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Alta fedeltà: i consigli musicali della Balena Bianca

Può darsi che al pranzo di Natale non potrete dire tutto quello che pensate. Probabile anche che siederete davanti a un bel piatto di lasagna nonostante abbiate dichiarato ormai dieci anni fa di essere vegetariani. Noi vi auguriamo di essere seduti accanto alla zia simpatica, oppure che vi sia almeno lasciato il controllo delle scelte musicali. Non potendo provvedere a rivedere la genealogia della vostra famiglia, la Balena Bianca vi offre una selezione di dischi per farvi sentire a casa, nonostante tutto.


CCCP – Fedeli alla linea, Felicitazioni!, 2023 (Giulia Sarli)

«Rossi punk e burloni», «Fra liscio e Stalin», «Stalinisti fedeli con Amanda», «CCCP fedeli a Maria» sono alcuni dei titoli di giornale che scorrono sui muri di uno dei locali dei Chiostri di San Pietro, a Reggio Emilia, allestiti per la mostra Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984–2024, organizzata dalla Fondazione Palazzo Magnani in collaborazione con il Comune della città. I CCCP si sono costituiti a Berlino nel 1982, forse anche per «la necessità di avere di fronte un muro per sapere dove sbattere la testa, almeno provarci» (Tondelli, Un weekend postmoderno, Bompiani, p. 298). La mostra testimonia la storia di un gruppo che nonostante si sia costituito negli anni in cui l’immaginario new romantic stava prendendosi spazio a discapito del punk, è stato in grado di dare voce a un’epoca e a una generazione tanto quanto di influenzarle. Per l’occasione, i CCCP sono tornati a suonare insieme, riempiendo il Teatro Municipale Valli di Reggio per due sere consecutive, il 21 e il 22 ottobre 2023. E hanno pubblicato un album, Felicitazioni!, che raccoglie diciotto brani, quarant’anni dopo l’uscita del loro primo Ep, Ortodossia, e trentatré dopo che il gruppo punk filosovietico si è sciolto per dare vita al nuovo progetto dei CSI, in concomitanza con la caduta del Muro. Diciotto canzoni che non smettono di essere taglienti e sovversive (o forse lo sono più di prima?) nonostante siano oggi a tutti gli effetti dei classici, con versi come «produci, consuma, crepa», «è una questione di qualità», «Emilia di notti agitate per riempire la vita». Gruppo d’avanguardia musicale e teatrale, i CCCP di Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Umberto Negri (fino al 1985), Annarella Giudici e Danilo Fatur sono una stella cadente nella provincia emiliana. Grazie a loro, negli anni Ottanta, Karpi è stata la periferia di Berlino.

[Ma…]


Marianne Faithfull, Negative Capability, 2018 (Veronica Galletta)

Ho comprato Negative Capability di Marianne Faithfull quando è uscito, nel novembre di cinque anni fa. Dopo averlo ascoltato quasi per caso, ho voluto il CD, addirittura il vinile, in una pratica antica che non mi appartiene. È l’unico vinile di questa casa che sia indubitabilmente mio. Da cinque anni è il mio ascolto del mese di dicembre, nei giorni lenti che precedono il Natale, in quelle mattine in cui rimani a letto e ascolti la musica. La storia di Marianne Faithfull, il brano scritto con Nick Cave, la cover di As Tears Go By, che ascoltavo da adolescente. In questo disco tutto mi parla. A partire da Misunderstanding:

«Misunderstanding is my name

What I am is not a game

Such an easy trap to fall»

[Ma il…]


Lil Yachty, Let’s Start Here, 2023 (Michele Farina)

A cinquant’anni esatti dalla pubblicazione di The Dark Side of the Moon, è uscito questo disco qui, lisergico, sperimentale senza essere palloso, difficilissimo da descrivere senza restare impigliati in una selva di etichette svianti. Reincarnazioni? Ricorsi cilici? Forse i Pink Floyd non c’entrano niente e semplicemente la musa dell’ibridazione curiosa ha deciso di presentarsi in una nuova veste e di appoggiare la sua mano sulla testa del più insperato dei cantori. Ad ascoltare l’ultimo disco dell’ancora giovanissimo rapper Lil Yachty, davvero imprevedibile e imprevisto, si prova l’analogo uditivo dell’osservare un caleidoscopio ruotare lentamente per cinquantasette minuti. Quel che si dice un trip, insomma: provare per credere.  

