Se volessimo riassumere in poche righe Romanzo senza umani (Feltrinelli, 2023), l’ultimo libro di Paolo Di Paolo, potremmo farlo nel modo seguente: lo storico Barbi, che studia ossessivamente il periodo della Piccola era glaciale, ha una crisi di mezz’età dopo la fine di un amore importante, si sente vecchio e solo, parte per il lago di Costanza e si mette a cercare sé stesso. Mentre prova a ritrovarsi riallacciando i contatti con amici che non sentiva da tempo, continua ad essere ossessionato dal lago, quello ghiacciato di secoli prima e quello del tempo presente. Forse Barbi pensa che guardando il paesaggio, osservandolo bene, la natura gli offrirà delle risposte che nessuna delle fonti da lui consultata potrà dargli: né le testimonianze scritte o i fogli d’archivio, né il popolo dei vivi, gli umani suoi interlocutori.

Sarebbe però riduttivo cercare di sintetizzare in poche parole un testo che tiene insieme, in modo innovativo e con molta ironia, mondi diversi – l’umano e il non-umano, le generazioni passate e quelle presenti, l’accademia universitaria, gli archivi e i programmi televisivi di largo consumo – dando vita a un intreccio in cui trovano posto sia la riflessione seria intorno a identità, memoria, emozioni e crisi climatica, sia il dialogo esilarante, scattante e senza peli sulla lingua, fra amici nuovi e ritrovati.

In fondo, sembra dirci Di Paolo, è tutta una questione di “orizzonte di attesa”, nella vita come nei libri. Evocando il famoso concetto di Hans Robert Jauss, il teorico della ricezione che a partire dagli anni Settanta del secolo scorso spostò l’asse dell’interpretazione dei testi dall’intenzione autoriale all’esperienza del lettore, lo storico Barbi si assolve dalle accuse di introversione e di assenza che gli altri, soprattutto la sua compagna Anna, gli hanno rivolto. Lui è sempre stato il sacerdote del «lago ghiacciato del cazzo» (p. 87) e, se ha tradito le aspettative degli altri, questo è dipeso da desideri maturati dai suoi interlocutori sulla base di esperienze e codici culturali da lui non condivisi. Fin da bambino, Barbi è stato un introverso che preferiva parlare con le cose, perché «loro rispondevano stando zitte come me, era una preghiera, da silenzio a silenzio» (p. 85).

Il gioco metanarrativo che Di Paolo mette qui in atto è difficile da ignorare, con l’espressione “orizzonte d’attesa” scritta a caratteri cubitali che garantisce un sicuro effetto di straniamento, come fosse una pagina del Tristram Shandy di Sterne.

Non a caso, uno dei mantra ripetuti nel testo è «che cosa ricordano, gli altri, di noi?» (p. 34), domanda che non mira solo a stabilire quanto gli altri siano riusciti a comprenderci, ma a chiarire che se, da un lato, la comunicazione e la chiarezza del messaggio sono cruciali per imprimere nell’altro un certo ricordo di noi, dall’altro lato – da quello del lettore o dell’interlocutore – è assolutamente necessario prestare attenzione.

Attesa e attenzione diventano allora parole-chiave per l’interpretazione del personaggio Barbi, del testo in generale e, come vedremo, anche del paesaggio non-umano, il lago di Costanza con i suoi ghiacci solidi e sciolti.

Lungo il circuito del lago, la cui immagine nel presente si sovrappone a quella di un altro viaggio che il ricercatore ha intrapreso quindici anni prima, oltre che a quella del lago ghiacciato dei secoli quindicesimo e sedicesimo, Barbi riceve telefonate, e-mail e messaggi da persone che ha contattato prima di partire. Sono le sue “fonti vive”, gli umani dimenticati, persone con cui anni prima aveva interrotto i contatti, per una ragione o per un’altra. Delusione, rabbia, sorpresa, sconforto si alternano nello scoprire che una “memoria condivisa” non esiste, e che ciascuno ricorda dell’altro quello che le proprie aspettative (o appunto il proprio orizzonte d’attesa) gli dettano. Ed è per questo che la cura e l’ecologia dell’attenzione diventano fondamentali. Dice Barbi, giunto alla fine del suo viaggio: «Se mi incontrassi vorrei dirmi solo: Stai più attento, Mauro, stai più attento! È l’unica cosa che conta» (p. 182).

Di Paolo ci invita, dunque, ad aguzzare la vista e a vivere nel presente, con la consapevolezza che «tutto sta accadendo adesso» e che «tutto succede in un istante, lo stesso minuto in una storia di migliaia di anni» (pp. 182-183). Contemplare l’altro con lo sguardo dell’archeologo e la sua “dedizione integrale all’invisibile” sarà allora la chiave per incontrarsi veramente, accogliendo anche il non-detto, il non-scritto, il silenzio.

Assumendo questo suggerimento come modalità di lettura del testo, possiamo dire che Romanzo senza umani ci invita continuamente a potenziare l’attenzione, grazie a una serie di espedienti narrativi che appartengono alla tradizione del romanzo di umori: l’oscillazione tra stili e registri diversi – dal tono intimista, liricheggiante ma anche ironico delle sezioni descrittive alla modalità performativa dei dialoghi, fino allo sfumato dei frammenti di memoria che ricordano certe epifanie joyciane; l’inserimento di immagini e caratteri tipografici diversi nel testo; la cura dei titoli. Questi ultimi funzionano simultaneamente come frase di chiusura di un capitolo e titolo del successivo, smascherando il meccanismo commerciale del cliffhanger e strizzando l’occhio al capostipite del romanzo postmoderno italiano, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. Questo tributo alla metanarrazione è confermato da una scena che funziona come una sorta di mise en abyme del romanzo: il serrato dialogo fra Barbi e l’amico-rivale Cicchese sulla scrittura romanzesca. A Cicchese, che difende la sua scelta di scrivere un romanzo distopico, Barbi protesta l’inutilità di “postdatare la fine” e il bisogno invece di “testimoniarla” o “incarnarla” nel presente, ambientando ad esempio una storia nella California contemporanea devastata dagli incendi, o in un paese delle Marche sommerso dall’alluvione. E non è questo – ci chiediamo noi – l’intento che muove Di Paolo quando mette in scena l’itinerario di Barbi intorno a un paesaggio lacustre che si mostra al lettore nella sua idrogeologia stratificata e complessa, eppure incastonata nel tempo attuale?

