Questa è una delle ultime settimane di un’estate interminabile. Sono passati poco più di tre mesi da quando qui a Faenza (come in altre zone della Romagna) l’acqua e il fango hanno sommerso, capovolto e distrutto case, scuole, negozi, cantine, auto.
Alcune parti della città sono ancora deserte, secche e abbandonate; le bocche di lupo delle cantine e le finestre dei primi piani spalancate per fare uscire l’umidità e l’odore di marcio (all’interno, delle case svuotate di tutto, anche dei pavimenti, dei controsoffitti e degli intonaci); le vanghe ancora appoggiate al muro; il fango, da appiccicoso, freddo e scuro, è diventato durissimo, bollente e bianco.
I cortili crepati sembrano il carapace di un’enorme tartaruga stanca e vecchia.
Il Ponte delle Grazie, principale punto di raccordo fra le due parti di Faenza tagliate dal Lamone, è ancora chiuso al traffico delle auto. Dovrà essere completamente rifatto, dopo che la notte del 16 maggio l’acqua lo aveva raggiunto, ricoperto e scavallato. Il fiume ora è poca cosa: sta in basso, sembra non muoversi. Gli argini in ricostruzione sono enormi: dune di sabbia ben spianate su cui non si può camminare.
Per molti edifici lì attorno, questi tre mesi non sono mai passati.
Il 16 maggio avrei dovuto presentare a Bologna un libro sull’Antropocene [1]. La mattina ricevo sul telefono delle comunicazioni da parte della protezione civile riguardo un’allerta meteo (rossa) per alluvioni. Durante il giorno non smette mai di piovere: l’acqua continua a salire. La notte non dormiamo. Continuo a sentire amici e parenti: da voi è arrivata? Quanto è salita? Siete sotto? La parola ‘acqua’ non si fa mai. Ci si aggiorna ogni mezz’ora, ma la linea va e viene, e la corrente elettrica salta. So di essere al sicuro (il mio appartamento è piuttosto lontano dal fiume); mi dicono ‘se arriva da te, siamo tutti spacciati’; tuttavia, cerco soluzioni per Ettore e Ida, che dormono lì vicino e ogni tanto mugugnano, svegliati dalle sirene delle ambulanze, dalle vibrazioni degli elicotteri, dagli altoparlanti che intimano di lasciare le abitazioni.
L’acqua è arrivata a 200 metri da casa nostra, sommergendo buona parte della città.
Il giorno successivo, a togliere il fiato sono il silenzio, la puzza di marcio unita a quella di benzina e diesel rilasciati dalle auto sommerse e rovesciate, e la percezione che la catastrofe sia appena cominciata, ancora tutta da vivere.
Quella che nei giorni dell’alluvione chiamiamo acqua non è acqua; è il suo contrario. Non è inodore, né incolore né insapore. È melma, è fango.
Non è l’acqua della pioggia, nemmeno quella dei mari o dei fiumi; è il letto del fiume, è l’argine del fiume, la terra bagnata che gli sta tutto attorno. È molto più pesante, ingestibile, inlavabile dell’acqua. Anzi, va pulita con l’acqua; va spostata, scrostata e sfregata da piante, animali, persone, muri, divani, pacchi di pasta, vestiti, giochi, pentole, computer, scuole.
Almeno per i primi giorni, le donne stanno a casa con i figli, a cucinare, preparare, pulire, lavare il fango. Gli uomini con le vanghe e gli spazzoloni a spalare, spaccare, togliere.
So che non è successo a tutte, ma per me e per tante altre è stato così.
Le donne devono mantenere e diffondere la calma, stare ferme tra le mura (quelle asciutte), pensare a cosa mettere in tavola, pensare a far giocare i bambini perché le scuole sono sempre chiuse, pensare a chiamare i vicini, sentire se la zia ha bisogno, se l’amica con la figlia piccola che aspetta sul tetto ha ricevuto i soccorsi. Gli uomini possono permettersi di bestemmiare, andare a vedere il fiume, incazzarsi con il sindaco con la regione con dio. Possono sfogare la rabbia spaccando i mobili marci, spingere via il fango. Noi no.
So che non è sempre così – provo a convincermene – ma mentre gli uomini girano per la città, recuperano strumenti da lavoro, commentano tutto provando a rimodellare il mondo riportandolo a come era prima, noi stiamo in casa a organizzare via messaggio raccolte di vestiti, convincere i figli a fare qualche compito, leggere un libro, fare i biscotti (proprio come durante il lockdown).
In questi due modi di affrontare la tragedia, mi pare di vedere – al di là del genere – due diverse modalità di abitare questa terra: da una parte c’è chi si arrabbia, chi vuole imporre la propria azione su una materia inerte, chi vuole modellare e rimodellare il mondo e dall’altra chi sta lì, si adatta, si muove in silenzio, fa rete, si prende cura.
