È sorprendente anche che non abbiamo nemmeno i nomi degli odori. […] Non è ad esempio come per i colori, dove dici rosso, blu, giallo, violetto… Non ci viene dato di nominare direttamente l’odore. Sempre per comparazione, sempre in modo descrittivo. Profuma di violette, di fette di pane tostate, di alghe, di pioggia, di un gatto morto… Ma le violette, le fette di pane tostate, le alghe, la pioggia e il gatto morto non sono nomi di odori.
Georgi Gospodinov, Cronorifugio
L’isola è verde ma l’odore predominante della sua capitale si avvicina al marrone, a volte caldo a volte bruciato. Certo un’approssimazione sinestetica, questa del marrone: una possibilità offerta dal senso della vista per colmare i vuoti olfattivi della tavolozza linguistica. Difficile farsi capire altrimenti. Marrone dunque è il centro di Dublino, fluttuante in uno spettro che va dal pane e caffè tostati all’abbraccio terrigno e dolciastro delle castagne tagliate appena bollite. Dipende dal vento che tira, ma basta trascorrere qualche giorno nei quartieri circostanti The Liberties per essere prima o poi raggiunti da questa mescolanza di odori, prodotto in realtà dei processi di tostatura e fermentazione del malto d’orzo nel vicino stabilimento Guinness di St James’s Gate. Ogni anno vengono qui tostate 21.000 tonnellate di malto, in uno dei pochi birrifici al mondo in cui tutto avviene ancora in loco e senza interruzione di sorta – nemmeno per Natale o per la festa di St Patrick. Una volta riconosciuto, quest’odore ricco e avvolgente torna a visitare di continuo: aspetta oltre l’angolo di un palazzo, entra in casa quando si aprono le finestre, accompagna lungo passeggiate invernali o estive.
Non sempre è facile riconoscere le parentele nei visi delle persone, e non lo è nemmeno nel caso degli odori. Eppure un figliastro di quella fragranza morbida e decisa a un tempo, dominante negli spazi aperti di Dublino, si annida nel chiuso dei moltissimi pub della città: un odore pungente di birra stagnante nel fondo degli spillatori, di alcool bevuto e digerito, respirato e poi respirato ancora, che raggiunge le narici anche di chi cammina per strada, rapace come la musica tradizionale che entra nelle orecchie non appena una porta viene aperta e subito richiusa.
Un’aria stantia, simile e diversa, è quella che invece si divincola dalle porte degli autobus ad ogni fermata: umidità mista a fango, mista a sedili foderati che nei giorni di pioggia si imbevono del tempo che fa. Bus che fermano in luoghi in cui tempi diversi si mescolano, e edifici di mattoni rossi dei secoli passati si insinuano tra l’acciaio e il vetro delle strutture architettoniche più à-la-page.
Fuori dai bus e lungo i canali, erba bagnata. Oltre i canali e verso il porto, odore di vacanza, di auto in coda e tubi di scappamento. Il porto di Dublino è ad oggi uno dei centri di scambio più attivi d’Europa, protetto dalle correnti attraverso un’isola artificiale, quella di North Bull, alla cui progettazione ha contribuito il capitano William Bligh, più noto per essere stato a capo del Bounty durante il celebre ammutinamento. Proprio da North Bull Island si vedono le navi partire e arrivare, e mentre si respira l’odore umido di alghe e sabbia, si riflette sul paradosso che ha portato questa isoletta geometrica e di matrice tutta umana a diventare, negli anni Trenta, la prima area protetta per uccelli ufficialmente riconosciuta in Irlanda, e nel 1981 una Riserva di Biosfera UNESCO.
