La solastalgia è il senso di malinconia per un conforto (solace in inglese) che l’ambiente circostante non può più offrire, stravolto com’è stato e com’è da cambiamenti troppo grandi per passare inosservati. È il senso di perdita per una casa che, se pure ancora materialmente presente, si sta disfacendo sotto gli occhi di chi la abita al punto da divenire irriconoscibile, straniante. Quella casa, è chiaro, è il nostro pianeta, e i disastri che la stanno attraversando sono ormai visibili anche ai negazionisti più risoluti. Il nuovo libro di Serenella Iovino, Gli animali di Calvino: Storie dall’Antropocene (Treccani Libri, 2023), provoca un sentimento uguale e contrario a quello della solastalgia: fa sentire a casa pur entrando nel dettaglio della catastrofe materiale, morale e discorsiva di questi tempi. Anzi, forse fa sentire a casa proprio perché descrive la catastrofe senza fare sconti, con l’onestà di chi sa che le cose non vanno molto bene, per gli animali umani e non, eppure non perde la capacità di creare empatia, di raccontare storie e di accompagnare con grazia il lettore in un percorso di scoperta di quanto non va, ma anche di quanto potrebbe andare meglio. Il tutto mettendo in dialogo Italo Calvino, autore con cui quasi tutti in Italia avranno un minimo di dimestichezza, e temi di ecologia letteraria applicati a cinque animali nati dalla sua penna, per i quali è forse il caso di parlare di diversi gradi di domestichezza.
Il percorso di analisi, che ricalca la precedente versione inglese del volume (Italo Calvino’s Animals: Anthropocene Stories, pubblicata nel 2021 da Cambridge University Press), procede in un crescendo dimensionale: dalle formiche al gorilla, passando per i gatti, il coniglio e la gallina. E la scelta di singolari e plurali non è casuale, poiché alle misure minori corrispondono dinamiche di gruppo che non coinvolgono invece gli animali via via più corposi. In particolare, le formiche in analisi sono quelle argentine del racconto del 1952, la cui megacolonia mediterranea arriva a lambire la riviera ligure tra gli anni Venti e Trenta, innescando una battaglia di nervi e chimica di cui Calvino restituisce la complessità. Dall’altro capo dello spettro, il gorilla non è un gorilla qualsiasi, ma un esemplare albino che, dalla Guinea Equatoriale, è finito nello zoo di Barcellona nel 1967, dove Calvino ha modo di vederlo nel 1980 e di scriverne in pagine poi confluite in Palomar (1983): tutt’altro che membro di un gruppo più grande, Copito de Nieve – questo il suo nome – è piuttosto un esemplare unico, sottratto al suo ambiente originario, il cui rarissimo materiale genetico lo rende oggetto di studi feroci.
Tra i pregi del lavoro di Iovino c’è l’abilità di mettersi in ascolto di saperi multipli, fedele alla vocazione interdisciplinare delle scienze umane per l’ambiente (environmental humanities, in ambito anglofono), che puntano a integrare discorsi scientifici e socio-politici con un’attenzione rinnovata alla valenza ecologica di narrazioni, pensiero critico, analisi culturale, così come storia, estetica e etica. Gli animali di Calvino, per quanto intriso dei testi, delle parole e dell’immaginario dell’autore ligure, dialoga con la primatologia, l’etologia, l’entomologia, la zoologia e la biosemiologia, oltre che con questioni di ecologia e biodiversità. Di tutte queste discipline Iovino mette in luce anche un’evoluzione diacronica che, dalla pratica scientifica cartesiana – fondata su distinzioni rigide tra mente e corpo, e di conseguenza anche tra umano e non-umano – ha portato al più recente “paradigma bi-costruttivista”, in grado di accogliere la soggettività degli animali non umani come un dato ormai incontestabile.
Le pagine sul gorilla albino, come quelle sulla Gallina di reparto (racconto del 1954), introducono ad esempio ai concetti fondativi della cosiddetta biosemiotica, in grado di rivelare un mondo variegato e ricchissimo di segni e scambi tra specie:
lo zoologo estone-tedesco Jakob von Uexküll ha definito Unwelt, o ambiente semiotico, la rete di segni e vettori di informazioni significanti in cui ogni specie è immersa e la cui interpretazione è la chiave della vita stessa. La sua tesi è questa: ogni animale ha un mondo che comprende. Questo mondo è fatto di segni specifici, con parametri determinati che diventano leggibili perché risuonano con le capacità fisiche e sensoriali di quella specie. […] Questi ambienti semiotici sono specie-specifici (ossia relativi alle singole specie), ma non chiusi: si intersecano con quelli di altre specie in una semiosfera comune in cui sono possibili esperienze condivise e la comunicazione con altre specie (p. 146).
