La chiave di Berlino di Vincenzo Latronico, uscito da qualche mese per Einaudi, è un narrative essay che può e deve, a mio modesto parere, essere letto in coppia con Le perfezioni, perché del romanzo pubblicato nel 2022 rappresenta non solo lo speculare controcanto autobiografico, ma altresì un metacommentario e un ampliamento in direzione dichiaratamente saggistica, volto a svolgere alcune di quelle tracce tematiche che nella precedente opera rimanevano solamente abbozzate per non appesantire il ritmo narrativo. L’impronta stilistica è quella già testata, con felici risultati, in La rivoluzione è in pausa, micro-narrazione uscita sempre nel 2022 in versione ebook nella collana «Quanti» di Einaudi, in cui Latronico raccontava gli antefatti politici ed economici – ormai obliati nelle cronache – alla base dei primi processi di gentrificazione del quartiere Isola di Milano, intrecciando con giusta misura la ricostruzione cronachistica degli avvenimenti e il dato autobiografico relativo alla sua esperienza diretta di quegli anni. Ne La chiave di Berlino l’operazione compositiva è pressoché simile, ma allargata in una prospettiva di maggior respiro, anche sociologico, volta a “coprire” un lasso di tempo che dal 2009 – anno in cui Latronico si è trasferito nella capitale tedesca – arriva ad oggi.
Ora, se Le perfezioni aveva rappresentato una sorta di epitaffio generazionale, scritto dissezionando con il bisturi la traiettoria discensionale di una coppia di millenial posta di fronte ad una crisi esistenziale apparentemente senza vie di uscita, in questo volume Latronico sposta il focus dell’attenzione sulla propria esperienza di vita – la stessa che pulsava, camuffata, al fondo del romanzo –, adesso invece sovraesposta, all’interno di una narrazione ibrida che oscilla tra brani apparentabili ad una confessione, ad un’autoanalisi retrospettiva costellata dai grandi interrogativi che fondano la quête quotidiana di ogni expat – Perché sono partito? Perché ho scelto di vivere proprio qui e non altrove? Perché non torno a casa? Ne vale davvero la pena? –, incursioni nella storia della città – dalla ricostruzione del Dopoguerra alle speculazioni edilizie attuali che stanno mutando in profondità il tessuto urbano – e postille saggistico-informative (le meno riuscite perché non sufficientemente integrate al restante tessuto narrativo) su alcuni fenomeni urbani presenti e passati – come i rave o la flânerie – e su alcune opere letterarie dell’ultimo secolo e mezzo che hanno raccontato la capitale tedesca – come Addio a Berlino di Christopher Isherwood.
Ci sono due aspetti diversi ma complementari in cui Latronico dimostra sempre grande bravura e lucidità. Il primo è costituito dalla capacità di analizzare i processi di trasformazione urbanistica che negli ultimi anni si stanno presentando in forme e modalità consimili, magari con intensità variabili caso per caso, in tutte le maggiori metropoli mondiali, si tratti di Berlino, Londra, Parigi, Milano, New York, Tokyo. Il secondo si rivela nell’abilità di intrecciare tali disamine all’interno di una narrazione che intercetta, facendone materia romanzesca, non solo un dato generazionale, ma una costellazione di dati generazionali, corrispondente molto sommariamente al fattore “tripla P”: precarietà emotiva, abitativa, lavorativa. Così come accadeva ne Le perfezioni, anche in questo caso Latronico, date le suddette premesse, riesce ad ampliare lo spettro semantico e latamente simbolico del testo. Se nel romanzo precedente ciò si verificava nella riflessione, celata ma non per questo meno urgente, sull’isterilimento del desiderio, ormai ostaggio di triangolazioni eteroindotte e subite inconsciamente a causa della virtualizzazione e dell’estroflessione sociale dell’identità, dell’ipercapitalismo delle immagini, del nomadismo digitale, qui si disvela in quelle che potremmo chiamare “topografie del disincanto”, definite intraprese mediante la decostruzione a parte subiecti della mitologia berlinese – mito nel frattempo assorbito dall’iper-liberismo capitalista che ha usato in particolare il mondo dell’arte come grimaldello per penetrare nel tessuto metropolitano della città e farne un brand. A tale operazione si accompagna passo per passo il racconto di ciò che vuole dire invecchiare, in special modo invecchiare all’estero, in una metropoli in continua espansione, in una società tutta tesa alla “digitalizzazione” del reale: indebolimento via via più sentito dei propri ideali giovanili e delle relative speranze, compromessi, difficoltà relazionali, mancanze affettive sempre meno ignorabili, problemi lavorativi, economici e logistici.
