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Natura e invenzione del possibile: dialogo con Italo Testa

Questa ampia intervista è il punto di approdo della mia ricerca di tesi, terminata circa un anno fa e intitolata Sguardi e prospettive ecocritiche nella poesia contemporanea: Italo Testa e la sua “Indifferenza Naturale”. Si tratta di un progetto di ricerca che muoveva dalla volontà di indagare i limiti e le potenzialità dell’orizzonte di studi ecocritico nella poesia contemporanea, tentando di costruire una forma di lettura e analisi che potesse tenere conto delle istanze ecocritiche, senza trascurare la volontà autoriale e i parametri oggettivi e filologici che l’opera richiede. Dopo una panoramica – storica, geografica e di metodo – sull’ecologia letteraria, si entra nel vivo dello studio, dedicato alla poetica di Italo Testa e all’analisi critica e filologica della sua silloge L’indifferenza naturale, edita nel 2018 da Marcos y Marcos all’interno della collana di poesia “Le Ali”, diretta da Fabio Pusterla (che è anche il relatore della mia ricerca). L’intera poetica di Testa, sin dal suo esordio nel 2004 con il poemetto Gli aspri inganni, permette un ampio discorso sul Terzo Paesaggio, sui suoi spazi interstiziali e residuali, sulle zone di contatto tra umano e non umano e sul ruolo della poesia nella costruzione di un autentico dialogo con i luoghi che gli esseri umani abitano. Assimilando una lunga e alta tradizione poetica, Italo Testa con L’indifferenza naturale riesce a restituire un rapporto tra l’io e la natura che è critico e problematico, dove la natura è un oltre-paesaggio i cui confini vengono continuamente ridiscussi ed erosi. L’intervista che segue – condotta al termine della stesura della ricerca – permette di illuminare le zone più rilevanti dell’Indifferenza naturale, dando forse nuove e utili chiavi d’accesso a un’opera, quella di Italo Testa, che risulta purtroppo, al giorno d’oggi, ancora troppo poco studiata.


Durante la ricerca per una ricostruzione della gestazione dell’Indifferenza naturale mi sono imbattuta in un articolo di Federico Francucci sul trentacinquesimo numero di «Atelier», edito nel 2004. Sono qui pubblicati 14 componimenti con il titolo di Barena sud, che sarebbero dovuti rientrare in una raccolta intitolata Per ogni minaccia (poi titolo di una poesia nella Divisione della gioia). La maggior parte dei testi (undici su quattordici) sono entrati nell’Indifferenza naturale. Gli altri tre – romea mattina, transit marghera e sbadatamente – sono confluiti invece nella Divisione della gioia. Questo ha fatto emergere due interrogativi: il primo riguarda il fatto che questi componimenti vengono rimpiegati nella raccolta anni dopo, sostanzialmente invariati. L’assenza di varianti nei testi si lega alla sensazione di compiutezza dei componimenti o il resistere alla modifica è talvolta una scelta in direzione di una conservazione della loro immediatezza? Ho letto inoltre in un’intervista che il momento in cui una poesia le sembra giungere a una compiutezza arriva quando la sua lettura non le provoca più un senso di insopportabile imbarazzo e fastidio. Le chiederei dunque se la lunga sedimentazione delle poesie facenti parte dell’Indifferenza si leghi anche a queste sensazioni.

È vero che molti testi della Indifferenza naturale erano contenuti in questa plaquette che si intitolava Barena sud, da cui poi viene anche il titolo barena, togliendo il sud dal titolo. E questi testi erano frutto già di un lavoro di revisione, di un lavorio formale di riscrittura o comunque di definizione della forma, però è anche vero che all’epoca avevo scritto già diversi altri testi che poi rientreranno nell’Indifferenza naturale. La ragione per cui probabilmente avevo scelto questi testi per la piccola silloge su «Atelier» era proprio perché questo faldone mi sembrava uno tra quelli più compiuti, che riuscivo già a vedere con una certa distanza e che in questo senso non mi generava più quel fastidio che può derivare un po’ da una sensazione di imperfezione. Questa sensazione può derivare anche da un coinvolgimento, dal sentirsi ancora catturato dal testo, dal non riuscire a guardarlo da lontano e soprattutto dal non riuscire a sentirlo qualche cosa che è anche degli altri. Perché il punto del processo di scrittura secondo me è raggiungere quel momento in cui in qualche modo lasciamo andare il testo, il punto in cui ce ne congediamo e lo sentiamo in qualche misura compiuto, non nel senso che sia perfetto, ma nel senso che non ha più bisogno di noi: che può andare da solo.

