Fra le varie riflessioni che compongono il Diario di un’estate marziana di Tommaso Pincio, ce ne sono diverse sul rapporto di Ennio Flaiano con la città di Roma. In una di esse, lo scrittore cerca di delineare il complesso sentimento dell’autore di Tempo di uccidere verso la capitale, e scrive:

Non voglio girarci attorno, quello di Flaiano per Roma era un sentimento di odiamore, il che non significa semplicemente che l’odio per la città fosse maggiore dell’amore. I sentimenti non vanno pesati sui piatti di una bilancia ma su quelli del tempo. […] L’amore persiste solo come residuo del passato. Sul piatto del presente prevale un disamoramento che, con gli anni, ha assunto diversi colori, andando dal disincanto all’insofferenza, al rancore, fino all’odio vero e proprio. Il vero punto è però l’altro piatto: a quando risale questo amore, se amore c’è davvero stato.

Il passaggio in questione ha colpito la mia attenzione: si trova nelle pagine iniziali del libro, in cui Pincio sta cercando di presentare come intrinsecamente romane questioni e sentimenti che mi sembra possano riguardare ogni città. Più avanti, mettendo a punto e precisando ciò che vuole dire su Flaiano e su Roma e sull’estate, si comprende invece che il libro di Pincio è fortemente romano, e che le cose che dice non possono che riferirsi a Roma; ma lì per lì, più che alla Città Eterna, quel sentimento e quella domanda finale («a quando risale questo amore, se amore c’è davvero stato»?), mi hanno fatto ripensare al libro che ho letto immediatamente prima di questo Diario, ossia Come in sogno. Il racconto di Palermo, volumetto a quattro mani di Michele Perriera e Giorgio Vasta (Glifo Edizioni, Palermo, 256 pp.).

Libro a quattro mani, costruito sulla giustapposizione di due parti. La prima risale al 1988, si intitola Orlando. Intervista al sindaco di Palermo, ed è appunto un dialogo tra Michele Perriera e Orlando. Quest’ultimo è personaggio noto a livello nazionale, essendo stato il primo cittadino del capoluogo siciliano per diversi mandati dal 1985 al 2022. Michele Perriera è stato invece uno degli intellettuali siciliani più vivaci del secondo Novecento, nonché membro del Gruppo 63, esponente di spicco della scuola di Palermo e collaboratore della Sellerio: un personaggio, dunque, fortemente legato alla scena intellettuale della città in quell’epoca. La seconda parte, Essere ancora qui, firmata da Vasta, è anch’essa un’intervista a Orlando, realizzata nel 2021. A precederle, alcune foto di Letizia Battaglia, ispiratrice e committente del libro: è lei a chiedere a Perriera, negli anni Ottanta, in virtù della comune appartenenza al mondo culturale palermitano, di intervistare il nuovo sindaco, «perché da un giorno all’altro Orlando cade e c’è gente che farà di tutto per far dimenticare che razza di città voleva» (p. 28). La richiesta di Battaglia dà il tono un po’ a tutto il libro, ma per contrasto, in negativo: l’intenso e fitto dialogo tra Perriera e Orlando che occupa le prime centocinquanta pagine non si abbandona mai alla fiducia e alla speranza cieca nei confronti dell’homo novus della politica siciliana dell’epoca; quanto alla parte di Vasta, la figura di Orlando vi è rappresentata come elefantiaca (letteralmente: l’animale che lo stesso sindaco sceglie come suo simbolo, a dispetto della rivalità con Catania, è appunto il grosso pachiderma); nelle parole di Vasta è quasi percepibile uno spesso strato di polvere depositato su Orlando e su Palermo stessa. L’autore esprime a più riprese il proprio disagio nella città, ma nell’esprimerlo dà vita a cento pagine che delineano una Palermo a suo modo affascinante, adorata, estetizzata attraverso la lingua, come avviene anche in altre sue opere: per questo la domanda di Pincio mi è sembrata pertinente e insieme bisognosa d’una modifica. Ciò che ci si chiede, leggendo gli scritti palermitani di Vasta, è questo: a cosa è dovuto questo disagio, se disagio c’è davvero stato? Così parla della vita notturna palermitana:

le gelaterie aperte, i palermitani che mangiano i gelati – suos devorat alienos nutrit -, le brioche come tanti crani di Yorick – Per me una vanitas cioccolato pistacchio e panna, Per me un memento mori fragola e gelsi -, e allora allungo il passo, nictalopo tra i nictalopi, e cammino con l’andatura tesa, tra evitamento e fuga, che è propria di ogni nemico della contentezza […] e io so che Palermo è la mia nevrosi, è il nervosismo del mio corpo e dunque la mia andatura è rotta, irrisolta, perduta (p. 186).

