilità di intervistare Amira Ghenim, scrittrice tunisina di lingua araba, alla seconda prova narrativa con La casa dei notabili (2020; traduzione di Barbara Teresi, Edizioni E/O, 2023), finalista all’International Prize for Arabic Fiction e vincitore del premio della giuria del tunisino Comar d’Or.

Nonostante abbia scritto il romanzo in arabo, con le implicazioni linguistiche e politiche che ciò comporta, l’autrice si dimostra subito molto disponibile a condurre l’intervista in francese.

Mi accoglie con uno smisurato sorriso, forse venato da un leggero imbarazzo e chiacchieriamo brevemente prima che io le chieda il permesso di registrare il nostro incontro.

Mi sento particolarmente curioso di scoprire le motivazioni che hanno portato Ghenim a immergersi in questo romanzo storico a metà tra saga familiare e indagine minuziosa su costumi e cambiamenti nella società tunisina dell’ultimo secolo.

Lei proviene dal mondo accademico della linguistica. Da dove viene l’esigenza di questo romanzo, anticipata da quanto ho letto da approfonditi studi sulla Tunisia degli anni ’30?

È vero, insegno Linguistica all’Università di Tunisi e il mio ambito di studi non è molto vicino al campo letterario, ma arrivata a questo punto della mia vita ho sentito il bisogno di mettermi a raccontare storie, qualcosa che costituisce l’essenza stessa dell’essere umano.
Ho sentito questo bisogno dopo la Rivoluzione tunisina perché pensavo di avere molto da dire.
I documenti, i saggi accademici, la ricerca scientifica che stavo portando avanti non mi permettevano di rispondere alle domande che avevo in testa. Ho cercato di rispondere a queste domande con la scrittura del mio romanzo.

Sono domande che hanno a che fare con la nostra identità di tunisini. La Rivoluzione ci ha messi faccia a faccia con le nostre contraddizioni. Abbiamo dovuto interrogarci su chi siamo veramente. Chi è questo popolo, solitamente pacifico, che scopre una rabbia sconosciuta e decide di andare in guerra? Mi sono ritrovata sorpresa nello scoprire un lato della Tunisia che non conoscevo. Ragionavo sull’identità del mio popolo e mi sono ritrovata a scrivere un romanzo: è così che è nato La casa dei notabili.
Il nucleo del racconto è la storia d’amore immaginaria tra una donna della nobiltà tunisina e un personaggio storico molto importante per il nostro paese: Taher Al-Haddad (in arabo الطاهر الحداد; 1899-1935, n.d.r.).

In Tunisia Al-Haddad è un’icona, è a lui che dobbiamo la teorizzazione dell’emancipazione della donna tunisina, ripresa poi dal primo Presidente della Repubblica e sancita nella nostra Costituzione. Se mi chiedi la ragione di questa scelta ti rispondo molto semplicemente che la storia d’amore è solo un pretesto per parlare della storia della Tunisia degli ultimi cento anni, partendo dagli anni Trenta ma risalendo, indietro, alla generazione dei nati alla fine del diciannovesimo secolo. Ho cercato di rintracciare una continuità nello spirito del mio Paese come se fosse una ricerca interiore personale. È stato come guardarsi allo specchio e dirsi: “Ecco, questo è ciò che siamo”. Credo di aver capito meglio come funziona questo popolo, come ragiona, come ha plasmato la propria Storia; forse tutto questo può darci un’idea di come si evolveranno le cose in futuro.

Nel libro emerge la forza della sua narrativa nell’affrontare nodi cruciali della storia tunisina del ‘900. Leggendolo si ha l’impressione che la scrittura di fiction possa penetrare più a fondo nella verità e sia in grado di fare avvicinare emotivamente alla Storia, anche se sconosciuta, il grande pubblico. Lei cosa ne pensa?

Si, sono d’accordo. Penso che ciò che attrae il pubblico verso una narrazione in cui ci sono elementi storici sia la capacità della narrativa di umanizzare figure storiche.
Il nostro rapporto con Taher-Al Haddad si sta indebolendo sempre di più, specialmente tra le giovani generazioni. È morto nel fiore degli anni nel 1935, quasi 90 anni fa e se oggi dovessi chiedere a un ragazzo di dirmi chi fosse so che saprebbe rispondermi, grosso modo, che Taher è stato un personaggio importante che ha scritto un libro importante per la Tunisia. Ma non sono sicura che i giovani conoscano la sua lotta, i suoi sforzi e le sofferenze che ha patito per arrivare dove è arrivato. Questo era il mio obbiettivo: restituire il suo lato umano per renderlo più vicino ai tunisini di oggi. Taher era un uomo innamorato, un uomo tradito dai suoi amici più cari, un uomo che è stato maltrattato, che è stato cacciato dal suo lavoro, che è morto in totale isolamento, in totale oblio. Questo è un modo per rendergli omaggio e per renderlo un po’ più emotivamente accessibile al lettore di oggi.

