[questo intervento è apparso, in una sua versione ridotta, in «L’Indice dei libri del mese», LX, 12, dicembre 2023].

Erano quasi vent’anni che non usciva un’antologia di poesia italiana ambiziosa come Poesie dell’Italia contemporanea (Il Saggiatore, 2023), a cura di Tommaso Di Dio. L’ultima era stata Parola plurale (Sossella, 2005), dopodiché sono state pubblicate selezioni anche accurate (soprattutto di poeti giovani), ma di respiro meno ampio, che dunque hanno creato polemiche e discussioni, ma limitate all’inclusione o esclusione di quello o quell’altro poeta: insomma, non un vero dibattito sulle antologie.

Poesie dell’Italia contemporanea, invece, è un volume di più di mille pagine, che comprende testi scritti da più di duecento autori e copre quasi cinquant’anni di poesia italiana. Inoltre è un’antologia d’autore: cioè non solo una scelta delle più belle poesie pubblicate in un certo periodo, ma un resoconto, attraverso quelle poesie, del panorama della poesia italiana in quel lasso di tempo, che rispecchia il punto di vista del curatore, la sua ideologia e (nel caso di curatori che siano anche autori di versi, come è Di Dio) la sua poetica. Perciò Poesie dell’Italia contemporanea si presta, più di altre crestomazie degli ultimi anni, a un discorso generale su ciò che si può fare con un’antologia di poesia contemporanea, e sui criteri più adatti per riuscirci.

L’impianto scelto da Di Dio è di tipo annalistico, come nel precedente (non a caso citato da Di Dio nell’Introduzione) Poesie degli anni Settanta di Antonio Porta: vale a dire che le poesie sono presentate seguendo l’ordine cronologico di uscita dei libri, dalla più vecchia (Incespicare, da Satura di Eugenio Montale, 1971) alla più recente (Sgretolarsi II, da Geografie di Antonella Anedda, 2021). Le poesie, dunque, più dei libri e degli autori, sono le vere protagoniste dell’antologia, i tasselli che permettono di ricomporre il quadro autoriale.

Nessun testo è commentato, ma alla fine del libro c’è una sezione intitolata Percorsi e intrecci. Qui il curatore inserisce un’avvertenza: «Non c’è un solo modo di leggere questo volume. Nella poesia è sempre così […] ciascuno trova la propria strada per entrare nel testo e ci entra con tutto se stesso». I percorsi, di fatto, individuano corrispondenze fra poesie apparentemente distanti fra loro, su base tematica (come nel caso della poesia civile) o formale (poesie aperte e poesie chiuse), ma non sono la parte più importante per ricostruire il punto di vista del curatore.

In questo senso il racconto della poesia italiana degli ultimi cinquant’anni è condotto soprattutto attraverso i cappelli introduttivi ai cinque capitoli che raccolgono i testi, sempre in ordine cronologico: La grande deriva 1971-1979Allegorie, miti, mutamenti 1980-1989Lo spettatore immobile 1990-1999Conglomerati e dispersioni 2000-2009Una fede in niente ma totale 2010-2021. È qui che la storia della poesia italiana degli ultimi decenni si interseca alle vicende politiche e sociali del nostro Paese: dunque gli eventi più emblematici degli anni Settanta, ad esempio, sono sia il Festival di Castelporziano sia la strage di Piazza Fontana.

Le pagine dei cappelli introduttivi costituiscono anche la parte più ambiziosa del libro, perché nell’intersecarsi di racconto generale e selezione dei testi c’è l’elemento più artistico o creativo, per l’antologista: quei testi – nonostante qualsiasi premessa sui molteplici percorsi di lettura possibili a partire dal libro, e nonostante Di Dio ribadisca, nell’Introduzione, di non voler creare un canone –  esprimono un modo di interpretare la storia e la poesia italiana degli ultimi cinquant’anni, una visione che è sia storica sia estetica.

Ed è qui che sorgono le prime perplessità su Poesie dell’Italia contemporanea. È sempre difficile congiungere storia generale e testi particolari, ma in questo caso il problema nasce dall’ambiguità di voler conciliare visione generale, assenza di un canone e prossimità cronologica agli autori selezionati. 