[Ma il disco…]


bar italia, Tracey Denim, 2023 (Giacomo Micheletti)

In fondo al nostro cuore di ex sbarbi, tutti abbiamo – o dovremmo avere – un Bar Italia, un posto che si lega nel ricordo a serate improvvisate, scazzi imprevisti, grandi paranoie solitarie per uno straccio di epifania al retrogusto gin. Un Bar Italia, a quanto pare, si trova anche nel quartiere londinese di Soho, e da questo locale già al centro di omaggi e aneddoti musicali prende il nome il trio dei bar italia (minuscola esistenzialista, diminutiva, che sa di strumenti d’occasione tenuti su con il nastro da pacchi e registrazioni buona la prima). Emersi da un anonimato ricercatamente semi-totale con il terzo album Tracey Denim, uscito a maggio ’23 per l’etichetta Matador, Jezmi Tarik Fehmi, Sam Fenton e l’italiana Nina Cristante prendono di petto la retromania dei nostri tempi proponendo un pastiche aggiornato della migliore tradizione alt-rock, dai Velvet Underground a Sonic Youth e Blonde Redhead passando per Cure, Pavement, Slowdive.

Canzoni sui tre minuti quando va bene, a volte – specie nei primi dischi – troncate di netto, senza fronzoli né catarsi, con intrecci di linee vocali che toccano per loro semplicità sghemba ma tutt’altro che improvvisata (changer è in questo senso tra le mie preferite). I bar italia sono un po’ così: rauchi ed eterei, fuzzy e malinconici, reticenti, a tratti narcotici, ma dietro la trasandatezza lo-fi si coglie subito la cultura di chi è venuto su macinando il meglio underground degli ultimi sessant’anni, ben sapendo che oggi più che mai inseguire l’originalità, nel rock, è diventato una sorta di paradosso – e infatti diverse testate parlano di loro come di un gruppo già cult rivolto, soprattutto, ai collezionisti di vinili, e non è mica del tutto falso. Io di vinili non ne ho manco uno, e certo Tracey Denim non è, tra quelli che ho ascoltato ultimamente, il disco che più mi abbia stupito (per questo consiglierei allora lo shoegaze orientaleggiante del sudcoreano Parannoul: After the Magic). È più che altro una personale simpatia per tutto ciò che sta in piedi comunque, a volte a fatica, un po’ arrancando e un po’ brillando di una grazia improvvisa, e in questo stato di imperfezione finisce per trovare la propria cifra. I bar italia potrebbero diventare una delle rock band del decennio così come sparire domani, con la stessa estemporaneità con cui sono apparsi sulla scena (e l’ultimo The Twits, uscito a novembre senza aggiungere granché alla formula, in questo senso farebbe propendere meno per la prima). Nina Cristante, a quanto si dice mai salita su un palco prima d’ora, è la voce principale: come quello dei soci il suo cantato è spesso un po’ piatto, consapevolmente monocorde, ma nei live ha un portamento e una bellezza scenica che riscatta ampiamente la comunicazione ai confini dell’autismo e i ceffi finto-annoiati dei compagni di band. Per me, con Dana Margolin dei Porridge Radio (fate un disco insieme), tra le voci femminili più interessanti della nuova vague britannica.

Se dovessi consigliare un pezzo soltanto sarebbe Missus Morality, questo inno dreamy all’inappartenenza scanzonata e orgogliosa, dove le illusioni di ciò che abbiamo creduto di essere se ne restano lì, ai piedi del tavolino in metallo, tra i mozziconi fumati al filtro e i sottobicchieri strappati, like if nothing took place.