Ovvio che spalare il fango, pulire, svuotare le case e le cantine distrutte è fondamentale e tante donne lo hanno fatto, me compresa, per molti giorni, perché andava fatto; ma quello che ho vissuto (nella mia famiglia, nelle mie amicizie) è stato anche altro. Al cospetto della catastrofe, i meccanismi più radicati della nostra società, della nostra piccola comunità, sono emersi chiaramente e in maniera direi ineluttabile: era ‘ovvio’ cosa avrebbe dovuto fare ognuno di noi; e per me uscire di casa per andare a spalare era una specie di lusso.
Due giorni dopo quel 16 maggio, dico a mia figlia di sette anni di mettersi gli stivali, le scarto un ghiacciolo all’amarena e la carico in bici.
Facciamo un lungo giro. Io pedalo, guardo, ogni tanto scatto una fotografia, non riesco a parlare. Proviamo a raggiungere la scuola di Ida, ma in bici c’è troppo fango per passare. Andiamo dall’amica, dalla cugina, dalle case di là dal fiume. Scivoliamo perché le ruote slittano troppo e ci rialziamo.
Vediamo le viscere delle case riversarsi in strada, vomitate nel fango e nella melma: culle di vimini, libri, lavatrici, armadi, frigoriferi, biciclette, passeggini e pianoforti.
Mi chiedo spesso, in quei giorni dell’alluvione, dove sia la letteratura. Certamente non nei libri: né in quelli marci ai lati delle strade, né in quelli distrutti delle biblioteche di Faenza, Forlì e Lugo (per i più antichi e pregiati liberano interi congelatori di aziende di surgelati, per evitare che i funghi proliferino), nemmeno in quelli asciutti sparsi per casa, che quasi mi danno fastidio al passaggio.
La letteratura non è nemmeno nei discorsi sempre uguali che facciamo, nelle domande che si ripetono con parenti, amici, conoscenti. “Io bene, sono stata fortunata, ma il mio amico ha perso tutto, proprio tutto.” “Abbiamo tolto i pavimenti e i cartongessi. La vostra cantina com’è messa?” “In via Carboni è un macello, hai visto la biblioteca?” “Da voi è tornata la luce?” “Ho fatto domanda per gli spurghi ma non sono ancora arrivati.” “Attento che se il fango si secca poi non lo togli più.”
Dov’è la letteratura quando, dopo una settimana immersi nella melma a spalare, spingere, puntare l’idropulitrice sui muri, sui vestiti, su qualsiasi cosa abbiamo attorno, ci dicono di non toccarlo quel fango, di controllare se siamo a posto con il vaccino contro il tetano. “Non fate assolutamente giocare i bambini con il fango, usate mascherine, guanti e stivali alti.” Ma il fango è già entrato nelle nostre case, nei nostri vestiti, dentro gli stivali dei nostri figli, a volte in bocca e negli occhi, sicuramente dentro le orecchie.
Le settimane successive sono sabbiose, calde, ricoperte di una polvere chiara finissima (a raccontarle ora dà quasi fastidio, come mettersi a rileggere un diario del lockdown: finto, retorico, un po’ penoso).
Le strade sono piene di cumuli di roba marcia che sono il dentro delle case. L’odore è di fogna, di cane bagnato, di liquami.
Non avevo mai visto la forza dell’acqua, non avevo l’audacia di immaginare i soffitti degli appartamenti rotti dai mobili alzati dal gorgo, non avrei potuto figurarmi nella testa una Faenza rovesciata.
I luoghi che conosco e che sono sempre restati lì, puliti e in ordine, mentre io andavo a Firenze, a Parigi, ad Atene, erano diventati altro, si erano trasformati in una notte. È l’unica cosa che mi dice Ida durante quel lungo giro in bici: “mamma, ma io Faenza non la riconosco più”. Quello che io consideravo lo sfondo inerte delle mie azioni, delle mie partenze e dei miei ritorni, ha preso una forma che non riconosco, impensabile. Un’immagine sfigurata allo specchio.
Gli oggetti del dentro, del comodo, del caldo e dell’asciutto sono diventati i rifiuti del fuori (marci, colanti).
Straniamento, disorientamento, angoscia e perdita: qualcosa di molto simile l’avevo già provato qualche mese prima. Tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio ero stata in alcune zone della Rotta Balcanica per guardare con i miei occhi i luoghi di confine, le crepe tragiche di quella che chiamiamo Europa. Proprio lì ho avuto quella sensazione di rovesciamento del rapporto tra un dentro e un fuori.