Nella misura in cui coincide con la sparizione del mistero, la digitalizzazione delle nostre vite è un processo di disincanto. Lo è anche la gentrificazione; lo è anche invecchiare. E a tutti e tre i processi la mia generazione è particolarmente sensibile: una generazione che si è trovata a dover lottare per un diritto prima acquisito; che ha avuto modo di esperire, crescendo, la vita su entrambi i fronti della frattura digitale; che comincia a invecchiare.[1]
Per Latronico fare i conti con il proprio passato vuole dire innanzitutto fare i conti con la città che di quel passato è stata teatro privilegiato, vale a dire, in altre parole, verificare un’ipotesi costitutiva: che esista, nel suo sviluppo apparentemente simbiotico, un collegamento assai stretto tra forma urbis e forma mentis; soprattutto che la prima influenzi e possa condizionare positivamente la seconda:
Cosa mi aveva spinto a restare? Si potrebbe dire: l’idea che Berlino avesse una natura particolare che imprimeva ai suoi abitanti, quel misto di spensieratezza e di libertà che risultano dall’adattamento di una persona al vuoto. Prima di un luogo geografico, insomma, nella mia mente la città era una forma di vita.[2]
Più che «il punto di intersezione di storia e geografia»,[3] la città diventa espressione rischiosa – perché mistificabile e altamente manipolabile – di un lifestyle, vettore di un’identità condivisa all’interno della quale (ri)definire la propria. Ecco il motivo per cui le parti più riuscite del romanzo – usiamo il termine per convenzione – sono quelle in cui Latronico intreccia la rievocazione della propria esperienza personale di expat con la storia evolutiva della città, in special modo dei quartieri della città; detta in altri termini, quelle in cui la stratificata biografia urbana – una sorta di Stadterfahrung per rifarci a termini benjaminiani – si fonde senza soluzione di continuità con la rievocata biografia autoriale. Se le città sono le memorie che sulle sue strade, nei suoi parchi, nelle sue case, abbiamo costruito nel tempo, Berlino è per Latronico – nel suo ricostruirsi soggettivamente per significativi sbalzi diacronici – la fine dei vent’anni e l’inizio dei quaranta, cioè i quindici anni di formazione in cui la società ci chiede di concludere il nostro “erasmus”, mettere da parte i sogni di gloria e diventare cittadini attivi e produttivi, con lavoro, famiglia, piano pensionistico, annessi e connessi. I quarant’anni rappresentano effettivamente una specola preferenziale per tirare le somme e fare un primo bilancio, con la consapevolezza che non si è più in grado di scegliere una vita, ma che bisogna accettare la vita che ci ha scelti e vuole cristallizzarci in una forma oramai definitiva.
Presentando Fausto e Anna di Carlo Cassola, Elio Vittorini scriveva che «vi sono diversi gradi di realtà a cui ci si riferisce, scrivendo. Ve n’è uno massimo che porta gli scrittori a correggere o arricchire quello che si sa di fondamentale sull’uomo. Ve n’è uno minimo che porta soltanto ad afferrare i colori di un’epoca, di un anno, di una stagione. E ve n’è uno non massimo e non minimo che permette di cogliere tutto quanto dell’animo umano nasce e muore ad ogni variazione dei tempi. Rappresentare un tal grado di realtà significa fare la cronaca psicologica di un’epoca. Questo, per l’Italia degli ultimi quindici anni l’ha fatto quasi esclusivamente Carlo Cassola».[4] Ecco, pur non volendo istituire paragoni estemporanei, mi pare di poter dire che Latronico ne La chiave di Berlino è riuscito, assumendo sé stesso come cavia e principale cartina di tornasole, a restituirci appunto “la cronaca psicologica di un’epoca” – gli ultimi vent’anni – e soprattutto di una città, di una metropoli in cui ogni “vuoto” che prometteva grandi spazi di libertà agli inizi del secolo è stato molto rapidamente richiuso, saturato dal mercato, dal cemento e dai soldi dei grandi capitali finanziari, nazionali e stranieri.