E per quanto riguarda la decisione di pubblicare quei testi e di riprenderli fondamentalmente invariati: può darsi che ci sia qualche differenza a livello di interpunzione, che è un livello su cui mi capita di ritornare continuamente, ma dal punto di vista della partitura strofica e metrica non ci sono varianti. Direi che la ragione non è quella di conservare l’immediatezza, che non è qualcosa a cui solitamente guardo: non ho mai pensato “adesso se intervengo sul testo lo rovino”, nel senso che tolgo un elemento di freschezza e di immediatezza. Credo che non sia questo il punto e che l’intervento, anche a posteriori, di solito non pregiudichi questo, anche perché i miei testi sono testi già abbastanza mediati di per sé. Però il libro ha una gestazione molto lunga, nel senso che diversi testi nascono appunto nei primi anni 2000 (2003, 2004, 2006) e poi anche negli anni successivi naturalmente, però effettivamente guardando a posteriori i miei libri devo dire che tutto sommato mi è quasi sempre capitato (in questo caso forse in modo ancora più massiccio) di non riuscire a pubblicare i miei testi a stretto giro. In effetti forse solo gli ultimi due libri, sono i libri i cui i testi avevano due o tre anni, vedono meno distanza temporale tra la stesura e la pubblicazione in raccolta, perché di solito c’è sempre una distanza minima di cinque o sei anni, in media. Proprio perché questa esigenza di distanza temporale, di presa di distanza e di distacco, è forte e ha a che fare non tanto con la questione della composizione dei singoli testi. Il motivo per cui mi è capitato riprendere dei testi a distanza anche di dieci anni non è semplicemente il fatto che il singolo testo non mi sembrasse compiuto, cioè non è la sensazione del non finito, ma è che le lasse temporali credo mi servano soprattutto a capire a che cosa appartiene quel testo, cioè a individuare la costellazione in cui il testo si situa. Per vederlo quindi non semplicemente come un testo isolato, ma per capire a che insieme appartiene; questo anche perché nel mio processo di scrittura ci sono delle stratificazioni, che a volte sono confluenti o parallele. Come ha notato, l’Indifferenza naturale, La divisione della gioia e Teoria delle rotonde hanno molti testi che sono coevi. Quindi capire esattamente a cosa appartenessero è qualcosa che mi ha richiesto del tempo, perché c’è sempre un elemento di indeterminazione nei testi, di cui capisco solo con il tempo l’orientamento: dove si orienta il testo e quando riesce a definire un progetto-libro. Capire quali siano questi strati, aspettare che emerga una loro logica e che si dispongano in costellazione è qualcosa che a me ha sempre richiesto del tempo. Ed è anche per questo che i miei libri non hanno soltanto una relazione di successione cronologica l’uno con l’altro, ma sono piuttosto dei progetti che tagliano trasversalmente il piano cronologico. La plaquette Barena sud risale a una fase in cui non avevo ancora deciso di costruire due libri diversi o in cui progettavo un libro. Quindi il processo consiste soprattutto nel capire come il progetto si dispone, anche da sé, in modo non solo intenzionale. Ho bisogno di una verifica nel tempo e di capire cosa c’era di fallace nei miei progetti, di rivedere negli indici questi aggregati macrotestuali e capire se c’erano degli sbagli. Questa è una cosa di tipo diacronico, in cui il tempo aiuta a segmentare una simultaneità che per altri versi invece riguarda L’indifferenza naturale e La divisione della gioia, che hanno una parentela forte: sono insieme dei progetti distinti ma appartengono a un plesso continuo.

Durante la mia ricerca ho descritto la sua opera come un macrocosmo in cui ogni tassello dialoga con l’altro e in cui è intuibile un ordine diacronico ma anche un ordine sincronico, come ad esempio credo che la sezione la casa perfetta in Tutto accade ovunque dialoghi con queste due opere, perché la coppia oppositiva sfondo/figura lascia spazio a un rapporto figura/figura e il fuori si mescola con il dentro, con una continua ridiscussione dei confini.

