Come ogni anno, La Berlinale inaugura la stagione dei grandi festival del cinema europeo con una serie sterminata di film, tra le venti opere in competizione e le decine di film di cui è composta ciascuna sezione speciale, da Panorama a Forum, passando per la Berlinale Special. Tra i contendenti per l’orso d’oro di quest’anno va segnalata una forte presenza del cinema francese, con Hors du Temps di Olivier Assayas, il bizzarro Empire di Bruno Dumont, Langue Étrangère di Claire Burger e l’infaticabile Isabelle Huppert diretta dal coreano Hong Sangsoo in Traveler’s Needs. A rappresentare l’Italia ci sono due titoli che destano molta curiosità: il primo è il sci-fi Another End di Piero Messina, il secondo è Gloria! opera prima della cantante pop Margherita Vicario.
Small Things Like These
Come nelle precedenti edizioni, ad aprire il festival è un film in concorso di lingua inglese, Small Things Like These, diretto da Tim Mielants e con protagonista l’attore in odore di Oscar per l’interpretazione in Oppenheimer, Cillian Murphy. In linea con lo spirito del festival berlinese, che da sempre dedica ampio spazio a opere di denuncia politica e sociale, Small Things Like These porta alla luce una storia poco nota oltre i confini irlandesi e che riguarda ancora una volta il controverso rapporto di questa terra con l’istituzione religiosa. Tra la fine del 1800 e gli anni ’90 del secolo scorso, operavano le cosiddette Magdalene’s Laundry, conventi dove venivano rinchiuse giovani donne orfane o incinte per venire “corrette”. Le condizioni disumane a cui era erano sottoposte le ospiti di questi conventi erano note ai più, ma le comunità voltavano lo sguardo altrove. Fino a quando un semplice venditore di carbone di un piccolo villaggio non decide di scuotersi di dosso il torpore morale e agire.
L’ambientazione della storia è la contea di Wexford, fotografata in tutta la sua freddezza cromatica. Fin dalla prima sequenza il pubblico sale sul camion di Bill – interpretato da Cillian Murphy – e lo accompagna nel suo giro di consegne quotidiano. La stanchezza che traspare dal suo sguardo limpido offuscato dalla fuliggine ci restituisce lo scorrere faticoso di giorni sempre uguali, ripagati però dal calore di una casa piena di affetto ad attenderlo a fine giornata. Varcato l’uscio Bill può togliersi finalmente gli indumenti anneriti dal carbone e lavare a fondo le mani, fino a rendere il lavandino un pozzo buio. La metafora è qui servita: l’onesto Bill, come gli altri abitanti del villaggio, può davvero ripulirsi dal male che inquina la comunità?
Tratta dal romanzo di Claire Keegan e voluto fortemente da Murphy, che ha messo su una squadra proprio nel bel mezzo delle riprese di Oppenheimer, il film risulta solido e dall’impianto classico, ma senza momenti di particolare forza. A interpretare l’antagonista della storia, ovvero la madre superiora del convento, è una misurata Emily Watson, leggenda vivente del cinema contemporaneo britannico, qui forse meno sfruttata di quanto il film avrebbe potuto beneficiare. I flashback sull’infanzia di Bill, anch’egli figlio di una ragazza “perduta”, risultano funzionali alla narrazione, ma ricordano le fiction televisive. Un finale positivo, ma privo di eccessivi sentimentalismi, consente però al film di mantenere una certa coerenza stilistica e di rappresentare dignitosamente lo spirito che contraddistingue le opere che aprono tradizionalmente la Berlinale.
La Cocina
Tra i film della prima giornata della Berlinale c’è anche l’ambiziosa opera di Alonso Ruizpalacios. La Cocina è la storia del The Grill, una trappola per turisti a Manhattan dove la cucina è un microcosmo infernale in cui si mescolano storie di miseria, speranza, sopraffazione e razzismo. La pellicola è il racconto di un’unica giornata al ristorante, iniziata nel momento in cui una giovanissima ragazza messicana giunge al locale in cerca di un posto di lavoro, mentre il contabile ha trovato un ammanco di 800 dollari durante i suoi calcoli. Da qui parte un ottovolante di azione all’interno della claustrofobica cucina, dove non c’è spazio per la gourmanderie come non ce n’è per l’umanità. Dimenticate le scene da food porn da Il sapore del successo o Chocolat, qui l’imperativo è sopravvivere in un contesto che ricorda più l’esercito della ristorazione. Per frenesia, concitazione e linguaggio colorito siamo più dalle parti di The Bear, serie di Disney che evidentemente sta facendo scuola. il film fa sfoggio di notevoli tecnicismi – come i lunghissimi piani sequenza che trascinano lo spettatore nel crescente incubo delle ordinazioni – e una notevole dose di teatralità, a partire dall’uso di un drammatico bianco e nero. Si potrebbe quasi dire che La Cocina sia una versione culinaria del Birdman di Iñárritu, con forse qualche elemento di maniera di troppo. Il risultato è una metafora della società americana, oliata dalla moltitudine di irregolari che sognano di diventare americani e che sgomitano nel buio, mentre l’altra parte del cielo non sente alcun rumore e continua a consumare il suo pasto. Fino a quando un cuoco non decide di rompere la macchinetta delle ordinazioni sfidando le ire del proprietario: «Come osi fermare il mio mondo?».