Quale e quanto precisa possa essere la forza espressiva di un modo verbale – anche i residui di un gerundivo andato perduto –, è un fatto sintetizzato come meglio non si potrebbe da Il laureando (66thand2nd, 2023). Già dal titolo, il romanzo permette a Maurizio Amendola di evitare a monte ogni possibile parallelismo rispetto ai vari precedenti (sia filmici che librari, da Charles Webb a Pieraccioni) per collocarsi sul piano di azioni che contengano, in sé, l’idea del “dover essere compiute”. Il senso di colpa atavico che attanaglia Livio Maiorano da Crotone (sua città natale) a Pisa (patria d’elezione, scelta per ragioni universitarie) non è spiegabile edipicamente, né si può risolvere – senza nulla anticipare del finale – tra sessioni di analisi e terapia: è l’emblema di una shame culture tutta contemporanea che vede nella sindrome dell’impostore una variante lieve ed edulcorata rispetto all’impossibilità – certa – di curare il male interiore più autentico. La stasi del procrastinatore, che pure Maiorano in parte incarna, è in confronto una barzelletta o uno stratagemma – nemmeno troppo originale – per risultare “personaggio” in un ambiente universitario standard.
Lo stato dell’arte, piuttosto, parla di un distacco necessario dalla supposta spensieratezza che ci si attende da un ragazzo cui sulla carta non manca niente; il giovane in questione è anzi stanco, già prima di cominciare, della vita da sala studio, del coro “dottore dottore” e del “pacco da giù” (tanto che Amendola, che pare come proteggere un protagonista tanto fragile, riesce ad alludere con chiarezza ad ogni cliché, ma senza mai farne parola). C’è un lutto da elaborare – la morte di una sorella – che ciascuno fronteggia a modo proprio: il notaio Maiorano, padre di Livio, si rifugia nell’antro-taverna riservato alla modellistica; la moglie, sedicente notaio per diritto acquisito, si distrae bevendo regolarmente e con disinvoltura. Livio, dalla sua, ha cominciato ad annaspare proprio a partire dall’iscrizione a giurisprudenza, né pare che una via d’uscita sia contemplata: c’è forse un qualche spiraglio nella figura di Cecilia, il cui valore simbolico coincide con l’indipendenza economica che potrebbe salvare – come in molti casi è successo – i rampolli di una upper class anaffettiva per definizione; un altro barlume, ma dai risvolti imprevedibili, risiede nella convinzione, che Livio sposa con inattesa foga, che una tesi di laurea possa essere scritta anche da chi abbia dato solo tre esami in cinque anni.
Dalla propria esperienza di vita, per la verità, Livio Maiorano ha maturato più di un punto fermo, benché tutto finisca per essere ammorbidito e reso ovattato dall’indeterminatezza in cui il ragazzo trova la propria culla. È certo che Alessia, la coinquilina e l’amica di una vita, non sia più la bambina che ha saputo stargli vicino fin dai primi imbarazzi dell’infanzia: e se è fisiologico che la sintonia scompaia, non c’è – a suggellarlo – immagine più rappresentativa dell’imminente matrimonio tra la suddetta amica di sempre e il primo riccastro viareggino che le abbia garantito una minima stabilità, salvandola prima del tempo dall’orroredel post lauream (dal circolo del tennis al Leo Club, del resto, il passo è più che breve). Ed è certo che non sarà una laurea, tantomeno in giurisprudenza, a salvare Livio, che spingendo all’estremo il proprio straniamento sogna sì una discussione, ma si tratta di quella della sorella Vania. Dalla quale – ma è un sentore, più che una certezza – sembra essere stata mutuata non solo la passione per Tom Waits, ma anche l’idea che God’s away on business. Dunque non stupisce che l’animo di Livio si adatti al suono degli Eels, di cui pure sente il bisogno di comprendere i testi, né che la Pisa del Maiorano fuorisede abbracci luoghi solo in parte “di culto” della pisanità studentesca, in quanto più noti ai residenti o perché “rarità” rispetto all’immaginario che si propaga da Piazza delle Vettovaglie a Borgo Stretto. Vero è che in un attimo ci si trova tra il Cinema Arsenale e il Cantiere San Bernardo, ma sono dimensioni ancora concesse: la ressa di un Ex-Wide sarebbe, si sospetta, un azzardo. Meglio, se mai, una camminata in solitaria verso il mare, anche se è questo un livello in cui un luogo vale l’altro: così è per Lisbona, in cui il protagonista sembrerà addirittura svagarsi per qualche giorno, e così è per Crotone, teatro evocativo di ogni trauma con, in più, l’aggravante di comportare claustrofobici viaggi in aereo sulla tratta Pisa-Lamezia.
Tra le altre figure, voci comunque di contorno rispetto al doloroso monologo di Livio, spicca senza dubbio la coppia di anziani conosciuti grazie a Cecilia e a cui si deve, giusto per una mezza giornata, la sola parentesi di stacco dallo stillicidio del protagonista. La auntie Olivia, per certi versi la Maude personale di Cecilia, è una comparsa dalla funzione dissacratoria, compagna ideale del professore con cui il giovane, libero da vincoli e aspettative, riuscirà quasi ad aprirsi, pur senza smettere di mentire del tutto. O meglio, Livio smette di mentire su tutto: se lo studente che bluffa sul numero degli esami sostenuti – con annessa invenzione del voto, pantomima sull’andamento dell’orale e addirittura dettagli sulle domande e le espressioni facciali del docente – non è nulla di nuovo, sia in letteratura che a livello di cronaca, l’uscita di scena di Maiorano è atipica. La sua tesi, mai discussa perché “indiscutibile” in assenza degli esami necessari e naturalmente della domanda di laurea, è la pacificazione tra Livio e il tema della verità. Non solo è un buon elaborato (a giudizio del relatore, ma soprattutto del padre): anche se scopiazzata qua e là, Livio l’ha scritta davvero. Né si può negare che Alessia, della cui evoluzione si è già detto, provi fino all’ultimo a estorcere all’amico una confessione: il problema – questione non da poco – è che Alessia, laureata com’è, non ha alcun potere salvifico, tantomeno intimando di crescere a chi vorrebbe la ascoltasse. Non per caso è Alessia, tra i due, ad essere portata per il tennis, mentre Livio non è un Incandenza, ma nemmeno un Pemulis: è per lo più un Eric Clipperton con in mano una pistola, e sotto copertura. È anzi il capro espiatorio, la pietra dello scandalo.
Il complesso di questi elementi – dalla costruzione dell’intreccio alla caratterizzazione dei personaggi, che da un mare all’altro si dibattono tra la modesta Marina di Pisa e il trionfo dello Ionio – fanno de Il laureando un validissimo rappresentante del campus novel italiano: che il testo fosse stato in origine concepito per un film non vieta che in futuro possa diventarlo; che Amendola continui a scrivere è invece una speranza che chi lo ha già letto non può non nutrire.
Maurizio Amendola, Il laureando, 66thand2nd, Roma 2023, 144 pp. 15,00€.