Cito questo brano come esempio di ciò che accade molto spesso in Vasta, ossia la trasfigurazione di qualcosa di reale in qualcosa di immaginato – e viceversa. Appaiono, in questo centinaio di pagine, molte figure: dal Genio di Palermo – nume della città – a una serie di mostri mitologici composti dai sacchi della spazzatura; dai dinosauri scheletrici che si muovono ai piccoli animali – il lemure su tutti – in cui Vasta si identifica. Al tempo stesso, contiene l’ammissione principale, forse la dichiarazione di poetica più onesta e limpida che Vasta ci ha dato nelle sue pagine, nell’identificazione di Palermo in una nevrosi. Il «nervosismo» è la vena stessa della scrittura di Vasta; la trama immaginifica è una colonna portante dell’architettura del libro e di tutti i libri dell’autore, ma qui è ulteriormente valorizzata dalla giustapposizione con la parte molto più realistica di Perriera.

Ora, la pubblicazione di questo libro è passata un po’ in sordina, forse perché messo in ombra dall’altro libro d’argomento palermitano uscito poco prima: quel Palermo che per molti ha segnato una svolta stilistica nella carriera di Vasta, imperniato com’è su un unico discorso, una specie di monologo magmatico, una colata sintattica di cinquanta pagine in cui, come ha scritto Niccolò Amelii su questa stessa rivista, lo scrittore «sembra chiedere alla città, propaggine che diviene centro simbolico – di un intero Paese, di una intera esistenza – non più di parlargli metaforicamente dell’Italia, bensì di raccontargli di sé, di ciò che è diventato nel corso degli anni, di ciò che resta e dovrà restare, nonostante i reiterati tentativi di disconoscere ogni retaggio di naturale appartenenza». Al tempo stesso, Palermo si reggeva su un’astrazione particolarmente sofisticata, quasi filosofica: ricostruire la propria vita attraverso la luce. Vengono in mente le parole di Celati, tratte da Verso la foce: «le cose navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo ai nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi fossimo qui solo per questo». L’autobiografia disordinata di Vasta ha senso perché nella trama dell’universo in cui viviamo la luce domina il tempo, il tempo stesso è possibile ed esiste solo nella materialità della luce: in questo senso, Palermo costituisce una vera e propria tappa d’arrivo d’un percorso concettuale che caratterizza il pensiero di Vasta. Penso, ad esempio, alla conferenza tenuta in più sedi fra il 2017 e il 2018, Dieci materiali per un bastone, in cui l’autore indicava nella descrizione che Epstein fa dei fuochi d’artificio in Atlante occidentale di Daniele Del Giudice il suo brano-totem della letteratura italiana degli ultimi decenni; questo tentativo di materializzare la luce pare persino spiegare a posteriori il titolo del romanzo che ha rivelato Vasta, Il tempo materiale.

In tutto questo, Come in sogno – almeno a livello stilistico – sembra meno dirompente, molto più simile al Vasta pre-Palermo che abbiamo conosciuto altrove; in particolare, sembra molto più vicino a Spaesamento. La differenza, verrebbe da dire, sta nel fatto che nel testo del 2010 il dolore del ritorno si innesta su uno sfondo politico e sociale preciso, che Vasta rende metafisico attraverso la scrittura; qui, l’orizzonte civile di Palermo – incarnato da Orlando – si presenta come eterno fin da subito, e Vasta si “limita” a descriverlo. Il concetto di tempo è una delle componenti principali di questa operazione. L’autore prende infatti le mosse dal celeberrimo e brevissimo racconto di Augusto Monterroso: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì»; e riflettendo sull’immagine, scrive: «mi sento affettuoso anche nei confronti del dinosauro, così enorme e ignaro, un coagulo di tempo che permane in sé stesso, che si rinnova ripetendosi, e se invece si rivoluziona questo non si vede perché a risaltare, in lui, è la vita immutabile» (p. 149). Il cambiamento climatico, dicono molti autori contemporanei, ci mette in crisi anche perché ci costringe a pensare su scale temporali che non appartengono alla dimensione umana. Come nota Dipesh Chakrabarty nel saggio Clima e capitale: storie congiunte, «lo stesso linguaggio che utilizziamo per parlare della crisi climatica è vittima di questo problema delle differenti scale temporali: umane e in- o non-umane». Il testo di Vasta ci mette davanti a un problema molto simile: anzi, più precisamente, racconta di Vasta stesso che lo esperisce. La strategia messa in atto, però, è controintuitiva: se l’autore individua una sorta di Palermo eterna, che va al di là dell’esperienza del singolo individuo («avere l’impressione che lo spazio – e il suo correlativo: il tempo – non si muove […] sarebbe una semplificazione di cui voglio fare a meno», p. 165), essa non corrisponde a Orlando, perché l’idea di tempo sottesa a Palermo, semplicemente, non prevede alcuna progressione:

