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“Meglio non far nascere”: la maternità secondo Laudomia Bonanni

Dopo Il bambino di pietra nel 2021, Cliquot torna a pubblicare Laudomia Bonanni, riproponendo, questa volta, il romanzo del 1982 Le droghe. Considerata l’opera conclusiva della carriera letteraria di Bonanni, Le droghe è l’ultimo romanzo pubblicato dall’autrice mentre è ancora in vita (La rappresaglia verrà pubblicato postumo nel 2003), riscuotendo pochissimo successo. Al centro del romanzo, diviso in quattro parti, vi è il rapporto madre-figlio di Giulia e Giuliano: nella prima parte si racconta l’infanzia della protagonista, nella seconda quella di Giuliano, nelle ultime due parti l’adolescenza e la tossicodipendenza del figlio. Nonostante, come suggerito dal titolo, quest’ultima sembri essere il nucleo dell’opera e della vicenda, e nonostante l’analisi del conflitto generazionale offerta da Bonanni sia lucida e in qualche modo ancora attuale, la parte conclusiva è la  meno riuscita del romanzo, impregnata come è di luoghi comuni resi in parte pertinenti solo dal punto di vista della protagonista e dalla prima persona che narra la vicenda: la rappresentazione a tratti stereotipata della tossicodipendenza non stona con il punto di vista apprensivo della madre protagonista, in piena lotta generazionale con(tro) il figlio.

Il tema che, invece, ritengo sia la forza e la parte più interessante del romanzo è quello della maternità, al centro di tutti i romanzi di Bonanni. Il merito dell’autrice, come evidenziato anche da Sandra Petrignani nella prefazione all’edizione di Cliquot, è quello di offrire ritratti sempre inediti su un tema così sfruttato, diffuso e, spesso, abusato. Ad una maternità non biologica Bonanni aveva già accennato nella conclusione de Il bambino di pietra, nel quale Cassandra, la protagonista, rifiutata per sé stessa l’esperienza del parto e della maternità, si riscopre “figura materna” nel suo rapporto con la nipote – precisando, però, di non avere «”sensi materni”. Quello che provo è solidarietà femminile […]» (151). In Le droghe l’adozione diventa il cuore della vicenda e delle riflessioni di autrice e protagonista. Giulia, infatti, sposata con il vedovo Giulio, ricopre immediatamente le vesti di madre per l’orfano Giuliano: la quasi omonimia si dimostrerà tutt’altro che una coincidenza durante lo sviluppo del rapporto simbiotico tra madre e figlio – «Perché mi chiamo Giulio, e tu ti chiami Giulia e il bambino Giuliano, perfetto» (57) –, accomunati innanzitutto dalla condizione di orfani (anche Giulia ha perso la madre da bambina, rimanendo sola con il padre). Mentre nel caso de Il bambino di pietra Cassandra rifiuta ancora la possibilità di considerarsi madre, Giulia non la allontana – «Mio figlio, dissi, ho sempre ritenuto di avere un figlio» (88) – ma anzi la sceglie e rivendica attivamente – «Lo capii in quel momento. Era il bambino che avevo voluto» (72). Nei momenti di maggiore morbosità (concetto che prendo in prestito di nuovo da Il bambino di pietra, in cui la protagonista utilizza il termine per definire il rapporto filiale con la nipote – «Non escludo che ci sia del morboso» (151)) il rapporto madre-figlio richiama il modello morantiano di maternità, come nei casi di Aracoeli e Manuel in Aracoeli, o Nunzia e Arturo ne L’isola di Arturo. Giulia, però, riconosce e censura questa deriva, apparentemente inevitabile, del rapporto madre-figlio, nei numerosi flussi di coscienza paratattici che definiscono lo stile sempre conciso e tagliente di Bonanni: «[…] non fare l’incestuosa Fedra, con la voce del padre. Vergogna del mio subcosciente» (113). Tale morbosità è una conseguenza del distacco, altrettanto inevitabile e di kristeviana memoria, necessario tra madre e figlio affinché il secondo si faccia soggetto agente. Distacco che Giulia e Giuliano tentano pur non essendo legati dall’esperienza del parto – il quale appunto, secondo Kristeva, rappresenta la separazione per antonomasia. E anzi forse proprio alla luce di questo, proprio dalla mancanza di un atto violento e separatore come il parto deriva la difficoltà dell’allontanamento per i due personaggi.

Nonostante la natura non biologica del rapporto, la “brutalità della nascita” è ampiamente descritta da Bonanni, in questo romanzo anche più che in altri:

Lo strillo della nascita, che tutti intorno aspettano e accolgono con stupida soddisfazione, è invece un grido di dolore. Si viene al mondo terrorizzati. Tirati via con le mani, col ferro, fuori dal bagno caldo buio sicuro, scagliati in un gelo ustionante. La bruciatura improvvisa dell’ossigeno nei polmoni. E subito il taglio nel vivo. Afferrati per i piedi, a testa in giù, spenzolanti, schiaffeggiati, l’accoglienza crudele. Gelida dura la bilancia, un duro piano di tavolo, ruvidi panni graffianti (62).