[Ma il disco del 2023…]


Il Mago del Gelato, Maledetta Quella Notte, 2023 (Alessandro Freschi)

Arrivano sui palchi dei festival italiani con una Fiat Panda verde anni ‘80, vecchio modello, direttamente da Via Padova, Milano, dove la band si è formata e dove il marchio di fabbrica ha avuto origine: il bar gelateria “Il Mago del Gelato” (una recensione dice: “Ottimo caffè, barista molto simpatico, un po’ maranza ma simpatico”). Tutti jazzisti, ex compagni di conservatorio, uniscono vari ingredienti sonori, sapientemente selezionati, per preparare creme ghiacciate dal sapore di Nigeria, funk ‘70, colonne sonore all’italiana. La loro situazione migliore è la performance live, dove la musica è davvero di alta qualità tecnica e ricca di sperimentazione e commistioni e tutta da ballare. All’attivo troverete solo questo EP e poco altro, dove ogni pezzo è una bomba. Insomma, vanno tenuti d’occhio, perché di impressioni da raccontare su via Padova ne hanno parecchie.

[Ma il disco del 2023 che…]


Apache 207, Gartenstadt, 2023 (Giorgia Bernardini)

Il 2023 è stato l’anno musicale dedicato a Apache 207, rapper tedesco di origini turche che ho ascoltato come un “guilty pleasure” durante i miei viaggi in metro mentre andavo a lavoro, oppure in certe notti in cui mi sono rintanata in casa nel tentativo di sconfiggere il freddo berlinese. Volkan Yaman si inserisce in una tradizione pop che declina magistralmente basi di musica elettronica e parole in lingua tedesca, e in questo smussare una lingua notoriamente spigolosa Apache si dimostra un maestro. In Gartenstadt racconta notti in club, pile di denaro alte così che conta alla fine di ogni suo concerto, oppure incontri con donne turco-tedesche che lo approcciano in disco sussurrandogli all’orecchio parole nella loro lingua madre, il turco appunto. Ed è questo cross-over linguistico e musicale che lo rende unico, capace di raccontare la strada, un passato da squattrinato vs. un presente fatto di orologi d’oro e macchine costose. Ma è pazientando di fronte a questi topoi tematici della musica rap che si trovano oasi poetiche, costruzioni di parole e ritmo che rendono possibile una musicalità per la lingua tedesca che diventa irresistibile quando si incontra con il turco. Ogni pezzo è ballabile, piacevole. Consiglio però di tornare anche al suo album di esordio del 2019, Platte. Sex mit dir è uno dei pezzi che ascolto quando non so cosa ascoltare. E non mi delude mai.

[Ma il disco del 2023 che ha…]


Salt House, Riverwoods, 2023 (Claudia Dellacasa)

Salt House è il nome di un molo di Liverpool, ma da almeno un decennio anche di una realtà di riferimento nella scena folk scozzese. È la realtà di Jenny Sturgeon, Ewan MacPherson e Lauren MacColl: due chitarre, una viola, e soprattutto un impasto di voci pieno di fascino – quella femminile, di Sturgeon, cristallina e dolce; quella maschile, di MacPherson, più scabra ma non meno accogliente. Nel 2023 hanno composto una risposta musicale a Riverwoods, documentario prodotto dall’associazione SCOTLAND: The Big Picture, che si occupa di riforestare e rinaturalizzare il paesaggio scozzese. Dietro al fascino indiscusso delle brughiere di erica e roccia, in effetti, si nasconde una catastrofe naturale di lungo corso: l’ambiente originario dell’estremità settentrionale delle isole britanniche era in origine molto più ricco di alberi di quanto oggi non si immagini. La riduzione drastica di zone boschive, soprattutto negli ultimi anni, sta portando a un calo graduale e inesorabile della fauna selvatica: in primo luogo dei salmoni dell’Atlantico che nei corsi d’acqua dolce e fredda della Scozia, all’ombra di alberi secolari, trovavano un tempo, e trovano sempre meno, l’habitat ideale per la riproduzione. Salt House ha dato forma musicale a questa emergenza, in un intersecarsi di pezzi strumentali e brani cantati che restituiscono un senso di inquietudine ma anche di pura bellezza – proprio come nei migliori paesaggi di Caledonia. Si consiglia di prendere spunto dalle abitudini dei salmoni e ripercorrere a ritroso la produzione dei Salt House, come un corso d’acqua freddo e rigenerante. Includendo nel percorso i ruscelli che da questo fiume si diramano: in primo luogo l’attività da solista di Jenny Sturgeon (di cui spicca il concept album ispirato a The Magic Mountain, di Nan Shepherd) e quella degli Outliers (in cui Sturgeon collabora con il cantautore Boo Hewerdine).

