«I don’t understand what’s happening».
«Me neither».
Queste parole vengono pronunciate dai personaggi di Kevin Garvey e John Murphy durante l’ultimo episodio della seconda stagione di The Leftovers. Sono forse il riassunto più azzeccato di una serie che, nel corso dei suoi tre anni di trasmissione, ha saputo raccontare meglio di qualunque altra lo stato di incertezza con cui l’essere umano è costretto a confrontarsi da sempre. Inserita da Indiewire e dal Time tra i migliori telefilm del decennio scorso, The Leftovers affronta con un mix di dramma, humor e surrealismo il legame indissolubile che esiste tra il mistero e la nostra irrefrenabile esigenza di risposte, affondando a piene mani tra le paranoie occidentali del post 11 settembre 2001 e, in maniera quasi profetica, post Covid-19.
Lo show, creato da Damon Lindelof e Tom Perrotta nel 2014 e andato in onda su HBO per tre stagioni, è ispirato all’omonimo romanzo dello stesso Perrotta e parte da un presupposto semplicissimo: cosa accadrebbe se scomparisse improvvisamente il 2% della popolazione mondiale? Ed è proprio questo che succede in The Leftovers. Il 14 ottobre 2011, 140 milioni di persone svaniscono nel nulla in un solo istante. Di film e serie televisive post-apocalittici con premesse simili ne esistono a bizzeffe, ma Lindelof e Perrotta hanno un’intuizione che rende The Leftoversunica nel suo genere. Viene messo in chiaro fin da subito, infatti, che non sapremo mai come o perché sono sparite quelle persone, né dove sono finite. D’altronde, il focus dello show è su chi è rimasto, i “leftovers” appunto.
La serie inizia tre anni dopo l’evento inspiegabile, che verrà ribattezzato Sudden Departure, l’Improvvisa Dipartita, e segue le vicende della comunità di Mapleton, New York, dove sono scomparse un centinaio di persone. Quando li incontriamo nel primo episodio, i sopravvissuti sono alle prese con questo trauma collettivo e le conseguenze che esso ha avuto sulle loro vite. Tra di loro spiccano i componenti della famiglia Garvey, di cui fa parte Kevin, il capo della polizia, interpretato da un allucinato Justin Theroux. Lungo i ventotto episodi che compongono The Leftovers si aggiungeranno diversi altri personaggi, e tutti insieme si imbarcheranno in un’odissea esistenziale in giro per il mondo, alla ricerca di un nuovo inizio e di un senso in ciò che è successo. Alcuni di loro si convinceranno che l’evento catastrofico sia stata opera di Dio, altri punteranno il dito contro il governo e la scienza, altri ancora contro assurde teorie del complotto. La verità è che nessuno saprà mai cos’è successo.
Le tre stagioni che compongono la serie funzionano come i capitoli di un romanzo. Se la prima si focalizza sul caos, ovvero su come le vite dei protagonisti siano andate completamente alla deriva dopo i fatti del 14 ottobre 2011, la seconda è sul rifiuto, e inizia con la decisione della famiglia Garvey di trasferirsi a Miracle, in Texas, una sorta di neo-Lourdes che ha registrato zero scomparse. La terza e ultima stagione, invece, è sull’accettazione, e segue i nostri protagonisti in un improbabile viaggio oltreoceano, fino in Australia, dove dovranno confrontarsi con profezie di diluvi universali, improbabili culti religiosi, attacchi nucleari e il mistero più grande di tutti: quello della morte.
Ora, viste le tematiche trattate, si potrebbe pensare che The Leftovers sia uno show eccessivamente serio e deprimente per un binge watching serale dopolavoro. Sarebbe un errore però, perché The Leftovers è anche una serie estremamente divertente, energica e con un immaginario molto originale. Pur traendo ispirazione dalla narrativa di Don DeLillo o da filosofi come Albert Camus, in particolare da La Peste e Il mito di Sisifo, The Leftovers riesce a bilanciare il suo spirito più intimista e drammatico con una vena di sano humor in stile fratelli Coen. Una contrapposizione non solo visiva e tematica, ma anche sonora. La colonna sonora, infatti, mescola sapientemente i motivi più malinconici composti da Max Richter a brani pop e hit degli Anni Ottanta, come Take on Me degli a-ha. The Leftovers è divertente in quel modo assurdo in cui lo è anche la vita, con tutte le sue follie e i vizi quotidiani. Lindelof e Perrotta sanno che le persone usano l’umorismo come corazza per non crollare, e sfruttano questa consapevolezza per riuscire nella difficile impresa di rendere più “digeribili” materie come il trauma, la malattia mentale e il lutto.
Un lutto, quello dei protagonisti della serie, che come viene più volte ricordato da Nora Durst, interpretata da una magistrale Carrie Coon, non può trovare risoluzione. Perché se non c’è un corpo su cui piangere, non si può voltare pagina. E delle 140 milioni di persone scomparse durante la “Sudden Departure” (dipartita improvvisa) non è rimasto assolutamente niente, soltanto un vuoto impossibile da colmare che va oltre la morte. Sarà proprio nel tentativo di arginare questa assenza che chi è rimasto andrà alla ricerca di “qualcosa”, qualsiasi cosa, capace di anestetizzare la propria sofferenza: città miracolose, improbabili santoni o, semplicemente, una routine quotidiana, come quella di Kevin, fatta di jogging, sigarette e lavoro. “Toppe” per nascondere l’atrocità di un lutto che non può essere commemorato.
