dei denti aguzzi della contraddizione,
degli occhi-stelle e degli artigli-stelle,che
dal fondo del buio, nel cuore della notte,
incantano e terrorizzano.
E. Trevi
Già in Istruzioni per l’uso del lupo Emanuele Trevi scriveva di essere andato nelle Langhe per vedere la casa dove il padre, Mario Trevi, era cresciuto, negli stessi anni e a pochi chilometri di distanza dallo scrittore di Una questione privata e de Il partigiano Johnny, al fine di comprendere «l’entità di un’altra distanza – dice l’autore – quella fra me e uomini come mio padre e Beppe Fenoglio». Entrambe le intenzioni trovano compimento in questo suo ultimo romanzo: il desiderio di approssimarsi il più possibile alla figura paterna, di afferrare qualcosa di quell’uomo imperscrutabile attraverso i luoghi e gli oggetti che ne recano, più che il semplice ricordo, la traccia, e insieme la volontà di fare un’autobiografia, se così possiamo dire, che si dispiega per via di scarti, un dire ciò che non si è descrivendo l’Altro.
La casa del mago (Ponte alle Grazie, 2023), suddiviso in tre parti, un prologo e due capitoli, possiede una struttura circolare, che nell’andirivieni tra un passato remoto, uno prossimo e il presente della scrittura, lascia emergere in filigrana l’idea di un tempo simbolico e ciclico, misurabile in termini di ritorni e di riti, sovrapposto a quello lineare («Il tempo ha una doppia natura, è un ibrido inconcepibile, e quella che per i singoli è una freccia, per i corpi celesti è una ruota», p. 171) e sciolto dai principii di una stringente causalità. Il libro si apre con un ricordo dell’infanzia, un viaggio padre-figlio a Venezia per vedere la Biennale e termina con l’immagine di un viaggio presente, a Ginevra, nel quale Emanuele reincontra Paradisa, la prostituta peruviana che si era sommessamente installata nella sua vita e nella sua casa per intercessione dell’eccentrica ‘collaboratrice domestica’, «la Mary Poppins della desolazione» (p. 85), Rocio. Le due donne, misteriose incarnazioni dell’Enigma che tiene il mondo, svolgeranno il ruolo di aiutanti magiche del protagonista e la loro presenza servirà a ricomporre «un nuovo equilibrio tra le energie invisibili» (p. 237) che abitano lo spazio fisico della casa e quello psichico del suo nuovo proprietario, l’uno essendo specchio dell’altro.
Al centro del cerchio, al centro del libro, sta infatti un luogo che è contemporaneamente reale e simbolico: la casa del mago, ovvero l’ex studio del padre, Mario Trevi, celebre psicanalista di orientamento junghiano, morto nel 2011. La popolano maschere un po’ grottesche un po’ tristi (inclusa quella di Emanuele), fantasmi della storia e della letteratura, evocati dagli stessi oggetti che compongono il «museo» del padre («una bizzarra congerie di oggetti di cui sono diventato il curatore e il custode, e di cui queste pagine sono una specie di catalogo ragionato», p. 45) come fossero tavolette Ouija; le loro apparizioni hanno lo scopo di far procedere il viaggio di trasformazione (iniziatico, in senso treviano) compiuto dal protagonista, il quale, spinto dall’inerzia e dal destino (due forze che in Trevi sembrano, straordinariamente, coincidere) passa da un mistero all’altro per non svelarne nessuno, bensì per imparare ad accettarli, essendo questa una delle lezioni fondamentali che si apprendono abitando nella cueva del mago.
Il significato della mia esistenza è che la vita mi ha posto un problema. O, viceversa, io stesso rappresento un problema che è stato posto al mondo, e devo dare la mia risposta, perché altrimenti mi devo contentare della risposta del mondo. (C. G. Jung, Ricordi sogni riflessioni)
L’esergo junghiano col quale Trevi accoglie il lettore chiarisce, una volta terminato il libro, la sua natura evocativa e programmatica: rimettere insieme i pezzi di un destino, partecipare a un gioco ossimorico di collaborazione cosmica, cercare nelle vite e nelle parole degli altri le proposizioni per costruire la sintassi della propria risposta individuale, che è anche l’unica concepibile. La casa del mago è un libro sull’impossibilità di penetrare il mistero, sull’accettazione di questa impossibilità e, soprattutto, sull’amore gratuito, quello senza merito e senza giustificazione, è un inno all’incomprensibilità (figure dell’incomprensibile, d’altronde, sono Mario Trevi, Paradisa, zio Ninetto, la «Visitatrice» invisibile) che sembra dirigere la condotta del protagonista. Così Trevi-figlio è prima il bambino incantato dal suo geniale padre-guaritore ma sempre rintanato in un inaccessibile «arrière-boutique» (p. 17), poi l’adulto improvvisamente sottomesso, come un eroe dell’antica Grecia al suo Fato, a Rocio (altrimenti detta «la Degenerata»), la cui presenza bizzarra e aliena regala a queste pagine un’aura da realismo magico, e alla fine l’uomo arreso al profumo di vaniglia di Paradisa, alla sua atona imperscrutabilità, mentre entrambi stanno sdraiati di fronte a un televisore sempre acceso, come in una strana simulazione della vita matrimoniale. Il filo che lega le tappe di questo apparente apprendistato alla passività e al decentramento si dipana a partire dalla ricerca della via migliore per farsi volere bene dal padre-mago («Se vuoi che quell’uomo ti voglia bene (che è l’unica cosa che ti interessa) non scivolare mai al centro della sua attenzione», p. 22), strutturando il carattere di Emanuele (dell’uomo e del critico) sotto il segno della ricettività e ponendolo in una prospettiva laterale, inattiva, dalla quale, però, egli riesce a vedere veramente l’Altro e a dare un ordine alla concatenazione dei tanti piccoli fatti della vita, conferendo al caso la forma di un destino. Alla fine di questo itinerario, la sua risposta al mondo sembra perciò consistere in una specie di resa consapevole e placida che avviene nel susseguirsi delle pagine, il compimento dell’iniziale monito materno (che è anche il titolo del prologo del libro): «Lo sai com’è fatto». È così che un avvertimento ha assunto la forma di una condotta esistenziale.