Prima di spiegare meglio questo punto, va fatta una precisazione. Dal punto di vista di chi scrive, Poesie dell’Italia contemporanea è un’antologia con molti pregi: ad esempio, dare centralità ai testi e non ai percorsi autoriali permette di cogliere la molteplicità di esperienze (e di generazioni poetiche) attive in un certo periodo. Insomma, il campo letterario appare senz’altro più vivace ed eterogeneo, nell’antologia di Di Dio, di quanto non sia emerso da altre selezioni in cui gli autori sono stati raggruppati per poetica o in base all’anno di nascita (o di esordio).

Inoltre, non si può dire che Poesie dell’Italia contemporanea sia un’antologia che ha rinunciato alla storia, alla contestualizzazione, a favore della centralità del testo poetico: la storia c’è eccome, molto più di quanto ci si aspetterebbe da una crestomazia curata da un autore di versi. Da questo punto di vista, il lavoro di Di Dio è migliore rispetto a quello di molte antologie poetiche curate dai poeti pubblicate negli anni Novanta e nei primi Duemila, anche se a volte si sente un’aria di famiglia rispetto a quei precedenti. 

Non mi soffermerò sulla scelta di inserire più poesie dell’uno o dell’altra autrice o autore vivente (se non per accennare al fatto che, indubbiamente, l’impostazione annalistica della crestomazia di Di Dio favorisce gli autori più prolifici). Vorrei aggiungere, piuttosto, alcune osservazioni sul senso e sull’utilità che può avere un’antologia d’autore oggi – a più di trent’anni di distanza da Poeti italiani del Novecento, che non solo ha determinato una buona parte del canone della poesia italiana, ma ha anche creato un modello di antologia d’autore all’italiana con il quale tutti gli antologisti successivi (anche solo per opporvisi) si sono confrontati.

Nell’Introduzione al suo florilegio, come già detto, Di Dio ribadisce di non voler creare un canone, e spiega le proprie ragioni con un “cambio di metafora”: «Non più la metafora teatrale, ma quella panoramica: non volevo ricostruire la scena della poesia, nel teatro immaginario della letteratura, dove pochi volti sono illuminati, di volta in volta, da un occhio di bue. Piuttosto, intendevo rappresentare la poesia contemporanea come un paesaggio». Non più, dunque, un «catalogo di autori eroici», bensì una «molteplicità selvatica e dialogante di scritture».

Segue un riferimento a Simmel (Filosofia del paesaggio), che traccia un legame strettissimo tra l’esperienza del paesaggio e quella della poesia: in entrambi i casi «la percezione della forma e la particolare atmosfera che veicola sono un tutt’uno, ciascuno essendo causa ed effetto dell’altra, in una circolazione unica e peculiare, nella quale non si può assegnare la priorità a nessuno degli elementi in gioco». Ma per Simmel, come lo stesso Di Dio ricorda, «perché vi sia paesaggio, ci deve essere un punto di vista preciso e una delimitazione dell’orizzonte»: ecco, è questo ciò che a volte sembra mancare in alcuni punto di Poesie dell’Italia contemporanea, e soprattutto nell’ultima parte. 

A proposito degli anni Settanta, nelle pagine introduttive al primo capitolo si cita il processo di “deriva” (ormai topos critico, da Berardinelli in poi) al quale, coerentemente, corrisponde un campionario di testi molto ampio: in un certo senso, sembra quasi di leggere tutte le antologie militanti di quel periodo, dalla Parola innamorata al Pubblico della poesia ecc., come se fossero state sommate anziché sintetizzate. Il risultato è quasi divertente per chi ha letto quelle antologie o le riviste di quegli anni come pezzi di un repertorio, ormai in parte obliato.

Ci si aspetterebbe che, con il passare del tempo, quel campionario sia stato diluito e che non venga riproposto interamente, ma la (non) scelta di Di Dio può essere considerata coerente sia con l’intento di non creare un canone sia con il tentativo di riprodurre lo spirito di ribellione alla tradizione e alle poetiche del periodo precedente che è tipico della poesia degli anni Settanta. 

La rinuncia alla selezione è meno convincente, invece, per quanto riguarda gli anni Duemila, e in particolare l’ultimo capitolo. Da un’antologia uscita nel 2023, rispetto a una uscita nel 2005, ci si aspetterebbe un superamento del vecchio topos dell’impossibilità di selezionare a causa dell’esplosione delle forme e dell’aumento esponenziale dei poeti. Il «presente espanso», invece, è ancora la formula scelta per parlare degli ultimi vent’anni, come se fossero non davvero analizzabili da un punto di vista critico. Il cappello introduttivo al quinto capitolo tenta di delineare qualche percorso (diverse gradazioni del rapporto fra poesia e realtà, la poesia del lavoro, ecc…), ma si fa fatica a collegare l’enorme numero di testi a quei discorsi.