Il “realismo esistenziale”[5] di Latronico, che ne Le perfezioni procedeva puntuale come un referto e trovava sostanza espressiva in virtù di una fatale necessità tutta interna al testo, come una biglia mossa su un piano impercettibilmente inclinato, prende qui le sembianze di un memoir certo meno organico, incapace di raggiungere il grado di fusione del romanzo precedente, ma sicuramente privo di retorica autoindulgente, anzi corroso da un’esibita vena autocritica, all’occorrenza smussata da una calibrata nostalgia che rende sfocati i confini della rievocazione e ovatta l’andirivieni tra il presente della narrazione e della riflessione saggistica e i brani di memoria riportati in superficie, senza però slabbrare i confini del testo, senza incappare in arabeschi melensi del tipo “eravamo così, poi il mondo è cambiato e noi ci siamo per forza di cose adeguati”.
Ciò che rende notevole il discorso narrativo di Latronico è proprio la consapevolezza – un poco deficitaria in altri narratori della sua stessa generazione – che noi non siamo solo spettatori, vittime imbelli e perciò giustificabili di quello che Adorno chiamava il «disincanto del mondo»,[6] ma, anzi, in quanto persone privilegiate di paesi privilegiati, ne siamo i principali protagonisti. Siamo perciò anche noi tra i cattivi, tra i collusi della storia e se le cose mutano in peggio è perché anche noi le facciamo mutare o perché non siamo abbastanza forti, bravi, idealisti, integerrimi per salvaguardarle al loro stato non migliore, ma più giusto. Del resto, è la tensione verso ciò che la società occidentale considera il “meglio” che sta velocizzando l’implosione del sistema e l’esplosione di tutte le disuguaglianze.
Agli albori del 2000 Berlino prometteva una casa a chi aveva paura di farsi definire da un luogo predefinito dalla nascita, da un’appartenenza geografica che prima di essere personale è sempre famigliare e collettiva, offrendo spaccati di un mondo apparentemente libero, dove l’imperfezione era mainstream, lo spazio non era ancora compresso e pressurizzato dal tempo (dal tempo del profitto e dai profitti che si sviluppano nel tempo) e il decoro urbano una distopia o una parolaccia. Nel 2023 le cose non stanno più così. In Dall’esilio Josif Brodskij scriveva: «Il domani è meno attraente dello ieri. Per una ragione o per l’altra il passato non irradia l’immensa monotonia che il futuro promette. Di futuro ce n’è tanto, e a causa della sua abbondanza è propaganda. Come l’erba».[7] A Berlino, dopo le nefandezze terribili del Novecento, di futuro se ne voleva tanto, forse troppo. Quel futuro, cresciuto male, propagandato male, si è mangiato il presente, un presente che facciamo sempre più fatica ad abitare.
[1] V. Latronico, La chiave di Berlino, Einaudi, Torino, 2023, p. 128.
[3] Ivi, p. 29.
[4] E. Vittorini, risvolto di C. Cassola, Fausto e Anna, Einaudi, Torino, 1952.
[5] Mi rifaccio qui, con un’accezione più ampia, ad una categoria utilizzata in passato da Spinazzola per definire proprio la poetica di Cassola. Si veda V. Spinazzola, Il realismo esistenziale di Carlo Cassola, Mucchi, Modena, 1993,
[6] T. W. Adorno, Note per la letteratura, Einaudi, Torino, 2012, p. 29.
[7] I. Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1988, p. 17.
Vincenzo Latronico, La chiave di Berlino, Einaudi, Torino 2023, 152 pp. 17,50€