E dunque, mettendo da parte Palermo, mi domando: a che cosa è servito tutto il tempo trascorso, miliardi di miliardi di miliardi di tic-tac? […] Quello che so è che il tempo trascorso ha agito sulla mia percezione delle cose, su come le conosco e su come le immagino […]. Il mio sguardo, già deforme, si è ulteriormente alterato. E dunque? D’impulso mi viene da dire che il tempo trascorso nella percezione di Palermo è servito a portare il mio sguardo a uno stato di rassegnazione. […] Il tempo trascorso nell’attesa è servito a rendere nitido un sentimento di umiliazione. Nel corso di oltre trent’anni – vivendo a Palermo, non vivendoci più, tornando a viverci -, il mio piccolo sguardo medioborghese, educato a immaginare che le metamorfosi, se desiderate e nutrite, siano sempre e ovunque un fatto possibile, si è contratto finendo per allinearsi allo sguardo enorme di chi in questa città ha sempre vissuto al di fuori del pensiero del cambiamento (pp. 233-234).

Nell’intelaiatura temporale di Palermo, Orlando è percepito come «un’era» solo dalla media borghesia; accanto a questa classe, si chiede Vasta, è possibile che un «substrato di Palermo – la città fossile, il suo nucleo atemporale, tutto ciò che in questa città appare sempre identico a sé stesso – non abbia mai davvero percepito la presenza di Orlando […]?» (p. 236).

L’incedere del tempo, dunque, non come corsa sicura, ma come cammino balbettante, incerto, nutrito di contraddizioni: così, per Vasta, funziona anche la lingua. «Ogni frase è un fenomeno in sé sereno;», scrive citando Celati, «un fenomeno smemorato, ignaro; per esistere, una frase non ha bisogno di sapere che cosa la voce ha detto poco prima, che cosa dirà dopo: esiste la frase in sé, qui, adesso – il punto, l’istante -, la frase che compare e simultaneamente svanisce» (p. 239). La voce, in effetti, è un altro tema del libro, che Vasta puntualizza proprio in merito a quella di Orlando, che – in prosecuzione con quanto si dice riguardo al tempo – è come se fosse agito da Palermo: «Dentro la voce del sindaco c’è Palermo. E c’è al di là delle sue intenzioni. Palermo è dentro la voce di Orlando non quando parla della città o perché ne parla, ma in un modo più originario e sostanziale. Come un sapore» (p. 160). La voce, nell’impianto della riflessione di Vasta qui presente, si contrappone alla lingua, che può essere manipolata, può creare ma può anche giustificare lo stato di cose, come l’espressione «più viva che vivibile» usata da Orlando: «è una formula che appare immaginifica, certo, e risolutiva; induce a un moto di stupore, ma svolge un lavoro di manutenzione ordinaria del senso comune. È fatalismo, sebbene luccicante» (p. 173).

L’intreccio interno di questi tre temi (tempo, voce e lingua) e la mescolanza di questo intreccio con le aperture immaginifiche citate in apertura dettano il ritmo del libro, che si presenta come un lungo monologo di Vasta inframezzato dagli spunti che le parole di Orlando gli offrono. In questo senso, Essere ancora qui si oppone con decisione a Orlando. Intervista al sindaco di Palermo, la parte del libro scritta da Perriera. Abbiamo già accennato all’assenza di fantasticazioni in questo scritto; ciò è dovuto anche alla principale differenza fra i due testi. Quella di Perriera è a tutti gli effetti un’intervista: ha la forma di un dialogo diretto fra lo scrittore e Orlando, e anzi, a volte sembra quasi di leggere un dramma, tanto sono lasciati sullo sfondo i referenti reali della conversazione. Operando un confronto tra la lingua parlata da Orlando nell’intervista con Perriera e i frammenti della stessa che emergono dal ragionamento magmatico di Vasta, viene il dubbio che uno dei due scrittori abbia barato: si può pensare che Perriera abbia migliorato, approfondito e persino levigato letterariamente alcune delle cose dette da Orlando, che naturaliter parlerebbe come viene mostrato da Vasta; oppure, viceversa, Vasta ha volutamente scritto un Orlando che parla per frasi fatte e slogan, che si accende linguisticamente molto di rado, per mettere più in evidenza il contrasto fra il proprio flusso di pensiero e il discorso del sindaco. Nella parte di Vasta, d’altronde, Orlando sembra conquistare più spazio – e anche più legittimità come parlante – solo verso la fine, mentre si prepara la visione che conclude lo scritto. La verità, forse, sta salomonicamente nel mezzo; in ogni caso, il divario fra gli interlocutori è meno ampio in Orlando, il quale ci dà anche un’idea molto precisa di cosa ha rappresentato l’ex sindaco di Palermo per quella città negli anni Ottanta.

