Il nuovo film di Ken Loach, The Old Oak, dal 16 novembre nelle sale italiane, ruota intorno alla comunità di un piccolo paese del Nord-Est dell’Inghilterra, nella contea di Durham. Ma avrebbe potuto essere il Sud Italia o la Germania dell’Est, o qualsiasi periferia nazionale o cittadina in cui dalla politica centrale arrivino pochi servizi e molta propaganda. Tra i tanti pregi della parola comunità c’è quello di rimanere identica se usata al singolare e al plurale. Ed è proprio un simile passaggio di stato quello che Loach racconta nel suo ventottesimo film da regista, dove una comunità per lo più omogenea di donne e uomini bianchi, perfettamente radicati nelle abitudini soporifere di un ambiente post-industriale, incontra e si scontra con una comunità “altra” di profughi siriani, che sin da subito si intuisce latrice di apertura e arricchimento, seppur graduali e non privi di ostacoli.
Per alcuni anni ho vissuto e studiato a Durham, e quando mi veniva chiesto qualcosa in più su quella zona del mondo, mi divertivo a descriverla come un episodio di Harry Potter incastonato per sbaglio in un film di Ken Loach. Questo perché nella città di Durham si trova un’università antica e vagamente auratica, fatta di college di mattoni scuri e strade di pietra, dolcemente accarezzata dall’ansa di un fiume e dominata da una cattedrale normanna e da un castello – entrambi siti Unesco ed entrambi pieni di studenti, in toga a inizio e fine anno accademico proprio come i personaggi della saga di Harry Potter, e infatti alcune scene del primo film sono state girate lì. Ma a me che conoscevo il posto, il parallelo sembrava particolarmente efficace per via dell’altro polo di comparazione: quello legato a Ken Loach. Perché lo sfarzo e le tradizioni elitiste e fuori tempo della città e dell’università si scontravano, agli occhi di chi solo cercasse poco più in giù della superficie, o poco più in là delle strade del centro, con un contesto socio-economico ben diverso.
Town and gown, viene talvolta definita questa scissione. Città e toga. Come a dire: mondo reale e torre d’avorio. Sotto la torre c’è in effetti una povertà tangibile, una difficoltà a sopravvivere che l’agio degli studenti – spesso di buona famiglia, provenienti da Londra e dintorni – non fa altro che evidenziare. E più gli studenti crescono, più gli affitti salgono, più gli abitanti locali si allontanano, respinti dai luoghi che un tempo erano stati i loro, spesso non più in grado di permettersi nemmeno un caffè nei locali hipster nati sulle ceneri di quelli che erano stati i pub di una vita. Nell’arco dei miei pur brevi quattro anni a Durham, posso ricordare almeno due spazi ad avere subito questa gentrificazione. Ci facevo caso allora, e torno a pensarci ora proprio grazie a un film di Ken Loach, epitome per me di quel mondo reale sempre meno presente nei luoghi che pure io stessa, in quanto studentessa, contribuivo indirettamente a modificare – nonostante lì ci fossi finita quasi per caso, grazie all’Erasmus prima e a una borsa di dottorato poi.
Proprio di spazi parla The Old Oak. Tuttavia lo fa scavalcando del tutto la dinamica verticale a cui ho appena accennato (intellighentsia borghesia vs. basso proletariato) e andando a vedere cosa succede quando si scontrano orizzontalmente due poli dello stesso strato debole. Insomma cosa succede, a volere essere brevi ma forse anche approssimativi, quando si innesca una “guerra tra poveri”. E la scelta è senza dubbio apprezzabile, visto che l’ambiente accademico britannico ha avuto fin troppo spazio nella produzione cinematografica degli ultimi decenni. Gli spazi, si diceva: gli spazi diventano campo di contesa. E gli spazi sono, come ci si aspetterebbe avendo anche solo una vaga idea del Regno Unito, principalmente case e pub. Da un lato, le case assegnate a una manciata di profughi siriani in un’area immobiliare ormai svalutata da decenni, da quando le miniere hanno chiuso e il Thatcherismo ha pensato a disgregare tutto il resto. Dall’altro lato, il pub di TJ Ballantyne, gigante dagli occhi buoni che, quando non è dietro il bancone a spillare birre per i suoi cinque o sei clienti regolari, guida un furgone con cui aiuta a distribuire vestiti e beni di prima necessità alle famiglie arrivate in zona.