Sì, è vero: è presente questo processo di erosione dei confini in Tutto accade ovunque, il cui titolo ha a che fare con un processo di composizione che agisce in simultaneità. Però è vero che Tutto accade ovunque, come anche Teoria delle rotonde, usa altri dispositivi formali: vi è una differenza nell’uso del verso, dello spazio, del linguaggio, del tipo di tradizioni a cui attingo. Ma credo che questa differenza non tolga il fatto che c’è qualcosa che circola, a livello anche tematico, e che ci sia un elemento di prossimità.

A proposito di questo processo di differenziazione e di emersione di macro-insiemi strutturali, passerei alla prossima domanda. Le tre poesie del nucleo di «Atelier» che entrano invece nella Divisione della gioia vengono collocate in posizioni liminali: romea mattina fa da epigrafe, mentre transit marghera e sbadatamente diventano poesie incipitarie ed explicitarie alla raccolta. Questo mi porta a chiederle se anche lei, come accade spesso nella costruzione del macrotesto, consideri le zone liminali delle raccolte come spazi di particolare interesse, soglie cruciali per la lettura e la ricezione dell’opera.

Il lavoro sulle soglie è un lavoro che ho compiuto soprattutto in tre libri: nell’Indifferenza naturale, nella Divisione della gioia e negli Aspri inganni, tre testi in cui la soglia è maggiormente marcata. Non dico che negli altri miei libri non sia significativo che io abbia messo un testo all’inizio piuttosto che alla fine; è difficile che un autore di una raccolta non attribuisca un significato all’incipit e all’explicit. Tuttavia, mi sono reso conto che in questi tre libri sono più marcate le soglie. Questa marcatura fa sì che le soglie siano porte che aprono una sull’altra; riguardando le soglie mi sono reso conto che c’è un gioco di rinvio tra i libri stessi proprio sulla soglia. Da un lato questo può avere a che fare con l’idea di una struttura macrotestuale, perché le zone liminali sono segnalatori di una appartenenza di questi progetti a una sorta di organismo più ampio, che si differenzia. Sono segnalatori del fatto che c’è una differenziazione di qualcosa che ha anche un livello di indistinzione; questo per quanto riguarda il rinvio tra un libro e l’altro. L’altro aspetto è che ci sono effettivamente delle ricorrenze: gli Aspri inganni, con «devi fare attenzione / orientare lo sguardo» legato allo sguardo e all’indifferenza delle cose e l’ultimo testo «vicino vive soffia nel vento» con questo elemento del vento e del soffio, può richiamare l’impermanenza e il tema della transitorietà che chiude La divisione della gioia e l’Indifferenza naturale. Ci sono quindi degli elementi di variazione di alcuni motivi figurali; anche la chiusura sulle piante della Divisione della gioia rimanda a un elemento che tornerà e diventerà metamorfico: rilancia sul nuovo e riapre a qualcosa che verrà dopo. Di questo non ero del tutto consapevole quando scrivevo e probabilmente si tratta di un livello in cui interviene un elemento di ideologia di sé stessi e qui bisogna anche diffidare dell’autore. Rispetto a quella che è una mia tendenza a cercare di evitare il discorso metapoetico, ovvero di non fare poesia sulla poesia o di fare un passo indietro nella teorizzazione rispetto alla poesia, è chiaro che l’uso che ho fatto delle soglie in questi tre libri sia abbastanza connotato in tal senso, perché definisce alcune piste e alcuni motivi e cerca di dare rilevanza. Io non so fino a che punto possa fidarmi di me stesso in questo, perché vedo che in quei punti è presente un intento autoriale, che potrebbe surdeterminare alcuni aspetti della raccolta, ma sono d’accordo sul fatto che in queste zone delle raccolte emerga una qualche tipo di volontà di connotare.