[Ma il disco del 2023 che ha messo d’accordo…]


Irene Buselli, Io, io, io, 2023 (Carlo Martello)

Io, io, io è il disco d’esordio di Irene Buselli, cantautrice con molti concerti alle spalle e alcuni premi vinti, tra cui il premio Bindi. Per cui non si tratta di un’artista venuta dal nulla o di cui non si sapeva niente, tuttavia il disco è il disco, è come quando si fa il primo film o esce il primo romanzo, ci devono essere delle qualità di tenuta e non solo dei momenti folgoranti, altrimenti l’insieme non tiene. Io, io, io, che non è un inno alla megalomania, funziona benissimo perché ha una scrittura estremamente compatta ed esplora un tema fondamentale, quello della costruzione identitaria, che si dipana all’interno dei brani con estremo coraggio. La musica e gli arrangiamenti sono curatissimi, ogni brano è un frammento della ricomposizione di un’esplosione. Alla fine del disco si arriva come al termine di un’esplorazione e ci si accorge che non si trattava solo dell’esplorazione dell’artista Irene Buselli, ma anche dell’esplorazione di sé, perché la forza di questo disco sono i testi, di cui si avverte non solo la profondità, ma il tempo; sono canzoni le cui parole vengono da molto lontano, che hanno subito le trasformazioni che passiamo tutt* e che riescono a raccontare quindi anche di chi ascolta e non solo di chi scrive, canta e suona.

Spesso la musica italiana ha un forte radicamento territoriale, gli artisti romani sono proprio di Roma, le artiste siciliane inequivocabilmente siciliane, eccetera. Questo disco invece parla a chiunque, ovunque, ogni canzone è un piccolo racconto e se proprio si deve cercare una geografia fa pensare all’Asia, in particolare al cinema asiatico degli ultimi quindici anni. Fili, in particolare, mi ha imposto il ricordo di Kim Ki-duk. E poi viene in mente la chiarezza dolorosa di Julio Cortazar. È un disco che rimanda di continuo ad altre forme espressive – al cinema, alla poesia – senza limitarsi alle inevitabili suggestioni musicali.

[Ma il disco del 2023 che ha messo d’accordo (quasi) tutta…]


Johnny Flynn e Robert Macfarlane, The Moon Also Rises, 2023 (Alberto Pellegrini)

Johnny Flynn e Robert Macfarlane pubblicano per la seconda volta un album scritto insieme. Inglesi, il primo è un cantante folk dal piglio classico (e anche attore), il secondo uno scrittore di passeggiate, montagne e brughiere (tradotto da Einaudi). Il disco si apre con i suoni leggermente elettrificati della prima traccia (che ha anche fatto da singolo), ma per il resto del tempo le percussioni quasi scompaiono, e a farla da padrone sono valzer e ballate, chitarre, arpe, cori, canoni e cornamuse, che rendono l’album coerente e organico con i mondi e con i modi che l’hanno visto nascere, visto che è stato scritto suonato e cantato con una banda di amici in una casa di campagna (quella di Cosmo Sheldrake, un altro grande d’Oltremanica da ascoltare appena possibile). È bello che a dare il tono generale possa starci una Song with no name, con la sua chitarra in tutto e per tutto sobria, la voce matura e mai liscia, le sue storie di buio e dubbi infine risolti e ricomposti, perché la musica di questo disco è sì capace di inquietudine e goliardia, ma in fondo porta con sé calore e calma, ed è questo che lo rende un bene (e un) rifugio.