Tra il porto e i canali, un fiume – il Liffey – che scorre placido senza picchi olfattivi, quasi tela bianca pronta a tingersi di waffles dolcissimi, pizza, kebab e salsa all’aglio man mano che si avvicina alle aree più commerciali della città, fagocitato da turisti che raramente si spingono verso Ringsend, col comfort umido delle sue zuppe di cavolo e cipolla. In questi ultimi mesi, il Liffey ha visto sfilare ricorrenti marce di solidarietà alla causa palestinese, in un trionfo di verde, bianco, rosso e nero che dice molto dell’Irlanda di oggi e di quella di ieri. La separazione tra Éire e Irlanda del Nord, che per molti versi è sentita dagli stessi cittadini come analoga a quella tra Palestina e Israele (certamente per tipologia più che per intensità di violenza), è in effetti questione non ancora del tutto conclusa. E come potrebbe esserlo, quando il Bloody Sunday è lontano solo una manciata di decenni, una vera e propria segregazione è ancora in corso in molti quartieri di Belfast, e i diritti civili sono stati per anni distribuiti non omogeneamente a seconda del credo religioso e del supporto alla corona inglese. Non è raro, ancora oggi, incontrare tracce dell’IRA (Irish Republican Army) e chiedersi cosa bolla in pentola, mentre il Regno Unito e l’Europa si illudono di aver ormai relegato la questione irlandese ai libri di storia.
Fiorai ambulanti nelle strade intorno a St Stephen’s Green: fragranza di foglie e petali tra il fresco e lo stagnante, che in Italia circonda spesso i cimiteri. Associazione comunque non del tutto impropria anche a Dublino, dove non si vendono fiori fuori da Glasnevin, ma il cimitero monumentale confina col giardino botanico, con le sue serre di vetro e acciaio e l’aria calda delle orchidee e delle piante tropicali. Entrando in una delle serre centrali, mentre si viene agguantati dall’odore umido delle palme e dei banani e del loro microclima, ci si imbatte in una placca inaspettata: si ricorda qui Ludwig Wittgenstein, che trascorse a Dublino l’inverno tra il 1948 e il 1949 e amava sedere su una manciata di scalini di passaggio, probabilmente per via del tepore che forse anche al tempo vi si percepiva. Si dice che il filosofo viennese apprezzasse della città la sua natura bilingue, che allora come ora emerge soprattutto nella segnaletica stradale. Per quanto riguarda il parlato, invece, è molto più facile nella Dublino di oggi percepire conversazioni in italiano o in brasiliano che in irlandese. Non a caso, mentre la capitale è invasa da adolescenti europei in viaggio per imparare l’inglese, la lingua coloniale, le scuole dublinesi tendono a organizzare viaggi estivi nell’ovest del Paese, nelle cosiddette Gaeltacht (oasi linguistiche nate nei primi anni dello Stato Libero d’Irlanda) dove l’irlandese è ancora la lingua primaria.
Ma anche giornalai ai bordi delle strade: e quindi odore di inchiostro e stampa calda, in una città che della parola scritta ha fatto la propria identità. Dublino è costellata di librerie indipendenti, ognuna col proprio carattere: The Gutter a Temple Bar, spaziosa e moderna; Books Upstairs, con le sue sale dai caratteri diversi, inclusa una raffinata sala da tè per le presentazioni dei libri; The Winding Stair, la più antica libreria indipendente della città, calda e selezionata come una piccola biblioteca; e la storica Hodges Figgis, quattro piani che soddisfano tutti gli interessi. E come non parlare delle biblioteche storiche: da quella maestosa del Trinity, in cui è conservato il Book of Kells, alla Marsh’s Library, la più antica biblioteca pubblica d’Irlanda, passando per la Biblioteca Nazionale, con la sua scenica sala di lettura a pianta circolare. C’è poi il MoLi (il Museo della Letteratura d’Irlanda), nato pochi anni fa da una collaborazione proprio tra la National Library e l’University College Dublin, e sito nell’edificio storico di UCD – la Newman House di St Stephen’s Green – là dove il cristiano Joyce frequentò l’università non avendo accesso al protestante Trinity College. Oggi UCD è invece collocata ai margini meridionali di Dublino, in un campus brutalista che, pur lontano dal gotico del Museum Building del Trinity, è in linea con il suo stesso Arts Block. Non lontana dal Trinity, nascosta tra attività commerciali qualunque, spunta la farmacia Sweny dell’Ulisse joyciano, in cui si è accolti da un vortice di aneddoti e fotografie, oltre che da un odore di polvere depositata tra le moltissime chincaglierie e guide alla lettura del capolavoro del modernismo irlandese. Ad ogni Bloomsday, il 16 di giugno, fuori dalla Sweny si raccolgono gruppi in costume e affezionati, chissà se profumati della stessa fragranza al limone del sapone che Leopold Bloom proprio lì si procura.