Tant’è che all’inizio della mia ricerca, avendo appena letto il suo primo libro, Gli aspri inganni, mi è parso di poter descrivere la poetica di questi tre libri come una “poetica dello sguardo” e di poter leggere nel primo verso di questa raccolta una sorta di dichiarazione poetica, forse inconscia, che poi origina un filo comune. E questo ci porta alla prossima domanda, perché una simile attenzione è rintracciabile nelle zone liminali dell’Indifferenza naturale con i testi [lo sguardo è lenta costruzione] e [l’impermanente, il filo che si perde], che incorniciano l’intera opera, tematizzando la centrale questione dello sguardo e dell’affermarsi delle cose nel loro negarsi. Nella lettura dell’Indifferenza naturale mi è sembrato possibile intuire un percorso di Bildung dell’io, che attraversando il paesaggio osserva, subisce e attua delle metamorfosi; l’accettazione ultima dell’impermanenza delle cose può essere quindi intesa come una sorta di approdo a una nuova consapevolezza e possibilità, anche se ritorna in un modo quasi circolare sul primo componimento?

Credo che questo movimento non sia circolare, ma piuttosto spiraloide; anche il tipo di rinvio che c’è tra le soglie non vuole essere un semplice ritorno all’inizio ma un percorso di riapertura, di riconfigurazione. È vero che la raccolta si chiude con una esposizione all’impermanenza, alla transitorietà e alla caducità come apertura al nuovo, come irruzione di qualche cosa o come invasione. Da questo punto di vista tornando alla questione delle soglie, credo che queste siano anche delle faglie, delle fenditure, come degli attraversamenti. Mi sono anche reso conto che, forse in senso ideologico, queste soglie – soprattutto quelle di chiusura – hanno un tasso di luminosità superiore e un’incidenza maggiore di luminosità, nel senso che hanno a che fare con una dimensione affermativa, potremmo dire, che ho sentito l’esigenza di porre più volte in conclusione a questi libri, ad esprimere ciò che lei chiamava “un percorso di Bildung”. Ecco, non credo sia un percorso di Bildung e di formazione in senso classico – vale a dire di una formazione lineare, progressiva, di avvicinamento a una meta – ma che si tratti di un percorso non lineare e piuttosto eccentrico (nel senso che conosce vari punti di avvicinamento e distanziamento da un centro); però l’esito di questo processo è effettivamente ciò che ho chiamato apertura o trasformazione: cioè l’idea che sia un percorso trasformativo, nel senso che al suo termine si raggiunge una capacità di maggiore esposizione al mondo e alle cose, una perdita di sé, una perdita della gabbia di sé stessi. È vero che questo elemento che torna tematicamente nei termini dell’impermanenza e della metamorfosi ha qualcosa a che fare con questo tipo di esigenza.

Ho ritrovato nella lettura, come diceva, un senso di una maggiore affermatività dell’io nelle sezioni finali della raccolta, come nel componimento [ma la luce non avrei visto] in cui sembra che l’io ad un certo punto guardi retrospettivamente il suo attraversamento.

Sì, c’è l’aspetto dell’attraversamento del negativo e la dimensione di sottrazione che è nello stesso momento affermativa. Per questo parlavo di un maggior tasso di luminosità: perché, anche se questo passa attraverso la spoliazione o il disamore o lo spossessamento di sé, questo è visto anche come accadimento di qualcosa (come in Tutto accade ovunque) e l’affermarsi delle cose nel loro negarsi ha a che fare proprio con questo. Affermazione non nel senso assertivo e impositivo, ma nel senso di un sentimento esistenziale.

Sempre collegandomi al processo di composizione e ordinamento della raccolta, mi è parso di comprendere che in alcuni momenti, come si legge nella nota conclusiva alla Divisione della gioia, la sua scrittura sia fluita su carta in un flusso quasi continuo, che si riflette poi sulla forma lunga del poemetto nella parte centrale del libro. Per L’indifferenza naturale le chiederei invece se e come il processo compositivo e la prospettiva di attraversamento si siano rispecchiati nella forma poetica dei testi. In rapporto a questo mi piacerebbe chiederle se ha individuato, nella composizione dell’Indifferenza, una costante genetica che la distingue da altri momenti della sua scrittura.