Questa storia imprendibile è fatta di maghi e fattucchiere, di presenze fantasmatiche, è un trattato psicomagico sul potere degli oggetti che diventano varchi, ovvero luoghi fisici che consentono passaggi e aperture, dando l’occasione a Trevi-narratore per le sue divagazioni e permettendo altri incontri: con Jung, prima di tutto, con Ernst Bernhard, poi con Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Beppe Fenoglio e Miss Frank Miller, suo inaspettato alter-ego. Ogni volta cercando, Trevi, la misura di sé stesso nel confronto, e quella giusta distanza, «lo stile dell’unicità» che ne contraddistingue la penna (e lo sguardo), già ‘teorizzata’ in Due vite e declinata in modi diversi nei ritratti scritti di Pietro Tripodo, Pier Paolo Pasolini, Luigi Ontani.
L’io narrante, come ci ha abituati, costruisce la propria fisionomia nel dialogo che intrattiene con gli assenti utilizzando i consueti strumenti evocativi: la scrittura («il morto è attirato dalla scrittura», lì «si manifesta di sua volontà», aveva detto ricercando la presenza di Pia Pera in Due vite) e gli oggetti, indispensabili catalizzatori mnemonici, diegetici e simbolici. Ne La casa del mago Trevi racconta di una bizzarra occupazione paterna tanto densa di significati da essere messa accanto ad attività quali scrivere, leggere, disegnare: «lucidare sassi», comuni ciottoli raccolti lungo le rive di mari e fiumi e sfregati con la carta vetrata fino di farli splendere. L’autore dedica diverse pagine alla descrizione di tale pratica meticolosa, e profondamente etica (la citerà di nuovo nel finale, un attimo prima della quasi-epifania paterna), poiché proprio nella similitudine tra questa e l’esercizio della scrittura risiede il punto cieco del libro, e del rapporto tra il padre e il figlio:
Perché le parole sono identiche ai ciottoli di mio padre, non possiedono nessuna qualità evidente, non sono né brutte né belle, si confondono tra milioni di altre ugualmente opache e usurate. L’inerzia delle parole è la mancanza di significato. Tutto sta nello sfregarle, e poi sfregarle ancora – rasentando la demenza (p. 117).
Se il resto delle paterne reliquie racconta quanto i due fossero diversi, è in queste «cose del tutto insignificanti, briciole cadute dalla tovaglia del mondo» (p. 115), che Emanuele e Mario finalmente si avvicinano e si somigliano: provare a scrivere bene e lucidare sassi, nella loro comune presunta inutilità, sono maniere entrambe di mettere in salvo frammenti di tempo, di guarirli, di dare la propria risposta al mondo.
Dopo tanti libri pare ormai superfluo soffermarsi sul carattere ibrido della scrittura di Trevi: incrocio di generi, spesso, incrocio di codici. Stavolta sono due le immagini materialmente presenti nel libro, il cui portato simbolico è subito rivelato dalla loro natura astratta: la prima, in copertina, è l’elaborazione elettronica di un disegno del padre (disegnare, per Mario Trevi, è un’attività complementare a quella della scrittura e nel libro se ne parla in un intero paragrafo), l’altra, una riproduzione del sessantunesimo esagramma del Libro dei mutamenti, l’I King, di cui lo psicanalista possedeva una copia «squinternata» che oggi fa parte del singolare museo custodito dal figlio. La bellezza di «Ciung Fu, La veracità intrinseca» consiste «in quel vuoto nel mezzo, o nel cuore, che però, delimitato sopra e sotto da linee continue, è un vuoto esistente, come lo zero dentro una cifra» (p. 232), similmente ai disegni, che «a osservarli attentamente» «producono un lieve effetto ipnotico, la sensazione di procedere verso il loro interno, in direzione di un centro vuoto» (p. 62). Le due immagini sono rispettivamente un autoritratto e un ritratto del padre in forma di diagrammi che, essenziali, lo riassumono e al contempo dicono il senso di questo libro che nella sua apparente inconcludenza non chiede altro se non di essere una manifestazione dell’amore (e che cosa dovrebbe mai concludere l’amore?) poiché «amare significa accettare l’enigma di una persona in quanto tale» (p. 70), il suo centro vuoto e imprendibile.
«Lo sai com’è fatto».
Emanuele Trevi, La casa del mago, Ponte alle Grazie, Milano 2023, 256 pp. 18,00€