Odore freddo di sale nelle piscine di cemento in riva al mare a Blackrock, così chiamata perché situata alla confluenza di due substrati geologici, uno di granito (verso sud, verso le montagne di Wicklow) e uno di calcare (verso nord, verso la città di Dublino che sul calcare eroso è sorta): quando bagnato, il calcare si staglia nero contro il grigio chiaro e il marrone del granito, delimitando con la sua black rock, roccia nera, l’estremità meridionale della cinta storica di Dublino. È dal 1700, da quando il nuoto in mare è diventato un’attività diffusa tra le classi più e poi anche meno agiate, e il fiume Liffey e la baia di Dublino hanno iniziato a essere pesantemente inquinati, che le acque chiare e gli orizzonti larghi di Blackrock attraggono natanti e amanti del mare. Risalgono invece agli anni Trenta dell’Ottocento le piscine a cielo aperto sulla costa, rimaste in uso fino agli anni Ottanta del secolo scorso e ancora oggi richiamate alla memoria da strutture di cemento armato e acciaio eroso dalla salsedine.
Aroma di olio fritto una volta di troppo e di aceto intorno ai negozi di fish’n’chips – aceto, sì: l’accompagnamento preferito dai locali per il pesce fritto, più di ogni maionese o salsa tartara. E a macchia di leopardo, fuori dai negozi, odore di immondizia facilitato dal becchettare dei gabbiani sulle buste dei rifiuti. La differenziata porta a porta, per cui i rifiuti vengono lasciati fuori la sera prima della raccolta, è ormai diventata pane quotidiano per i padroni dei cieli di Dublino, che l’hanno piuttosto trasformata in una sparpagliatura becco a becco.
Odore di asfalto e cemento in tanti isolati e edifici in fase di rilancio. Dublino è ormai diventata una delle città europee più care e con l’emergenza abitativa più feroce. È tanto facile vedere cantieri aperti quanto lo è imbattersi in senzatetto lungo qualsiasi strada, in un’equazione che non torna e che lascia trasparire tutte le contraddizioni di una bolla immobiliare quasi sicuramente destinata a scoppiare. E chissà che, al suo esplodere, non ne fuoriesca un altro odore, preponderante nella Dublino di questi primi anni Venti: quello di urina dei sottoscala di un ambiente che ha perso, se mai ne ha avuti prima, qualsiasi ascensore sociale. Apparentemente non percepito, è questo l’odore di molti angoli della città.
Non è dunque un caso se in questo autunno finalmente freddo sia comparso un altro odore, intenso e sinistro: quello di plastica e benzina bruciate delle auto, dei bus e dei tram che sono stati dati alle fiamme tra Parnell Square e O’Connell Bridge appena qualche giorno fa. La dinamica degli eventi non è ancora del tutto chiara, ma sembra esserci una matrice di estrema destra dietro una rappresaglia improvvisata all’indomani dell’accoltellamento di tre bambini e due adulti fuori da una scuola. È difficile stabilire da che parte tiri davvero il vento politico e ideologico, e sarebbe improprio confondere una serie di focolai, per quanto quasi sicuramente attizzati da una destra di stampo fascista, con il sentire comune. Certo è che questa città, venduta al turismo di massa e data in pasto agli speculatori edilizi e finanziari, sopravvive in equilibrio precario su fondamenta sforacchiate, nei cui spazi vuoti può crescere una resistenza creativa (quella della controcultura e dei giardini di comunità), così come può proliferare la desolazione di cui il fascismo da sempre si nutre. Non sarà forse un caso che il Booker Prize di quest’anno è stato assegnato proprio a un autore irlandese, Paul Lynch, che nel suo Prophet Song immagina un’Irlanda caduta in mano a un’Alleanza Nazionale di destra e trasformatasi in un invivibile totalitarismo. C’è da sperare che questo romanzo funga da esorcismo e che il vento cambi direzione, pulendo l’aria e lasciandola portatrice di odori nuovi, ancora senza nome.
[Le fotografie di questa mappa sono state scattate dall’autrice, con alcuni contributi di Emanuele Dellacasa, maestro di attenzione ai dettagli urbani, e Éireann Lorsung, compagna di passeggiate e poetessa del quotidiano]