Senz’altro, come diceva, nella Divisione della gioia c’è questa peculiarità della parte centrale che è legata a un flusso scrittorio, in un certo senso liberato da un dispositivo ritmico e formale che mi ha consentito di scrivere in prima battuta nel giro di poche ore questa parte, che poi ho ovviamente rivisto e integrato, che però fondamentalmente nella sua sostanza rimane intatto. Mentre invece anche nella Divisione della gioia la prima e la terza parte del libro sono più composite anche in termini di temporalità. L’indifferenza naturale in questo senso ha degli elementi diversi: da un lato ci sono dei processi di differenziazione cellulare, per quanto riguarda il rapporto con la Divisione della gioia, perché la prima parte e la terza parte della Divisione cantieri e delta – hanno evidentemente delle affinità per lo meno paesaggistiche con l’Indifferenza naturale. Appartengono a degli strati la cui aggregazione originaria è fortemente magnetizzata da un paesaggio. Però nel tempo c’è stata questa differenziazione cellulare nell’Indifferenza naturale, che ha portato all’autonomizzazione e all’aggregazione con altri testi che non risalgono solo a questo periodo. Quindi qui non c’è un flusso continuo, ma piuttosto ci sono diverse fasi di assestamento tettonico, di materiali che si spostano sopra e sotto e da un libro all’altro, che trovano poi un loro assestamento. E qua in un certo modo è vero che la progettualità tematica gioca un ruolo importante: è un certo tipo di focus che diventa l’attrattore di una definizione dell’insieme. Ciò che nell’Indifferenza naturale crea costellazione è fondamentalmente l’elemento attivo del paesaggio, mentre nella Divisione della gioia è la vicenda amorosa, anche se questa è immersa nel paesaggio. Quindi è stato soprattutto e proprio il tema enunciato dal titolo, l’elemento della natura, che ha portato alla costruzione del testo. In realtà quando ho scritto le poesie dell’Indifferenza naturale non avevo in mente di scrivere un libro di poesie della natura: le ho scritte singolarmente, non pensando a questo progetto, che è un progetto a posteriori, che cerca il legame tra un insieme di testi che nascono in periodi differenti. L’indifferenza naturale contiene anche poesie molto successive; il principio aggregatore nella scrittura e nella scelta di poesie di altre epoche è stato quindi principalmente tematico. Anche il principio formale è stato però decisivo: come L’indifferenza naturale e Teoria delle rotonde, che hanno punti di contatto molto forti, si distinguono? Perché c’è stata una scelta, specie nel caso dell’Indifferenza naturale, di definire un percorso che lavorasse più all’interno di certe forme che di altre. Questo perché mi interessava molto l’elemento della metamorfosi delle forme, anche di quelle più tradizionali e dei loro processi compositivi: come se ci potesse essere una loro reviviscenza, un loro Nachleben in senso warburghiano, un loro ritornare come figure di movimento che anche in questo intreccio tra natura e storia si ridefiniscono. Questo è stato importante per me anche nel capire cosa doveva confluire nel libro: non solo l’aspetto tematico ma anche l’aspetto formale e quello della forma dinamica. Mi interessava molto creare una dinamica delle forme, che mi ha fatto comprendere come questi testi appartenessero a questo tipo di discorso.

La metamorfosi del metro e delle forme si percepisce molto bene, lasciando nei testi una traccia della forma metrica, talvolta più evidente come emerge dagli haiku di Campi d’acqua.

Sì, molto spesso nella mia riflessione sulle forme e sul metro gioca un forte ruolo l’idea che si tratti di immagini metriche, più che di un lavoro sulla norma del metro. E quindi che ci sia questo ritorno e sia un ritorno per esempio dell’immagine del sonetto, dell’immagine della terzina, non tanto del dispositivo nel senso di costituito da un insieme di norma. Questa dimensione figurale del metro è qualcosa che effettivamente nell’Indifferenza naturale è molto presente, molto di più che in Biometrie, un altro libro il cui titolo alludeva al rapporto tra stile e forma: bios, biologia e forma. Però qui c’è probabilmente un ulteriore livello.

La silloge già edita nel 2010 per il X Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea Luce d’ailanto ha un’importanza centrale nella raccolta, facendo emergere gli ailanti nella loro centralità. Come osservava Maria Grazia Calandrone, la pervasività di queste piante vagabonde, infestanti ed erratiche sembra rispecchiare la pervasività dello sguardo poetico e l’aspetto non consolatorio né idillico della sua poesia. A quando risale dunque l’inizio del suo rapporto con la poesia e la sua attrazione per queste piante e per gli spazi residuali e interstiziali?