È grazie ai segni che qualsiasi animale può comprendere dove si trova nel mondo, quali sono i pericoli e quali le opportunità di sopravvivenza, quali i confini del proprio territorio e gli individui amici. Viene presto da pensare che, attraverso il suo libro, Iovino stia a sua volta arricchendo la semiosfera dei propri lettori. Espandendo infatti la nostra conoscenza dei testi di Calvino, fino ad includere le loro ramificazioni scientifiche ed ecologiche, la sensazione è quella che Gli animali di Calvino arrivi a farci capire meglio il tempo e lo spazio in cui siamo immersi, i valori e i disvalori, i fragili equilibri e le possibilità di incontro.
Tra le questioni forse più stimolanti suscitate dalla lettura c’è quella sull’«orizzontalità ontologica» e sulla «parentela viscerale e ancestrale» tra uomini e animali (p. 121). Nel capitolo dedicato alle avventure di Marcovaldo con un Coniglio velenoso (1963), Iovino chiama in causa Charles Darwin e le sue riflessioni sulle corrispondenze tra espressioni umane e animali, esplorate già a partire dal 1872. La ricerca scientifica, ricorda Iovino, ha convalidato solo dagli anni Cinquanta in poi la tesi per cui gli animali non umani possiedono una vita mentale ed emotiva. Le avventure letterarie di Calvino corrono parallele a queste dimostrazioni scientifiche, talvolta battendole sul tempo nel loro ruotare intorno a una comunicazione interspecista fortemente empatica – o meglio simpatica, per dirla con Ralph Acampora. Nel caso del coniglio, Marcovaldo si identifica nella condizione di alienazione, costrizione e sofferenza dell’animale, stabilendo così un inevitabile canale di comunicazione pre- (o post-) linguistica. Si potrebbe aggiungere che, in anni ancor più recenti, studi altrettanto consistenti e affascinanti hanno incluso nell’universo della cognizione e dell’intelligenza anche le piante: si vedano, tra tutte, le ricerche scientifiche di Monica Gagliano e Stefano Mancuso e le riflessioni filosofiche di Emanuele Coccia. Sorge dunque spontaneo chiedersi, a margine della lettura degli Animali di Calvino, in che modo le nostre scelte di comportamento non solo verso gli animali, ma anche verso le piante, dovrebbero cambiare di conseguenza.
Prendendo il caso emblematico della nostra dieta, affrontato anche da Iovino stessa, ci si potrebbe domandare se non fosse allora il caso di evitare di mangiare anche le piante, data l’intelligenza che vieppiù si va riconoscendo nei loro comportamenti, e che quindi le pone in uno spettro per l’appunto orizzontale, in una linea di continuità con gli animali e con gli uomini. Ma è proprio per non cadere in una simile impasse che servono le riflessioni di un’intellettuale come Iovino – che, ricordiamo, arriva all’italianistica e all’ecocritica a partire da un solido retroterra filosofico. Fondamentale e necessaria, all’interno di una benemerita orizzontalità ontologica, è la capacità critica di identificare differenze non gerarchiche che siano in grado di guidare le scelte pragmatiche a cui si è chiamati nel quotidiano. Nel caso di Marcovaldo, proletario affamato e padre di una serie di figli affamati come e più di lui, il coniglio, pur fatto scappare dalla cattività e reso compagno di specie, rappresenta un’opportunità di sostentamento che va oltre il bisogno morale di essere vegetariano. Poco importa che il piano di mangiarlo non vada a buon fine – poco importa, ma forse a livello simbolico qualcosa significa. Quel che più conta è che Marcovaldo ha in primo luogo “visto” il coniglio nella sua complessità non solo corporea, ma anche emotiva e cognitiva, così come Palomar “vedrà” il gorilla albino e come Iovino ci fa vedere, in un gioco di specchi, tutti questi scambi di sguardi. Inconsapevole esponente del “carnivorismo etico” teorizzato da Dominique Lestel, per Marcovaldo «mangiare animali la cui corporeità non sia stata linguisticamente neutralizzata nel termine generico (e massificante) di “carne” può essere vista come un’implicita rivolta verso un sistema di produzione basato sulla rottura del legame tra cibo (umano) e corpi (animali)» (p. 122). Mangiare animali, dunque, ci dice Iovino in un libro che pure agli animali stessi è dedicato, non andrebbe demonizzato con i toni perentori e colpevolizzanti che troppo spesso si sentono utilizzare, in un dibattito pubblico sempre meno aperto al dialogo costruttivo e sempre più cosparso di barricate all’apparenza invalicabili. All’opposto, bisognerebbe lavorare sullo sviluppo di una consapevolezza informata di quanto sia davvero necessario al sostentamento dei corpi (e degli spiriti). Si potranno così compiere scelte che siano adatte via via agli specifici contesti in cui si inscrivono e, laddove indispensabile, scegliere se mangiare animali o meno, se affidarsi alla produzione industriale oppure no, e ancora di quali tipi di frutta e verdura nutrirsi, di quale provenienza e con quale impatto ambientale.