Dallo scritto di Perriera, infatti, viene fuori un Orlando molto agguerrito non solo sul piano dialettico, ma anche su quello dell’immagine. Ho letto il libro nei giorni della morte di Berlusconi, e un confronto tra quanto si diceva in quelle ore del fondatore di Forza Italia e il dibattito sul populismo di Orlando che percorre diverse di quelle pagine mostra quanto il politico palermitano fosse all’avanguardia già prima della famosa “discesa in campo” dell’imprenditore milanese. Difatti, si può azzardare l’ipotesi che parte della novità orlandiana fosse dovuta proprio a quel suo essere, a suo modo, un politico della Seconda Repubblica in un mondo che, nella gestione del potere, si reggeva ancora su dinamiche da Prima Repubblica: testimonianza ne sono le polemiche nate in seguito al cambio di giunta caduto esattamente a metà del suo primo mandato, in cui ha accolto nel governo della città, oltre ai comunisti che di lì a poco avrebbero affrontato la svolta della Bolognina, anche alcuni movimenti civici. È il paradosso di questo bel libro: l’Orlando più moderno appare quello del 1988 piuttosto che quello del 2021.

Non essendo un cittadino di Palermo, non sono nelle condizioni di operare un raffronto tra le promesse e le intenzioni di Orlando e ciò che ha fatto in quanto sindaco; né posso imbastire un discorso sull’immagine di Orlando percepita nel quotidiano dai palermitani rapportandola a quella che traspare dallo scritto di Vasta. Piuttosto, mi pare che le differenze tra le due parti segnalino il modo peculiare di Vasta di parlare delle cose pubbliche, che si è visto già nel Tempo materiale e in Spaesamento, oltre che nel diario di quattro mesi di Presente (2012). Infatti, la prosa elegante, finemente intellettuale di Perriera, che non raggiunge mai livelli di astrattezza simili a quelli di Vasta, funziona quasi come un liquido di contrasto su Essere ancora qui: spiega cioè la necessità della carica immaginifica di quest’ultimo scritto. Laddove Perriera mette in scena un dialogo sul potere e sulla sua gestione, Vasta ha bisogno di uno scarto ulteriore, prodotto il quale hanno a loro volta origine i vari personaggi che popolano le sue pagine. Non sfuggirà ai lettori più attenti, inoltre, che questo è forse lo scritto di Vasta più intessuto di citazioni altrui: quella di Celati che abbiamo riportato poco più su, ma anche Kafka, Manganelli, Joyce, Jovanotti (!); oltre a una criptocitazione del già citato Del Giudice, ravvisabile nella riflessione sui fuochi d’artificio a Palermo.

Concluderei con una domanda che, forse, non ha una vera risposta. Di chi è questo libro? Qual è l’intelligenza che lo ha ispirato: quella di Perriera, con cui Vasta si confronta di continuo? Quella di Vasta, che utilizza Perriera e Orlando come pezzi del suo discorso? O forse è Palermo stessa la vera protagonista e in un certo senso l’autrice del libro, senza la quale tutti gli elementi in gioco sparirebbero? Si potrebbe obiettare che probabilmente esistono tante risposte quante saranno i lettori del libro. Suggerisco un’ultima impressione, un’immagine con cui chiudere: forse tutti gli attori in gioco si tengono vicendevolmente sotto tiro, come in uno stallo alla messicana, e Palermo è una questione aperta in cui Perriera e Vasta si sono imbattuti a più di trent’anni di distanza l’uno dall’altro. Una questione che chiede uno scarto percettivo, l’ammissione di altre possibilità di vita: ciò che chiede Vasta, ciò che è successo a Perriera e Orlando rientrando a Palermo a tarda notte: l’irrealtà del reale. «In una dimensione umanamente vissuta», aggiunge, «arriva sempre il momento in cui si dice O no. Quel momento notturno, mentre rientravamo in città, è stato l’O no» (p. 248).


L’immagine dell’header è un’opera di street art palermitana dell’artista Pang Smithy.

M. Perriera, G. Vasta, Come in sogno. Il racconto di Palermo, pref. di L. Battaglia, a c. di M. Marino, Palermo, Glifo, 256 pp, € 18.