Siamo negli anni tra il 2003 e 2004, in cui mi accorgo dell’esistenza degli ailanti. In realtà all’epoca non avevo alcuna familiarità con il discorso sugli spazi interstiziali, sulle zone di passaggio, sul terzo paesaggio; questo è un discorso che ho capito solo a posteriori avere a che fare con ciò che stavo facendo. Nasce appunto da un lato dalla scoperta che c’era qualche cosa che vedevo e per cui non avevo un nome, perché non sapevo di cosa si trattasse, e di una immagine che mi interrogava. Quindi ciò che ho iniziato a fare è stato fare delle foto e costruire un archivio di fotografie, di foto di ailanti in varie situazioni e in vari paesaggi, non solo italiani ma anche europei. Quindi c’è in un certo senso un elemento quasi documentario legato a questo, che verrà fuori maggiormente nella Teoria delle rotonde, e nello stesso tempo fortemente figurale di un’immagine che mi interrogava. Gli ailanti compaiono in diversi miei testi, ma lo fanno in forme diverse e nel tempo continuano a ritornare. Quando ho scritto Teoria delle rotonde non avevo pensato alla connessione tra gli ailanti e le rotonde; mi avevano chiesto di scrivere qualcosa per “Alfabeta2” e poi non so bene perché ho scelto di scrivere sulle rotonde. Ho poi capito, quando avevo già scritto l’Indifferenza naturale e stavo lavorando sul progetto di Teoria delle rotonde, che anche le rotonde, come gli ailanti, avevano a che fare con la questione degli spazi residuali. Perché gli ailanti, le rotonde, i camminatori sono figure da un lato dell’erranza, del vagabondaggio e dell’elemento infestante e insieme, proprio in questo, hanno a che fare con quel tipo di ibridazione tra natura e storia, tra artificio e spontaneità che torna a vari livelli. Sono figure della poesia? È vero che in una certa misura a un certo punto mi sono identificato in questi ailanti, o altri mi hanno identificato con loro; questa insistenza sul dare nome alle cose senza nome e mettere figure all’esperienza può contenere un elemento metapoetico circa il tipo di atto espressivo nel manifestare l’individualità delle cose attraverso il linguaggio poetico. Devo dire che all’inizio io ero semplicemente interessato agli ailanti senza capire bene perché, piante che ho scoperto in quello stesso paesaggio in cui ho scoperto le barene, le lagune e poi anche nel paesaggio emiliano; ma poi credo anche che connettano due elementi: da un lato gli ailanti come figure allegoriche di intendere la poesia – quello del dire l’individualità delle cose – e dall’altro quello dell’esperienza destrutturata, cioè dello sguardo e dell’esperienza poetica come elemento di discontinuità e di destrutturazione, di porosità e di proliferazione, anche incontrollata, possibile portatrice di novità, di cui gli ailanti sono un’immagine.

Questo si connette anche alla natura duale degli ailanti, che sono dette «piante del cielo», ma che generano anche ossessioni negli autoctoni, restituendo un senso di dualità tra la loro bellezza e la loro pervasività che spesso porta la mano umana a debellarli. Allo stesso modo non sempre si è accolti dalla poesia, ma talvolta se ne è respinti.

Certo, nella poesia c’è un elemento di ostilità e di respingimento; non semplicemente perché la poesia contemporanea si è fatta estremamente difficile e chiusa su sé stessa, ma perché non è semplicemente fatta di sentimenti accoglienti. Devo anche dire che il riflesso della luce e del negativo di cui parlavamo prima si condensa anche negli ailanti: “luce d’ailanto”, “albero del paradiso”, ma nello stesso tempo pianta infestante che cela questo riflettersi della luminosità e del negativo, di una negatività che è insieme luminosa. Anche a livello di genesi dell’opera questo libro si è chiamato a lungo Luce d’ailanto, perché il titolo della silloge Marcos y Marcos è stato un altro degli elementi che hanno orientato la formazione del libro. Per lungo tempo, infatti, il libro nella mia mente si chiamava Luce d’ailanto e in un certo senso ha ancora un doppio titolo: L’indifferenza naturale ma anche Luce d’ailanto; questo dovrebbe gettare luce sulla questione dell’indifferenza. La dualità di cui diceva è anche l’ambivalenza di questi titoli: come la luce d’ailanto è insieme negativa ma luminosa, così l’indifferenza naturale è insieme il negativo ma anche lo specchio.