[Ma il disco del 2023 che ha messo d’accordo (quasi) tutta la redazione…]


Pongo, Sakidila, 2022 (Serena e Nicolò, Kaffeklubben libreria, Guastalla)

Nebbia, freddo (e ci si è rotta anche la stufa in negozio!), inverno, ma con questo consiglio musicale ragioniamo per contrapposizioni e se chiudiamo un attimo gli occhi: sentiamo i nostri piedi scalzi sulla sabbia e li muoviamo a destra e sinistra, come balla chi non sa ballare. Perché Pongo è così: ovunque tu sia, qualunque sia la stagione, appena la senti, inizi a muoverti. Con questo album puoi prenderti un momento, dimenticare le cena aziendali e le idee regalo e andartene via. Dove preferisci, ma sentiamo sarà una spiaggia.

[Ma il disco del 2023 che ha messo d’accordo (quasi) tutta la redazione della Balena…]


P38, Nuove BR (Repack) + Astore, Killer – Autoprodotto, 2022 (Lorenzo Vargas)

Che poi noi parliamo a iosa di come l’arte debba dar fastidio, debba squassare gli animi e sbigottire il buoncostume, ma qua, con buona pace del povero Blanco che ha preso a pedate delle rose innocenti, gli unici ad essersi presi una denuncia per aver suonato in pubblico sono quelli della P38. E lo so che Nuove BR risale al 2021, ma in occasione di una riedizione già sparita nel nulla e dell’album solista di Astore, membro della crew, mi pareva un buon momento per portare all’attenzione del gentile pubblico un buon esempio di uso politico del mezzo artistico sia pubblico che privato. Perché entrambi i lavori parlano della stessa cosa: un punto di rottura sociopolitico e la risposta rabbiosa, naif e protesa al futuro di gente che prende mazzate da quando ha memoria. Nuove BR è il manifesto programmatico, esteticamente contraddittorio e azionista di un’immaginaria colonna brigadista contemporanea che si riappropria della cifra Trap. Riflesso immediato di questo quadro collettivo invece c’è Killer di Astore, che apre una finestrella intimista in questo apparato politico e mette in scena un dolore osceno proprio perché non stilisticamente mediato. Qui si urla nell’abisso e tutti piangono, si abbracciano, si passano la Peroni calda per tirarsi su. Sarebbe un bel mondo se non si stesse di merda. 

[Ma il disco del 2023 che ha messo d’accordo (quasi) tutta la redazione della Balena Bianca…]


John Zorn, A Dreamers Christmas, 2011 (Massimiliano Cappello)

Volendo anticipare i miei due cents, scommetto che (se non lo è già) sicuramente un giorno la funzione-Zorn sarà studiata nella musica ‘90-‘20 pressappoco come quella “Gadda” è stata scorta nella narrativa del secondo Novecento italiano: se non altro per aver lavorato accanitamente sullo sviluppo del game piece come pratica improvvisativa, o per aver “creato” insieme a musicisti come Marc Ribot fenomeni musicali come Masada (e sua variante electric) e serie discografiche come i Book of angels. Ma (e qui vengo a noi) anche fuori da prospettive di tipo culturalistico e ben addentro il commerciale e il contingente (qual è il caso della Christmas music), Zorn è col tempo divenuto un cult. A Dreamers Christmas, disco del 2011 ma appena giunto sulle piattaforme digitali (e lascio all’immaginazione la fatica del reperimento prima d’ora), ne è un esempio lampante. 9 brani, 48 minuti, un “cast” d’eccezione (da Marc Ribot, appunto, a Mike Patton), ma soprattutto i più bei carol della tradizione protestante fantasmatizzati in salsa mistico-messianica. Ascolto compulsivo per festività magiche — e anche un poco perturbanti, perché no — da qui all’eternità (o alla rivoluzione).


[Ma il disco del 2023 che ha messo d’accordo (quasi) tutta la redazione della Balena Bianca è…

Baustelle, Elvis!]