Scartare l’ottica distopica significa rifiutare la semplificazione dell’emergenza climatica, che fa da pendant alla crisi dell’individuo Barbi e dell’umanità tutta, sia dal punto di vista del contenuto che da quello dello stile: denunciando, ad esempio, la spettacolarizzazione della crisi ambientale messa in atto dai talk-show televisivi che costringono gli esperti a riassumere anni di ricerca in poche battute “utili” per il pubblico; oppure immaginando che la vera distopia sia uno sbarco di alieni che «si ritrovano davanti la quantità impressionante di romanzi prodotti dagli umani. Cumuli e cumuli di libri, di questi strani oggetti di carta fitti di segni» (pp. 134-135). Ribellandosi alla macchina editoriale e mediatica nel suo iper-romanzo, Calvino decretava solo in apparenza la morte dell’autore e il trionfo assoluto del consumatore-lettore, e ripristinava invece con guizzo parodico lo strapotere dell’Autore con la maiuscola. Quasi mezzo secolo dopo, a contrastare e demistificare la mercificazione dell’apocalissi ambientale e la catechesi del non-umano ecologico e tecnologico da parte dell’industria culturale, Di Paolo costruisce un romanzo che, nel dichiarare fin dal titolo enigmatico la cancellazione dell’umano, intende invece ribadirne con forza la sua necessità, sia nell’atto della scrittura che in quello della comprensione e conservazione dell’identità degli umani e del paesaggio non-umano.

Ecco allora spiegato il marchio di garanzia in calce all’occhiello, sotto il titolo del romanzo, che recita con ironia: «Questo romanzo non è prodotto da un’intelligenza artificiale». Ed ecco che l’interrogarsi intorno all’apparente indifferenza emotiva all’altro e al silenzio dello storico Barbi (e di tutti gli studiosi, accademici, individui come noi che si perdono in passioni misantrope ed anaffettive), è equivalente alla messa in discussione della serenità del paesaggio, della sua apparente stasi che rivela, se attiviamo l’attenzione, una «profondità spaziotemporale» (p. 142) di cui solo l’essere umano può cogliere la portata. Guardando il paesaggio non-umano dalla prospettiva della cosiddetta Deep History, ci rendiamo conto che «la civiltà è il risultato di un’imprevedibile anomalia: una stagione di quiete climatica, la più stabile in seicentocinquantamila anni» (p. 115) e che l’unico modo per comprendere ciò che sta accadendo intorno a noi è, come annuncia uno dei titoli dei capitoli, «passare dal pittoresco a una specie di bilancio qualitativo» (p. 75).

Ma Di Paolo sa che lo sguardo dell’umano sul paesaggio è variegato e diversificato. E se Barbi e quelli come lui riescono a guardare mettendosi contemporaneamente all’interno del fenomeno e al suo esterno – forse anche grazie al temporaneo “congelamento” emotivo verso gli umani e all’immersione nei testi cartacei o ambientali – è però «più semplice restare umani fra umani, gente come noi che a testa bassa avanza nell’uragano, attonita di fronte alla furia degli elementi. Preferire dettagli e spiegazioni a breve termine, testimonianze sulle piogge, sulle inondazioni, sulle nevi tenaci, offerte da qualcuno che spera che prega che semina l’orzo che ammazza il maiale» (p. 74).

Tanti sono gli spunti di discussione che emergono da questo romanzo di Di Paolo, che attivamente costruisce un’identità dialogica e post-umana all’incrocio e dall’interazione tra umano e non-umano, come anche tra realtà testuali ed extra-testuali di epoche e tradizioni diverse: Rabelais, Montaigne, Thomas Mann, Virginia Woolf, Peter Handke sono alcuni degli autori richiamati esplicitamente nel romanzo. Vorrei però concludere notando due numi tutelari di cui ho sentito forte la presenza in filigrana: Lalla Romano, con le sue riflessioni sul silenzio e le sue maestose, policrome descrizioni della neve e del ghiaccio in Tetto murato; e il grande Leopardi delle Operette morali e soprattutto del Dialogo della Natura e di un Islandese in cui il poeta fonda una nuova dimensione etica che respinge l’eccezionalità dell’umano rispetto alle altre specie e afferma l’urgenza di una reciproca interrogazione fra individuo e natura. Novello Palomar, Barbi si mette in ascolto e riesce «a cogliere l’intervallo fra onda e onda, fra il piccolo schiaffo sulla battigia e il successivo», ma il quesito che continua ad assillarlo e non troverà risposta è: «Quando non c’è nessuno, che rumore fa il mondo?» (p. 124). Forse, come scriveva Pavese, il rumore di un «silenzio condiviso». Oppure, come suggerisce Barbi, quello di «una preghiera, da silenzio a silenzio».


Paolo Di Paolo, Romanzo senza umani, Milano, Feltrinelli, 2023, 17 €, 224 pp.