Questa dualità si trova proprio nella parola “indifferenza” che da un lato ricorda la visione leopardiana della natura matrigna e indifferente alle sorti umane, dall’altra in senso etimologico rimanda a una porosità e a un continuo ridisegnare i confini ontologici tra umano e non umano. Sempre in un dialogo con Maria Grazia Calandrone, ha parlato del suo rapporto con Antonio Porta, maestro in assenza che non ha mai potuto incontrare a causa della morte del poeta nel 1989. L’airone del Giardiniere contro il becchino di Porta fa capolino più volte nei suoi versi, anche nell’Indifferenza naturale in film: «l’ombra era solo per l’airone». Cosa della poetica di Porta sente di aver assorbito ed ereditato maggiormente nei suoi versi?

Sì, ci sono effettivamente alcune cose che nella mia poesia sono legate ad una appropriazione e a un ripensamento di elementi che riguardano un rapporto giovanile con la poesia di Porta. Antonio Porta è un autore che ho letto da adolescente, al liceo. È il Porta che ho letto al liceo che mi ha maggiormente colpito: dopo l’ho riletto ma non più con quel tipo di atteggiamento. Da un lato c’è la dimensione delle “invasioni”, che credo sia un aspetto che emerge nell’ultimo Porta: questa sua predisposizione ad accettare l’invasione e un certo tipo di flusso. Dall’altro lato c’è un certo tipo di abitudine costruttiva: il Porta che ho letto dapprima e a cui ho fatto qualche omaggio nei miei primi libri è quello di Come se fosse un ritmo, o meglio della raccolta Cara, dove la cosa che mi ha interessato è l’elemento della forza generativa del ritmo e della costruzione di dispositivi post-tradizionali per quanto riguarda la generatività della forma. Questo è qualcosa di potente nel giovane Porta: la generatività del ritmo, il dispositivo poetico nella sua ricorsività. L’altro libro che è stato per me importante, forse più a livello esistenziale e tematico, è Il giardiniere contro il becchino, che ho letto in presa diretta, non a posteriori (era stato scritto proprio in quegli anni ed era un libro che avevo casualmente incontrato in libreria, o di cui avevo letto qualcosa su «Poesia») e che da adolescente in un certo senso mi ha molto colpito. Mi ha molto colpito forse anche proprio per questa idea vitale del giardino, del lavoro, della cura. E quindi mi ha portato a vedere la poesia in un modo più inaugurale di quanto non avvertissi prima. È come se in un certo senso, quando ho letto Il giardiniere contro il becchino, io sia stato capace di accettare quello che ero, di vederlo non solo come una maledizione. Credo ci sia, nella socializzazione di coloro che a un certo punto credono di avere una vocazione poetica, una sorta di odio di sé stessi per molte ragioni; e quindi questo odio della poesia in me, o di me stesso nella poesia, e questo disagio che avvertivo l’ho visto con una attitudine diversa e mi sono sentito più capace di accettare questa cosa e di vedere le sue possibilità. Per questo motivo per me è stato importante questo libro, che ricordo come evento esistenziale. La questione dell’airone in realtà è meno legata a Porta – certo, l’Airone è il poemetto di Porta – però questi aironi ci sono perché io mi trovavo quotidianamente a contatto con gli aironi, perché lavoravo in quelle zone e passavo in un ambiente punteggiato da questo tipo di presenze naturali. Non nasce quindi dall’idea di omaggiare Porta, ma qui è il paesaggio che si impone. C’è però sicuramente un inconscio poetico che agisce anche non per mediazione diretta: non si tratta semplicemente di aver letto quell’autore. La poesia è anche un modo, laddove riesce, per liberarci da questa forma pregiudizievole dello sguardo, non dico per purificarlo, ma per aprirlo. Perché molto spesso non vediamo veramente, abbiamo già visto; non osserviamo, abbiamo un disagio e una difficoltà nel guardare veramente il mondo e in alcuni momenti c’è quella sensazione di felicità e si ha come l’impressione, anche dopo aver letto un testo, che lì c’era qualcosa che ci portava al di là del nostro velo, della nostra quotidiana cecità. Ed è un avvenimento che non ha semplicemente una natura epifanica, ma che ha a che fare con la costruzione dello sguardo, un tipo di formazione e apprendimento a “pulire” lo sguardo, la nostra sensibilità verso le cose, a renderci più ricettivi, più esposti e più capaci di assorbire passivamente quello che ci è dato, attraverso la costruzione.