Se leggendo Una fede in niente ma totale 2010-2021 si ha l’impressione di capirci qualcosa, della poesia ultra-contemporanea, quando si arriva ai testi ci si perde del tutto in un catalogo troppo disarticolato per apparire qualcosa di più di, appunto, un catalogo.  Un fattore da tenere in conto è il dato biografico, contingente: la vicinanza cronologica e l’appartenenza a quello stesso pubblico della poesia hanno inciso, forse, sull’intenzione di Di Dio di rappresentare quanto più è possibile tutti gli autori e gli esperimenti poetici degli ultimi anni, quasi per una forma di solidarietà di categoria, o forse per distanziarsi dagli antologisti-critici

Nel libro si legge più volte, infatti, che Poesie dell’Italia contemporanea nasce anche da una sorta di sfiducia o ritrosia verso quella che appare una forma di «riduzione» della poesia attraverso il gesto critico, il commento o la sovrainterpretazione dei testi. È una remora comprensibile, perché la poesia contemporanea è spesso oggetto di tesi di laurea e articoli scientifici scritti in puro accademichese, che hanno poco a che fare con la comunicazione ordinaria o con il senso della lettura di un testo poetico.

Eppure, non sono sicura che la riduzione del gesto critico sia la soluzione. I casi in cui l’armamentario critico o «l’avanzata teoria costruita» soverchiano davvero un testo, in fondo, sono solo una parte di quelli che vengono pubblicati. All’estremo opposto, la fiducia nella «parola poetica» (parola che ricorre nell’Introduzione di Di Dio) assoluta e anarchica non sempre funziona. 

Viene da chiedersi, ad esempio, cosa un non specialista – o anche, ad esempio, uno studente al primo anno di Lettere – possa pensare leggendo testi come gli estratti da Glossopetrae di Simona Menicocci o da Lilith di Davide Nota o persino da Fosfeni di Andrea Zanzotto: sono poesie complesse dal punto di vista della comprensione immediata, letterale. Vogliamo davvero continuare a scrivere di poesia fingendo che le opere di Sanguineti o di Zanzotto siano leggibili e comprensibili, senza un commento, da chiunque capisca l’italiano?

Una poesia come Log, Ambleteuse di Mario Benedetti (da Umana gloria), invece, se non contestualizzata, forse rischia di piacere per i motivi sbagliati, cioè di poter essere letta come null’altro che un piccolo idillio. Può creare confusione, infine, il fatto che alcuni testi siano presentati con una disposizione tipografica orizzontale (ad esempio, tutti quelli di Vincenzo Ostuni) e che in altri il verso non compaia affatto: certo, nel cappello introduttivo al quarto capitolo c’è un breve accenno a cosa sia Prosa in prosa, ma nulla viene detto sui motivi delle prose di Anedda, Gallo, Benedetti, Bordini, Dal Bianco, Mazzoni, Ramonda. Eppure la poesia in prosa non è solo prosa in prosa.

Proprio perché ormai è noto che la poesia è un linguaggio minoritario, un’arte priva di capitale simbolico e destinata a pochi specialisti (che sono sia autori sia pubblico), ci si aspetterebbe un riconoscimento del suo grado di difficoltà per la fruizione di un ipotetico lettore comune, non esperto di quel linguaggio. Un’antologia, dunque, forse potrebbe fornire qualche strumento in più, un aiuto alla lettura o un campionario (se proprio non si vuole fare una selezione) più aderente ai micro-percorsi delineati nei cappelli introduttivi.

Se per gli anni Settanta e Ottanta esistono già antologie che hanno compiuto questo lavoro, e dunque si può pensare che la non-selezione di Poesie dell’Italia contemporanea sia uno strumento in più per i lettori – che possono già trovare altrove una guida e un canone della poesia di quegli anni –, ciò non vale affatto per gli ultimi vent’anni. Esporsi, provare a selezionare e a spiegare la poesia più recente sembra l’unico gesto possibile se si vuole provare a superare il topos della deriva e a rendere la poesia un’arte meno ineffabile o indecifrabile per i lettori. 


nella foto: collina della cittadella di Amman, Giordania (yeswanth M su Unsplash).