Bastano poche scene in movimento dentro a questo furgone per riaccendere le sensazioni di instabilità emotiva e sociale ritratta da Loach in un’altro suo imperdibile film degli ultimi anni, Sorry We Missed You, sui ritmi di lavoro insostenibili di uno dei tanti fattorini veloci e senza volto che sempre più spesso accomodano le necessità dell’e-commerce. Senza volto almeno prima che un maestro come Loach non restituisse loro una storia e una voce. TJ, in The Old Oak, presta solo un po’ del suo tempo all’aiuto dei nuovi arrivati, ma presto si trova a scegliere di prestare anche una sala a lungo in disuso del suo pub, mettendo a rischio la scarna clientela su cui ancora può fare affidamento, e che dei nuovi vicini siriani si è limitata a vedere la diversità. È così che funzionano, del resto, le guerre tra poveri: un’ideologia calata dall’alto (in questo caso razzista e colonialista) fa sentire nemici, piuttosto che reciproci alleati, soggetti che in realtà condividono privazioni materiali ed esistenziali molto simili, imposte anche queste da una struttura all’apparenza incontestabile e immodificabile.
Ma è qui che, agli spazi, si aggiunge un ingrediente non secondario del film di Loach: il cibo. In una scena delicata e straziante, la figlia di una delle donne inglesi più ferocemente opposte all’arrivo della nuova comunità siriana, digiuna dal giorno prima, è sul punto di svenire durante l’ora di educazione fisica, prima che intervenga ad aiutarla Yara, la più giovane e intraprendente delle donne siriane. Il tema della fame torna a essere presente in Loach, così come lo era stato in I, Daniel Blake, in cui una mamma sola di due bambini, respinta dalla società e dalla famiglia, si trovava a mangiare a mani nude da una latta di fagioli, seminascosta e in lacrime in un corridoio di una banca del cibo. Anche quel film, del 2016 (stesso anno in cui sono ambientate le vicende di The Old Oak, con cui in qualche modo entra in dialogo), esplorava la realtà del Nord-Est inglese, più precisamente la realtà di Newcastle, distante da Durham appena qualche miglio. Nel film il protagonista si aggirava spesso, arrabbiato eppure dignitoso, nei pressi dello stesso centro per l’impiego il cui “hostile environment” ho provato sulla mia pelle, pur nel mio privilegio di cittadina europea.
Esattamente a metà strada tra la Newcastle di I, Daniel Blake e la Durham di The Old Oak, nel paesino di Chester-le-Street, qualche anno fa ha aperto un caffè basato su un’idea molto simile a quella che nell’ultimo film di Loach sembra aprire uno spiraglio di convivenza pacifica tra popolazione locale e immigrata. A REfUSE, questo il nome del caffè, si mangiano torte e pranzi deliziosamente ricavati da cibo prossimo alla scadenza, scartato dalle catene di grande distribuzione. Soprattutto, vi si prende secondo i propri bisogni e si dà secondo le proprie possibilità – insomma si collabora su base volontaria e si paga a sentimento (pay as you feel, in inglese). Allo stesso modo, nel retro del pub di TJ Ballantyne e grazie alla preziosa idea della siriana Yara, il cibo viene distribuito a chiunque ne abbia bisogno, a prescindere dalla tonalità della pelle e dalla lingua parlata.