Il parto nella sua natura violenta e separatoria non sta solo a definire l’intero rapporto madre-figlio, ma è strumento principe dell’autrice per costruire il parallelismo (leitmotiv nell’opera bonanniana) tra nascita/maternità e morte. Il parto della madre biologica di Giuliano è descritto in termini funerei: madre e figlio sono «resuscitati», lei è «esangue», i parenti intorno esclamano «che bello, sia ai neonati che ai morti» (50). Durante la gravidanza tentata (senza successo) da Giulia dopo l’adozione di Giuliano, la protagonista si descrive come «carceriera senza chiave» di un feto/prigioniero. Nel parto, Giulia si estranea da sé stessa e si vede «una donna tutta sclavicolata come nelle antiche immagini delle torture». Anche la naturale tenerezza attribuita alla vista dei neonati è qui capovolta in vero e proprio senso di disgusto – «La vista dei bambini mi dà la nausea. Nausea fisica, una sensazione di disgusto alla narice del naso» (127) –, tanto che Giulia chiosa «meglio non far nascere» (155). D’altra parte, quella di Giulia non sembra solo una predispozione mentale e spirituale, ma anche e innanzitutto fisica: già da bambina si definisce non adatta alla procreazione, e in età adulta il suo medico conferma la sua conformazione «troppo stretta» che rende una gravidanza «improbabile». L’accostamento nascita/morte viene rafforzato dalla narrativizzazione originale della stereotipica tendenza femminile alla cura. Se le donne sono infatti “naturalmente” programmate per accompagnare alla nascita (in modo violento tanto quanto può esserlo la morte), le stesse sembrano anche essere state insignite del dovere di accompagnare verso la morte. Due ruoli solo apparentemente opposti o compensativi, ma che in realtà sono della stessa natura. Se ne Il bambino di pietra il tema è affrontato maggiormente e in toni più aspri e polemici perché è la protagonista stessa a farsi peso dei genitori anziani e morenti, qui il tema è accennato, ad esempio, quando Giulia osserva la sua anziana prozia che «dipende in tutto dalle donne» (36). I richiami, anche se brevi accenni, a temi ed episodi dei romanzi precedenti dell’autrice d’altronde sono moltissimi: le descrizioni dei paesaggi di montagna (abruzzesi), stilisticamente dannunziane, ricordano i primi racconti “giovanili”; il racconto di un processo partigiano a un fascista riecheggia la vicenda de La rappresaglia; un drammatico episodio di infanticidio raccontato da Giulia richiama esplicitamente l’evento motore della trama de L’imputata, così come allo stesso romanzo rimandano le descrizioni della guerra, e in particolare del ruolo delle donne durante la guerra – «Ingrassavano di farina e d’angoscia, le donne, gli uomini dimagriti all’osso nei nascondigli» (38). I richiami al romanzo del 1964 L’adultera sono anche più numerosi ed interessanti. Se la violenza maschile era lì descritta nelle sue declinazioni più subdole e meno note, lo stesso viene fatto in Le droghe, dove però il tono della narratrice diventa più smaccatamente ironico e pungente, perché più consapevole e rassegnato piuttosto che sorpreso – «corse quella voce ingrossata a stupro» (30); «che ne avrà fatto del suo membro, rampognato, condannato mille volte in tribunale, le malefatte dello strumento diabolico» (70). Così come Linda, protagonista de L’adultera, ammetteva a sé stessa di aver scelto di sposarsi per inseguire la libertà, Giulia ammette di averlo fatto per fuggire dal padre, per inseguire un sogno di libertà ed emancipazione che le donne sentono di poter raggiungere, illuse, solo sposandosi, per «espander[s]i e sbrigliar[s]i» (53). Numerosi sono i richiami a Il bambino di pietra già elencati fin qui, a cui si può aggiungere la natura quasi diaristica del racconto di Giulia. Comune a entrambe è anche il senso di umiliazione provato durante i rapporti sessuali, così come la polemica contro l’obbligo sociale di stare in coppia, a cui queste protagoniste soccombono, sì, ma consapevoli:

La maggioranza assoluta è delle sposate. Sono tutte sposate, lo sono tutti gli uomini. Incredibile come la gente universalmente si sposi, o si accoppi, che è lo stesso. Sorprendente, anzi strano, che ci sia chi non lo faccia. Èvero che ci si insospettisce delle persone in età rimaste sole, uomini o donne. L’individuo passato attraverso la vita senza accompagnarsi, è un diverso (90).

Sia Cassandra che Giulia, infine, hanno l’abitudine di «ascoltarsi il cuore»:

Ricado sempre ad ascoltarmi il cuore (Il bambino di pietra, 43).

Mio padre s’accorse una volta che tenevo le dita sul polso. Disse filato che ascoltarsi il cuore è causa di terrore e poi si impuntò (Le droghe, 71).

Se a questo sistema di echi e richiami si aggiunge la coerenza dello stile tradizionalmente bonanniano – con l’assenza frequente di verbi, la paratassi dominante e la frammentarietà tipica degli appunti diaristici – è chiaro come Le droghe sia un’opera imprescindibile per la conoscenza e lo studio di questa autrice, anche perché summa efficace della sua opera omnia.

Bonanni è stata un’autrice dal successo improvviso ma breve, ingiustamente dimenticata da pubblico, editoria e accademia. Il lavoro di case editrici quali Cliquot, alla riscoperta di scrittrici (e scrittori) a cui il Novecento italiano deve moltissimo, è quindi prezioso. Rileggere Le droghe (o anche Il bambino di pietra sempre per Cliquot, o Il fosso e La rappresaglia per Textus Edizioni, da poco ristampati), approfondire la maternità fuori canone di questa autrice, avvicinarsi al suo stile spesso lapidario e fortemente ironico significa contribuire attivamente alla conoscenza e diffusione di quella che è forse una delle penne più innovative del secolo scorso.


Laudomia Bonanni, Le droghe, Roma, Cliquot, 2023, 18 €, 187 pp.