Lo scorso settembre è uscita la traduzione italiana del libro My Fourth Time, We Drowned. Seeking Refuge on the World’s Deadliest Migration Route, con il titolo E la quarta volta siamo annegati. Sul sentiero della morte che porta al Mediterraneo, scritto da Sally Hayden, giornalista e fotografa irlandese free-lance, tradotto da Bianca Bertola e edito da Bollati Boringhieri. Un libro sulla situazione attuale nel Mediterraneo; un tema sicuramente non facile, non solo per il tipo di informazioni contenute ma anche per il rischio di cadere in facili buonismi e di parlare di qualcosa di cui, specialmente in ambito italiano, è stato detto molto e forse non sempre nel modo più appropriato. E la quarta volta, invece, è diverso. È un libro che non si concentra sul viaggio in mare, o almeno non principalmente, ma sul periodo subito prima, sui campi profughi in Libia, sulle torture che ogni giorno i migranti subiscono, sui processi in Etiopia a torturatori che improvvisamente spariscono senza scontare nessuna pena, sulle famiglie che tentano di richiamare l’attenzione su quello che sta succedendo ricorrendo a post correlati di foto su Facebook e altri social media, e soprattutto sulle responsabilità dell’Unione Europea e dell’ONU.
Il libro non descrive il ruolo di queste istituzioni in modo generico, ma fa nomi e cognomi e riporta stralci di interviste. È un insieme di reportage giornalistici, statistiche, ricerche fatte sul campo dalla stessa Hayden, vite private di migranti che lei ha incontrato o che l’hanno contattata per chiederle di raccontare le loro storie, riflessioni sulle sue scelte da giornalista, conversazioni e interviste con volontari di ONG, con membri dello staff di diverse organizzazioni internazionali e con politici di varie fazioni. Il libro include anche una sezione finale intitolata ‘Note sulla terminologia’ che spiega l’utilizzo ragionato di parole come ‘rifugiato’, ‘richiedente asilo’, ‘migrante’, ‘tratta’ e ‘traffico’ per enfatizzare come l’utilizzo di uno specifico termine possa avere un determinato impatto sull’interpretazione dei fatti. Un lavoro giornalistico accurato e preciso che, non a caso, è valso l’Orwell Prize for Political Writing (2022) e il Royal Irish Academy’s Michel Déon Prize assegnato al miglior libro di non-fiction degli ultimi due anni. Proprio la scorsa settimana Hayden ha ricevuto il premio come Irish Journalist of the year, mentre il saggio, riconosciuto come Best Irish Book of the Year, è stato anche incluso dal Times nella lista dei migliori testi politici del 2022.
E la quarta volta è senza dubbio difficile da presentare, ma è altrettanto sicuramente importante, necessario, urgente. Un libro importante che racconta una delle tragedie umanitarie più devastanti dei nostri giorni. Un libro necessario che ci informa in particolare sui crimini che avvengono sotto lo sguardo dell’ONU – in particolare dell’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR) in Libia e in Sudan – e che nomina chi avrebbe il potere di fare qualcosa ma decide invece di chiudere un occhio: Hayden non si fa scrupoli, e nel riportare nomi e luoghi aggiunge stipendi e priorità di chi viene pagato per proteggere la vita delle persone. Un libro urgente perché, nonostante Giorgia Meloni abbia decantato la necessità di chiudere i porti e stia ora attenta a non svelare l’impossibilità di tale atteggiamento, le persone che arrivano in Italia e in altri paesi del sud d’Europa continuano ad aumentare.
Un esempio delle scelte stilistiche e di contenuto di Hayden è fornito nel terzo capitolo che, partendo dalla testimonianza di Essey, uno dei contatti principali dell’autrice, racconta quella che viene definita come «la tratta degli schiavi del XXI secolo» (47). Hayden descrive la «strada della morte» (47), cioè il tragitto Sudan-Italia, soffermandosi sul tratto libico e sulla città di Bani Walid, famosa per esser stata la roccaforte di Gheddafi e costellata di magazzini in cui migliaia di persone in viaggio verso il Mediterraneo vengono trattenute da trafficanti armati per poter chiedere ulteriori pagamenti alle famiglie. Il racconto combina la testimonianza di Essey, ricerche fatte da un’altra giornalista, racconti di altri migranti e statistiche stilate da Medici Senza Frontiere, oltre a dipingere dinamiche di compra-vendita e di scambi di esseri umani alla luce del giorno e dei social media. Hayden include infatti anche foto di torture e sevizie fatte arrivare ai parenti dei migranti per sollecitare pagamenti, postate poi su Facebook dalle famiglie stesse per raccogliere soldi e permettere ai propri cari di proseguire il viaggio.