«When you eat together you stick together»: mangiando insieme si resta insieme, si rimane uniti. È questa la frase che Yara trova a didascalia di una foto in bianco e nero appesa nella sala dove prenderà pian piano forma la mensa comune. La foto risale ai tempi dei grandi scioperi di protesta contro il governo conservatore di Margaret Thatcher, che la classe lavoratrice dell’area mineraria della contea di Durham ha fortemente opposto. La prima ministra inglese, in carica dal 1979 al 1990, è ignominiosamente nota per aver sostenuto che «there’s no such thing as society», che non è la società a dover provvedere al benessere dei singoli, e per aver quindi proceduto a smantellare larghe porzioni di welfare state, innescando una spirale degenerativa i cui effetti sono ancora oggi tutt’altro che conclusi. Le foto nel pub di TJ testimoniano di tutto questo, e al tempo stesso parlano di una solidarietà di ritorno che solo lo sguardo fresco e decentrato di Yara riesce a vedere come replicabile nel presente.
Il potere della fotografia, e in generale dell’immagine e della narrazione visiva, attraversa il film come una spina dorsale sotterranea ma decisiva. Già i primi fotogrammi in bianco e nero, durante i titoli di apertura, lasciano intravedere una dimensione metariflessiva sulla necessità di un’osservazione attenta del reale. Yara è una fotografa che conquista familiarità con gli spazi e le persone attraverso le lenti della sua macchinetta, attribuendo valore a scene di vita quotidiana i cui protagonisti non erano mai stati davvero visti prima. Attraverso la sua macchina fotografica sceglie di individuare speranza e forza anche dove non sembrerebbe possibile. In questa sua scelta di campo, confessata a TJ, si intravede una scelta di metodo ben più ampia, e forse un lascito che, attraverso di lei, è Loach stesso a comunicarci.
Per tutta la sua carriera, iniziata alla fine degli anni Sessanta, il regista di Nuneaton ha cercato di non dare mai per scontata alcuna realtà. Risposta anglosassone al neorealismo italiano, ha iniziato puntando la sua cinepresa verso la vita di espedienti di una giovane mamma, in Poor Cow (1967), e a seguire verso l’affetto scarno e tenero tra un adolescente in lotta con un mondo ostile e un gheppio trovato per caso, in Kes (1969). Se le storie degli ultimi hanno catalizzato tutta la produzione cinematografica e documentaristica di Loach, non priva talvolta di un humour intelligente e ben calibrato – penso, tra i film più recenti, a Il mio amico Eric (2009) e La parte degli angeli (2012) – anche alcuni grandi episodi della Storia con la maiuscola sono passati attraverso il suo vaglio. Il vento che accarezza l’erba (2006) testimonia delle brutalità compiute dall’esercito britannico su suolo irlandese durante l’occupazione coloniale che a tutt’oggi rimane una ferita non del tutto chiusa nel fianco dell’Europa; L’altra verità (2010) si muove intorno alla guerra in Iraq, mentre il ben precedente Terra e libertà (1995) è ambientato ai tempi della guerra civile spagnola. Ma anche The Old Oak, inevitabilmente, lascia spazio a frammenti della guerra civile siriana in corso, attraverso i video che dalla Siria arrivano a coloro che il conflitto sono riusciti a scamparlo col corpo, ma non con la mente.
Si usa dire che la storia è scritta dai vincitori, e quasi sempre è così. Esistono però delle personalità che riescono a vedere la storia dalla parte dei vinti e per i vinti, e Ken Loach non solo è una di quelle, ma riesce a riscrivere del tutto i concetti stessi di sconfitta e vittoria – laddove quest’ultima può darsi solo nel benessere collettivo e condiviso, al di là di confini di classe, etnia o religione. Attraverso il suo sguardo, che The Old Oak conferma ed eleva alla potenza attraverso lo sguardo di Yara, è possibile accedere a una versione diversa di molti eventi contemporanei. Una versione in cui la fatica a rimanere a galla è problema diffuso, ma in cui si aprono costantemente spiragli per alternative fatte di solidarietà e sostegno tra pari; in cui la «social catena» di leopardiana memoria si fa forte proprio a partire da quelle debolezze che Loach indaga e magnifica, senza mai scadere nel pietismo. Considerando lo stato di salute preoccupante di molta informazione e politica attuale, non c’è che da sperare di vedere il mondo attraverso gli occhi di Ken Loach il più a lungo possibile. Per ora, non c’è che da andare al cinema e godersi la sua ultima pellicola.