Nella Casa dei notabili,nelle case delle due famiglie, chiuse come labirinti nei propri intrighi, si riesce ad arrivare infine alla verità solo per cerchi concentrici e a distanza di molto tempo. Che importanza ha questa dimensione familiare nel romanzo?

La storia è raccontata dal punto di vista di 11 narratori differenti, 5 uomini e 6 donne; quindi c’è già una sorta di parità strutturale tra i sessi.
È una saga familiare incentrata su due famiglie di notabili tunisini che non condividono la stessa visione del mondo, vale a dire che c’è una famiglia modernista progressista, è la famiglia di Zubaida, la donna amata da Taher. Dall’altra parte c’è la famiglia più conservatrice, che rifiuta il fatto che le ragazze vadano a scuola, che siano istruite, e vive in un modo molto diverso dalla famiglia di Zubaida…che però ha sposato uno dei membri di quella conservatrice.

Si sa che i più grandi segreti sono i segreti di famiglia, e la famiglia è un nucleo che rappresenta molto bene ciò che accade nella società, ciò che sta accadendo in tutto il paese; se vogliamo spingerci ancora oltre, può rispecchiare ciò che accade a livello globale, questo è ciò che rende questa relazione tra il locale e l’universale.
Quando leggi questo romanzo, ti senti davvero molto lontano da ciò che sta accadendo nel mondo?

Io non credo. Certo, stai leggendo le vicende di famiglie tunisine, ma ci sono somiglianze che costituiscono fonte di fascino: la condivisione di sentimenti umani, emozioni, non è qualcosa di limitato a un singolo paese o nazionalità. Il dramma di due famiglie strattonate tra una forza liberatrice e modernizzante e una forza conservatrice si specchia in una tensione universale. Con la scrittura si riesce a trascendere la chiusura dell’ambiente familiare e penso sia questo il potere misterioso dei romanzi: poter partire da un punto molto specifico e via via, per cerchi concentrici, approdare a una dimensione molto più grande, universale.

Infine, il romanzo tocca temi come l’emancipazione femminile, il progressismo e il conservatorismo religioso, le convenzioni sociali, il colonialismo e la decolonizzazione. Ci vengono presentate realtà pre e post-coloniali, cosa è cambiato da allora e da dopo la Rivoluzione nella Tunisia contemporanea? Qual è la sua visione?

Sono cambiate molte cose dopo l’indipendenza, ovviamente. La Tunisia ha potuto riprendere il controllo del proprio destino e ha legato la propria indipendenza all’emancipazione femminile. Dopo la Rivoluzione le donne, già emancipate dall’indipendenza hanno deciso di prendere in mano la propria vita. Le forze islamiste molto conservatrici hanno ottenuto il potere e le loro prime vittime sono state le donne e le loro conquiste. Abbiamo sentito molto parlare del ritorno della poligamia, del ripudio; tutti aspetti che pensavamo fossero confinati nel passato ma che stavano rientravando nel progetto politico dopo la Rivoluzione. Cos’è successo quindi? È successo che la donna tunisina del 2015, 2016, 2017 è scesa in strada per difendere i propri diritti attraverso manifestazioni e facendo valere il proprio diritto di voto.

Ora, naturalmente la crisi economica e quella sociale stanno condizionando la vita in Tunisia in modo davvero preponderante. C’è anche il problema migratorio, legale e illegale. L’emigrazione in massa di medici, architetti, professori tunisini verso l’Europa, i paesi del Golfo, il Canada è sicuramente una perdita per il nostro Paese in termini di risorse umane e quindi di ricchezza materiale generata. In passato molti tunisini andavano a studiare in Francia ma poi tornavano a casa. Si erano laureati alla Sorbona o in altre università prestigiose e ritornavano per costruire qualcosa in Tunisia. Ora la situazione è diversa: gli emigrati non tornano quasi mai indietro e ciò è molto preoccupante.


(Questa intervista è stata condotta presso l’Hotel Tiferno di Città di Castello, il 30 settembre 2023. È stata trascritta ed editata a fini di maggiore chiarezza.
Ringrazio Amira Ghenim per la disponibilità, Giulio Passerini di Edizioni E/O per aver organizzato l’incontro, Lorenzo Alunni e tutto lo staff di CaLibro per l’accoglienza nei miei confronti e per la bellezza di questo festival).