Camminavo negli squats dove le persone in movimento passano giorni, settimane, mesi e a volte anni, in attesa di riuscire ad attraversare una frontiera, tentativo dopo tentativo, respingimento dopo respingimento. Sul confine, di notte, la polizia ti aggredisce, ti spacca il telefono, ti toglie i vestiti e le scarpe e ti lascia così, inerme e ferito in mezzo a un bosco. È in queste condizioni che le persone arrivano negli squats, spesso fabbriche abbandonate, capannoni industriali enormi e asfissianti allo stesso tempo. Da qui, qualche mese fa, scrivevo:
Ci sono scritte e murales: ‘nous combattons les frontières’, ‘stop pushbacks now’, ‘good luck for the game’. ‘Game’ significa provare e riprovare la rotta, l’attraversamento delle frontiere, giocarsi la vita confine dopo confine. La ‘m’ di ‘game’ è quella del ‘monster’, un energy drink pieno di caffeina e taurina che molte persone in movimento bevono per affrontare appunto il game, la stanchezza, la perdita di speranza.
Scrivevo ancora:
Dei cani randagi ci fanno strada, entrano ed escono da questi luoghi dove si ribaltano le idee di casa e riparo, di ‘dentro’ e ‘fuori’. Tutto quello che solitamente lasciamo fuori o facciamo uscire dalle nostre abitazioni (rifiuti, escrementi, ogni tipo di scarto), qui lo si trova ovunque, in quantità tale da interrompere il respiro. Tutto è marcio, freddo, sgocciolante. Pensi alle persone costrette a riposare qui: “qualche giorno per curare le ferite ai piedi e ripartiamo” si dicono. Il tempo per trovare un paio di scarpe, procurarsi un telefono dove studiare la rotta, stendersi qualche ora. Ma non è un passaggio, non è un errore; la grandezza del luogo, le migliaia di bottigliette d’acqua, lattine, scatolette, piatti e sacchetti non lasciano scampo. Testimoniano tragiche permanenze, innumerevoli notti.
In quei giorni di inverno passati ad attraversare, con il mio passaporto europeo, i confini tra l’Italia e la Croazia, poi la Croazia e la Bosnia, pensavo a questo rovesciamento. Che è il rovesciamento che ho vissuto, in una forma diversa, durante quei giorni di maggio. Come la nostra vita, la nostra casa, il nostro umore, i rapporti con le altre persone cambiano, nel preciso istante in cui un argine del fiume non tiene o un confine è chiuso?
Il mondo (o la Natura), di cui facciamo parte (e di cui, per questo motivo, avremo sempre una visione parzialissima) è complesso e agisce. La stessa alluvione è l’effetto di un tipo di relazione che noi faentine e faentini abbiamo avuto con il fiume, costruendo dove non andava costruito, o non lasciando all’acqua via di sfogo. La Natura agisce e reagisce: non è più pensabile come uno sfondo, né come un concetto pienamente definibile e dominabile con l’azione o con il linguaggio.
E allora forse è qui che si trova la letteratura, nella proposta di relazione sempre incerta e instabile con il mondo; nell’idea di intreccio continuo tra visibile e invisibile; nella possibilità di tenere insieme i paradossi, a partire dal linguaggio che definisce la realtà e al tempo stesso – per come funziona – testimonia l’impossibilità di controllo sul mondo. Proprio nello spazio di questo fallimento si aprono dei pertugi e delle crepe, dove passa la letteratura.
Il rovesciamento di Faenza (di un dentro nel fuori) e quello dei luoghi sulla Rotta Balcanica (di un fuori nel dentro) sono effetti, affezioni, del mondo su di noi. Di fronte a tali catastrofi, non è più possibile modellare e rimodellare il mondo imprimendo un’azione. Anzi, agire sull’ambiente nel quale viviamo come fosse un oggetto inerme è fallimentare. Non è auspicabile tornare a un mondo pre-covid, non è auspicabile che Faenza sia ricostruita come prima, perché quel modo e quel mondo lì hanno fallito.
Il diaframma fra dentro e fuori è sempre la ‘casa’, l’abitare, l’essere in relazione con un ambiente, e soprattutto – secondo l’etimologia della parola ‘abitare’ – il ‘continuare ad avere’ un rapporto con quello che ci circonda, con un mondo. Ci sono tanti modi di abitare; sicuramente, quello che una parte dell’umanità ha fino ad ora adottato (che simbolicamente ho associato agli uomini che spalavano), ovvero l’idea che la realtà sia dispiegata di fronte a noi e sia maneggiabile, ha fallito.
Non possiamo più pensare lo spazio, la Terra, l’atmosfera, come qualcosa di passivo e completamente modellabile dall’Uomo; al contrario, la ‘Natura’ reagisce all’azione umana anche in modo inaspettato e poco controllabile, perché ha una potenza, qualcosa di sacro e imponderabile. In altre parole: ha con noi una relazione. Come qualsiasi altro essere con cui entriamo in rapporto, il mondo agisce e ci ‘risponde’, sia in base quello che noi facciamo, sia (soprattutto) al di là di noi.
Perché, come qualsiasi altro essere con cui entriamo in rapporto, il mondo è molto più vasto delle relazioni che intrattiene.
[1] Il posto del negativo. Filosofia e questione dell’umano alla luce dell’Antropocene di Paolo Missiroli.