Considerando che i lettori della Balena avranno già una loro visione informata sulla situazione nel Mediterraneo, eviterei un riassunto del libro e vorrei invece proporre alcune mie riflessioni fatte durante la lettura, ma anche in un secondo momento, a mente fredda, mentre rimuginavo sul perché trovassi questo libro diverso da altri reportage sullo stesso tema. Queste riflessioni ruotano intorno a due punti centrali: il ruolo di Sally Hayden come giornalista, autrice e narratrice, e il nostro ruolo di lettrici e lettori. I due punti, ovviamente, sono strettamente legati.
Tra gli aspetti più interessanti c’è la facilità con cui Hayden combina il racconto giornalistico – corredato di numeri e statistiche – a storie vere, raccontate in maniera umana e che inevitabilmente si intersecano con la sua. Una scelta insidiosa, con il rischio sempre dietro l’angolo di appropriarsi di queste storie e danneggiarle. In un libro che viene raccontato da un punto di vista necessariamente privilegiato, è cruciale che l’autrice riconosca la sua positionality (la sua posizione rispetto agli eventi di cui scrive). Come lei stessa spiega, «mi ero già chiesta se non fosse ingiusto che le voci dei rifugiati in Libia venissero costantemente filtrate da bianchi privilegiati come me» (189). Questo è un pensiero che viene fuori spesso ed è una ripetizione che serve a lei per non dimenticare chi è e qual è il suo ruolo, e a noi per capire la prospettiva del libro e per riflettere sulla nostra posizione in questa storia.
I fatti sono narrati in maniera diretta e priva di fronzoli, non c’è desiderio di sminuire né di enfatizzare la gravità degli eventi, piuttosto un tentativo da parte di Hayden di rendersi portavoce e di inserire sé stessa e la propria storia in tali eventi, ma come osservatrice. L’autrice si insedia nella sua posizione da giornalista e guarda non i rifugiati ma insieme a loro, nella loro stessa direzione, come una notte sulla nave di soccorso Alan Kurdi (nome scelto in memoria del bambino siriano il cui corpo fu trovato a riva di una spiaggia in Turchia nel 2015): «rimanemmo a guardare mentre il motoscafo in cui erano stati stipati esplodeva in lontananza fra le fiamme» (312). Ma, dato il suo punto di vista privilegiato, quella di Hayden – e inevitabilmente la nostra – è una visione incompleta, come spiega descrivendo un viaggio in Etiopia:
Giunti in vetta a una cima, la guida mi disse che normalmente da lì saremmo riusciti a vedere l’Eritrea, ma che c’era troppa nebbia. Mi sembrò la conclusione emblematica di un viaggio in un luogo così inaccessibile. Rimasi lì ancora un poco, guardando verso il basso e meravigliandomi di quante cose ancora non mi fossero chiare (35).
Da giornalista, guardare è il primo passo per documentare, come spiega all’equipaggio dell’Alan Kurdi: «Io gli dissi che ero una giornalista, quindi non potevo raccogliere fondi per conto loro e non avrei contribuito attivamente alle operazioni di soccorso […] Ero lì per documentare, non per partecipare» (302). L’obiettivo di documentare e informare è lo scopo fondamentale del libro e si manifesta nella costante ripetizione dell’atto del guardare che diventa un modo per agire. Perché l’intero libro parte proprio dalla scelta di Sally Hayden di agire.