Di scene simboliche ed evocative, The Leftovers ne è piena. Ce n’è una in particolare però che racchiude in sé il cuore più profondo della serie. È una piccola sequenza nell’economia dello show, a prima vista quasi insignificante, ma che riesce con poco a mostrare tutta la forza catartica della creatura di Lindelof e Perrotta. A due episodi dall’inizio della prima stagione, Kevin deve vedersela con un avversario piuttosto inusuale: un tostapane. Mentre si trova nella cucina del dipartimento di polizia, Kevin inserisce nell’elettrodomestico le due metà di un bagel e attende che siano pronte. Colpo di scena: i bagel scompaiono. Il climax dell’episodio arriva quando Kevin, frustrato, distrugge il tostapane alla ricerca delle ciambelle perdute. Quella che potrebbe sembrare una scena semplicemente buffa e, a tratti, demenziale, diventa invece uno sguardo profondo sui modi in cui noi esseri umani reagiamo all’ignoto. È una scelta bizzarra da parte degli autori, ma utile a sovvertire le premesse fantascientifiche della serie e a puntare i riflettori su un dramma terreno e reale, quello di un’umanità che si sforza di riacquisire il controllo sull’universo. La ricerca del bagel perduto non è soltanto un cruccio momentaneo per Kevin, ma il suo modo di aggrapparsi ai resti di un mondo che non riesce più a comprendere. È stato testimone di un evento inspiegabile che lo ha scosso profondamente e, ora, la semplice scomparsa di un bagel è in grado di mandare in crisi tutto ciò in cui crede.
È un mondo impazzito quello di The Leftovers. Un mondo che non risponde più alle leggi della fisica e della natura, e le uniche ancore di salvezza rimaste ai protagonisti sono le storie. In fondo, l’essere umano ha sempre cercato di interpretare l’inspiegabile attraverso il racconto, fin dall’alba dei tempi. I fulmini erano manifestazioni della furia degli dei e le malattie maledizioni lanciate da tribù nemiche. Così fanno anche Kevin, Nora, Laurie e tutti gli altri “rimasti”. Utilizzano le storie per nascondere una verità agghiacciante, ovvero che il mondo non ha più senso (e, forse, non l’ha mai avuto).
Ne è un esempio il parroco di Mapleton, Matt Jamison, che ha il volto del fu Doctor Who Christopher Eccleston. Matt riconosce la mano di Dio nella Sudden Departure. Pensa che tutto sia riconducibile all’Apocalisse di Giovanni, e che chi se n’è andato sia semplicemente asceso al Regno dei Cieli. La sua è una storia, come tante altre, ed è guidata dalla convinzione che tutto avvenga per una ragione. Una fede cieca che viene contrapposta al nichilismo dei Guilty Remnant, i “colpevoli sopravvissuti”, una sorta di setta post-moderna che ha deciso di ritirarsi a uno stile di vita monacale in luoghi asettici e senza affetti, fumando quante più sigarette possibile. Seppure la loro dottrina rimanga piuttosto oscura, lo scopo delle loro azioni si palesa rapidamente: ricordare agli altri “leftovers” che il 14 ottobre 2011 non è scomparso soltanto il 2% della popolazione mondiale, ma anche la centralità dell’uomo nell’ordine delle cose. Un concetto già profetizzato, inconsapevolmente, da Kevin, in un episodio flashback della prima stagione, ambientato un giorno prima della catastrofe. Durante la festa di compleanno di suo padre, Kevin legge un brano del giornalista statunitense Stephen Crane, che recita: “Un uomo disse all’universo: «Signore, Io esisto!». «Ciò nonostante» replicò l’universo, «il fatto non suscita in me alcun senso di obbligo».
The Leftovers è questo, una serie su persone fragili che tentano di rimettersi in piedi tra le ceneri di una civiltà estinta. È un viaggio complesso, insidioso e pieno di vicoli ciechi. Ma The Leftovers è anche altro, un’epifania collettiva sul “non-senso” di ciò che ci circonda. Potrebbe sembrare terrificante, ma non bisogna farsi trarre in inganno: Lindelof e Perrotta hanno dato vita a uno show positivo che vuole credere con tutte le sue forze nel “dopo”. In un’umanità finalmente libera dalle catene dei dogmi del passato e da una visione antropocentrica dell’universo.
Sono trascorsi dieci anni dalla messa in onda del primo episodio, eppure The Leftovers risulta essere più contemporanea oggi di allora. La società occidentale, con le sue convinzioni e i suoi dogmi, sta iniziando a mostrare i primi reali segnali di cedimento. E il mondo caotico di The Leftovers non ci sembra più tanto distante dal nostro. Non è un caso che continui a trovare nuovi spettatori da aggiungere alla sua schiera di appassionati e a venire menzionata tra le serie più influenti degli anni duemila. In Italia, purtroppo, è stata penalizzata da una programmazione discontinua e poco pubblicizzata su Sky. Presentata inizialmente come l’erede spirituale di Lost, sempre scritta da Damon Lindelof, The Leftovers è più vicina alla sensibilità british e a un altro capolavoro prodotto da HBO a inizio anni duemila: Six Feet Under.