La levatura di un libro come Gli animali di Calvino si dimostra proprio nelle sfumature dialettiche che è in grado di accogliere e stimolare. Primo tra tutti gli esseri a venire messo in discussione in queste riflessioni sull’animalità, si sarà capito, è in fondo l’essere umano. Anche e soprattutto in questo caso, la lente d’ingrandimento rivolta verso l’Anthropos come «soggetto corporativo disincarnato» (p. 85) rivela in realtà una moltitudine di variazioni e differenze interne, oltre che di vere e proprie diseguaglianze. Questo Anthropos, scrive Iovino discutendo di quello spazio di resistenza che è il Giardino dei gatti ostinati in Marcovaldo, «ha un impatto potente sia sulle dinamiche della terra che sulle comunità dei terrestri, ed è forse l’unico a beneficiare della fine dei rifugi e delle zone di contatto tra specie diverse che hanno reso possibile la vita umana» (p. 85). L’Anthropos alienato e alienante è, dunque, pura espressione del Capitale, ben diverso dalla molteplicità di condizioni umane (di anthropoi senza maiuscola) che da questo Capitale sono schiacciate tanto quanto lo sono i compagni animali. Anche per questo motivo, pur portando avanti una puntuale discussione dell’Antropocene in quanto categoria ormai saldamente affermatasi all’interno del discorso pubblico, il libro di Iovino non manca di far presente a più riprese che sarebbe ancor più corretto parlare di Capitalocene, secondo la definizione proposta da Jason W. Moore. Non tanto l’era in cui un Anthropos astratto è arrivato a modificare la composizione della Terra su scala planetaria, ma quella in cui uno specifico sistema economico nato in un determinato periodo e spazio, il Capitalismo, si è appropriato di risorse naturali, animali e umane fino a diventare a tutti gli effetti una forza geologica.
Tra le strategie cognitive e di analisi volte a illuminare questa serie di distinzioni, Iovino rivendica il valore dell’antropomorfismo – a cui già Calvino attinge a piene mani in un libro come le Cosmicomiche (1965), tra gli altri. Se usato con criterio, infatti, l’antropomorfismo è tutt’altro che una proiezione sugli animali dei comportamenti umani, che corre il rischio di schiacciare i primi sotto il peso dei secondi. Al contrario, individuare forme e pattern ricorrenti nei modi di fare e di comunicare di specie diverse può permettere di rilevare parentele dimenticate, similitudini ancestrali e affinità profonde. Da un lato, il focus su queste affinità porta Iovino a raccontarci commoventi storie di condivisione tra animali e umani, come quella della scimpanzé Washoe che, «rispondendo alla tristezza di una sua custode che le aveva detto nel linguaggio dei segni di avere perso il suo bambino, eseguì il segno che significa “piangere”» (p. 171): nonostante gli scimpanzé non piangano, Washoe aveva appreso il senso di questo comportamento nel corso della sua lunga relazione con gli umani. Dall’altro, l’affinità interspecifica offre il destro per una riflessione conclusiva da maneggiare con cura. Sto pensando alle pagine, molto chiare e bene argomentate, sull’estinzione come fenomeno relazionale. Iovino ne scrive nel capitolo sulla gallina e in quello sul gorilla:
L’estinzione non riguarda solo certe espressioni del dna, ma un intero mondo di coesistenze e di co-costruzioni evolutive, è una “conversazione generativa” che scompare dalla storia. Considerate in questa prospettiva, le masse di polli da carne e galline ovaiole, prive come sono della loro ecologia di relazioni, prive di un habitat reale che comporterebbe necessariamente una relazione con altre specie, ci sono, ma sono già estinte (p. 153).
L’estinzione, dunque, non è una mera questione numerica: possono esserci oggi milioni, persino miliardi di individui di una specie che presto sarà estinta, se nel proprio percorso evolutivo ha finito per rompere ogni legame con il proprio ambiente e con le altre specie. A ben riflettere, anche la specie umana sta pian piano perdendo ogni contatto con qualsiasi ambiente che non sia quello artificiale di un’urbanizzazione e industrializzazione forzata – e Marcovaldo di questa amara consapevolezza è stato un precursore. Per evitare che gli esseri umani compiano ulteriori passi avanti in una di quelle che l’antropologa Deborah Bird Rose chiama “zone di morte” (death zones), ossia «luoghi in cui è ancora possibile vedere gli individui, ma dove i loro mondi lentamente si dissolvono» (p. 151), è perciò fondamentale ricostruire con pazienza le molteplici, polimorfe maglie che ci uniscono all’ambiente e alle specie compagne. Le storie, in questo necessario processo di rammagliatura, saranno indispensabili. Tanto quanto lo sono saggi come quello di Serenella Iovino che, per usare una distinzione bakhtiniana, riesce a parlare ai lettori facendo a meno di tropi autoritativi – e in quanto tale monologici – e sviluppando piuttosto un discorso internamente persuasivo che invita al dialogo, alla dialettica e, perché no, all’azione.
Serenella Iovino, Gli animali di Calvino: Storie dall’Antropocene, Roma, Treccani 2023, 18 €, 213 pp.