Tutto ha inizio con una richiesta di aiuto ricevuta da Hayden su Facebook, “Ciao sorella Sally […] ci serve il tuo aiuto […] Siamo in prigione in Libia, messi male. Se hai tempo ti racconto tutta la storia” (17). Nel ricevere questo messaggio Hayden decide di agire e di rispondere. È proprio qui, nel primo paragrafo, che anche il lettore è chiamato in causa; ed è qui che vorrei collegare una riflessione sul ruolo del lettore, in particolare sul modo in cui, secondo me, il libro porta a interrogarci non solo sulla situazione descritta ma in particolare sulla nostra posizione rispetto alle circostanze narrate: che cosa avremmo fatto noi, per intenderci. Penso (e spero) di non essere l’unica a leggere il primo paragrafo e a pensare ‘e se fosse successo a me? Avrei risposto, o avrei dato per scontato che si trattasse di uno scam?’.
Hayden è una giornalista impegnata e rispondere a quel messaggio era per lei l’unica opzione possibile. Un’opzione che l’ha poi portata ad intraprendere un viaggio fisico e metaforico attraverso la rotta migratoria più mortale, come viene definita nel titolo originale del libro. Tale scelta è indirettamente spiegata nella ‘Nota dell’autrice’, in cui Hayden racconta la genesi del libro e il suo rapporto con il Mediterraneo e riflette sulle sue origini da giornalista raccontando un aneddoto del suo passato: una visita fatta ad Auschwitz. Se quando si parla di Mediterraneo il riferimento (appropriato o meno) alle somiglianze o differenze con la Shoah è spesso menzionato, in questo testo lo scopo del ricordo della visita ad Auschwitz è diverso: «Quando ero ancora una studentessa, visitai il campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. […] chiesi alla guida se trovava difficile doversi scontrare giorno dopo giorno con la crudeltà umana. Mi rispose che la cosa difficile non era vedere i segni della sofferenza, ma fare attenzione a non diventarne immune» (368). Se da un lato questo ricordo può sembrare un modo per riflettere su come gestire, da giornalista, la costante esposizione al dolore degli altri, dall’altra è un modo per chiamare in causa il lettore.
Davanti al dolore degli altri è il titolo italiano di un libro di fondamentale importanza dell’intellettuale americana Susan Sontag. Proprio nelle prime pagine di questo saggio Sontag esplora il modo in cui Virginia Woolf risponde, nel suo saggio del 1938 Three Guineas, ad una richiesta di opinioni sulla guerra civile in Spagna, soffermandosi sull’uso del pronome ‘noi’, da parte di Woolf, e citandola: «stiamo guardando insieme gli stessi corpi privi di vita, le stesse case in macerie» (16). La ‘Nota dell’autrice’ mi ha ricordato questo passaggio. Hayden, infatti, dopo pagine dedicate a guardare e raccontare in prima persona, passa al ‘noi’: «In Europa veniamo continuamente aggiornati sui naufragi nel Mediterraneo» (368), e si spinge oltre chiamandoci in causa direttamente: «Quanto spesso avete cliccato da un’altra parte […]?» (368), per poi reinserirsi nel soggetto collettivo: «Fino a che punto siamo diventati immuni alla distruzione della vita e al costante fallimento dell’umanità nel porvi rimedio?» (368).
E la quarta volta, quindi, documenta di nuovo una tragedia che pensiamo di conoscere, ma lo fa chiamandoci a far parte di questa storia, senza sentimentalismi né giudizi morali ma con l’invito a riconoscere il nostro ruolo, qualunque esso sia. Non a caso il titolo originale inizia proprio con My, ‘la mia quarta volta siamo annegati’, una citazione da una delle testimonianze incluse nel libro ma la cui decontestualizzazione ci confonde: mia, siamo. E se nella traduzione il possessivo si perde, è la fascetta che cinge il libro in italiano, con l’endorsement di Cecilia Strada, che ci interpella: ‘Un libro essenziale se si vuole capire davvero la più grande tragedia umanitaria in corso sotto ai nostri occhi: nessuno potrà dire “io non lo sapevo”’.
Sally Hayden, E la quarta volta siamo annegati. Sul sentiero della morte che porta al Mediterraneo, Torino, Bollati Boringhieri, 2023, 28 €, 448 pp.