In un episodio di Roma di Federico Fellini si vedono alcuni operai al lavoro per la costruzione di una nuova fermata della metropolitana. Come accade spesso nella capitale, i lavori vengono improvvisamente interrotti per il ritrovamento di un reperto antico, probabilmente una villa di età romana. A separarla dai lavori in corso vi è ormai solo un muro sottile; non appena questo viene fatto crollare, i fragili affreschi alle pareti si dissolvono come ombre al contatto con l’aria e la luce esterne. C’è una scena nell’ultimo film di Alice Rohrwacher, La chimera, che sembra riprendere quella storica pellicola. Un gruppo di tombaroli individua su una spiaggia una tomba etrusca ancora sigillata: alla sua apertura, le pareti affrescate si velano immediatamente come di una patina. La bellezza del mondo di sotto sembra subire uno shock al contatto con quello di sopra. «Ci sono cose che non sono fatte per gli occhi umani». Questa frase, che torna diverse volte nel film, suona come un monito, ma anche una riflessione nei confronti di una società che vuole vedere tutto, toccare, catalogare, possedere e prezzare ogni cosa.
Come le pellicole precedenti, anche quest’ultima opera di Rohrwacher è un viaggio in un’Italia semirurale, tra piccole comunità ai margini e personaggi in odore di sacro, in bilico tra due mondi. Protagonista della pellicola è Arthur, misterioso inglese appena uscito dal carcere, che vive in una baracca. Arthur in passato era uno studioso di arte antica, poi la scomparsa dell’amata Beniamina lo ha portato a un totale deragliamento esistenziale e a una vita randagia fatta di espedienti. Insieme a una banda di ladri pittoreschi, il nostro si aggira nella Tuscia scovando tombe etrusche, grazie a un misterioso talento da rabdomante. Unico legame di Arthur con la vita di un tempo è Flora, madre di Beniamina ed ex musicista, che ora vive nella ormai decrepita villa di famiglia, impartendo lezioni di canto alla giovane Italia, in cambio di aiuti domestici.
Gli ecosistemi in cui respirano i personaggi di Alice Rohrwacher sono luoghi incantati, in cui il tempo si è stratificato, lasciando intravedere tracce di differenti passati mescolati a futuri indecifrabili. Come in Lazzaro felice, dove una comunità di contadini viveva in un tempo sospeso in cui sopravvivevano sistemi feudali, in La chimera gli anni Ottanta italiani e le sue industrie petrolchimiche si fondono con fantasmi pagani e credenze popolari. La poetica della regista di Fiesole ha raggiunto una maturità tale da essere riconoscibile senza mai essere leziosa. Ogni sequenza è satura di una simbologia leggera, mai pedante ma simile al ritmo della versificazione. Così, attraverso il rapporto tra i tesori dei morti e la brama dei vivi, Rohrwacher racconta di un’Italia che imputridisce – al pari della casa di Flora e delle figlie che le ronzano attorno come mosche sul cadavere – ma che al tempo stesso butta fuori gemme inaspettate. Come Italia, giovane dalle origini incerte che nasconde nella villa di Flora due bambini, e si approprierà di una stazione abbandonata per creare una comune tutta al femminile.
Nulla è didascalico in questo film, ogni avvenimento è raccontato attraverso una lingua potente quanto criptica, come la lingua di quel popolo etrusco che abitava le terre della Tuscia prima dei romani, che aveva un sistema matriarcale e che forse, come una ragazza afferma rivolgendosi direttamente allo spettatore «se fossero rimasti, forse non ci sarebbe così tanto macismo in Italia». Gli slogan del film si riducono a questa frase, il resto dei messaggi sono più sfumati, affidati a una tecnica elevatissima dell’immagine, dove si combinano formati diversi di pellicola – dal 35mm, il 16 mm fino al super 16 – e un sorprendente patchwork sonoro che va da Monteverdi ai Kraftwerk. Anche i registri si alternano, dal picaresco al drammatico, senza mai forzare, bensì intessendo un prodigio filmico che, per grazia e musicalità ricorda il Pasolini di Uccellacci e uccellini o il Decameron.
Il film cerca di plasmare un’umanità nuova, che sorge dal male e dalle sopraffazioni e resiste perché ha imparato il codice della bellezza. Questo film dovrebbe essere visto in una doppia visione con un altro gioiello uscito nelle sale in queste settimane e che, come La chimera, patisce una scellerata distribuzione a singhiozzi nelle sale italiane. Si tratta di Misericordia di Emma Dante, pellicola che mescola brutalità e dolcezza. La storia racconta di un gruppo di prostitute siciliane che curano e proteggono Arturo, figlio di una loro amica vittima della violenza di Polifemo, loro protettore e padre del ragazzo. Arthur e Arturo. Due maschi smarriti, che ricostruiranno il loro mondo attraverso le coordinate fornite dalle donne che li circondano. Il futuro del cinema italiano è decisamente radioso, ma bisogna avere gli occhi per poterlo vedere.