Gli spazi interstiziali e residuali del terzo paesaggio fanno da sfondo sia alla Divisione della gioia che all’Indifferenza naturale, ma nella seconda raccolta il racconto della zona lagunare tra Marghera e Chioggia va oltre e questi luoghi si trasformano e prendono vita. Questo andare oltre e sconfinare nelle pieghe di un paesaggio che non è più sfondo ma attante, si potrebbe collegare anche con un passaggio di stato del racconto d’amore? Per essere più precisi, mi è parso che nella Divisione la vicenda amorosa emergesse dal paesaggio, mentre nell’Indifferenza l’io sembra protendersi verso un tu femminile, ma anche verso il paesaggio stesso, con una tensione erotica verso la natura che ricorda Yves Bonnefoy.

Nella Divisione della gioia l’amore è nel paesaggio, è una figura del paesaggio stesso. I personaggi sono come dei cursori del paesaggio stesso da cui emergono; c’è questo elemento peculiare per cui sono personaggi senza una biografia, senza una identità psichica: non è l’amore nel paesaggio come qualcosa di psichico, non hanno una soggettività forte e psicologica o una biografia vera e propria e questo ne fa anche delle finzioni del paesaggio. Nell’Indifferenza naturale il paesaggio è attivo ma è il soggetto in una certa misura; anche nell’Indifferenza naturale c’è un io, qualcuno che guarda e che si protende verso altri; però è vero che l’elemento dell’eros, della tensione amorosa, continua ad essere presente ma qui è più policentrico e dunque meno antropologico. Inoltre, anche se quella della Divisione della gioia è una storia senza narrazione, nell’Indifferenza naturale non c’è una storia ad organizzare il discorso, perché le storie possibili che emergevano dal paesaggio nella Divisione della gioia danno forma alla raccolta. Nell’Indifferenza naturale è il paesaggio stesso nella sua spazialità a sprigionare questa latenza erotica e d’altra parte questa latenza erotica, come dice lei, non riguarda soltanto l’io, un tu o un’altra figura umana o femminile, ma si disperde e si sprigiona anche ad un altro livello. In questo senso è vero che il paesaggio – o gli elementi della natura – è qua più un attante agenziale. C’è anche l’emergere di questa dimensione erotica del fondo naturale: aldilà della questione antropologica credo che quel tipo di tensione segni un’appartenenza alla dimensione anche animale del desiderio erotico; anche l’impulso che si dà nel rapporto umano ha una radice che ci dice molto di una nostra appartenenza, che non è soltanto umana. In questo senso è vero che la questione dell’eros, come tensione e amore, non è tanto oggettivata, ma si dà essa stessa in una forma maggiormente naturalizzata. Mentre nella Divisione della gioia il focus era un amore senza amore, in senso psicologico, nell’Indifferenza naturale il fatto che le vicende amorose non siano tracciate ma siano disperse disloca questa dimensione emozionale, perché c’è una emozionalità che non è solo interpersonale. È maggiormente incorporata, in un certo senso, come se fosse estesa nel paesaggio, come se ci fosse anche una estensione maggiore della dimensione emotiva, supportata da ciò che sta fuori.

Collegandoci alla dislocazione dell’eros nella raccolta, sempre osservando il suo ruolo nel libro, mi è parso di poter individuare le sinopie di un movimento macrostrutturale della tradizione: dalla Vita nova dantesca, alle Rime del Petrarca. L’io infatti sembra attraversare un paesaggio che lo trasforma, fino ad arrivare alle sezioni gloria e i gelsi, bancali e la preda, in cui emerge un ritmo diverso, come un inseguimento tra i rami, una fuga d’amore che conduce infine, in salti del diavolo, alla perdita dell’oggetto del desiderio. È come se l’io, dopo una fase erotica, abbia in qualche modo raggiunto la sua più grande metamorfosi e nel disamore si esponga completamente al mutare delle cose. Le chiedo dunque se questa lettura possa essere coerente ai criteri di sistemazione della raccolta.

Ho già accennato in precedenza come ci sia questa dispersione dell’eros e come quel momento finale, l’ultima sezione – che lega il disamore alla impermanenza – abbia a che fare con una metamorfosi del sé, un processo di cambiamento e anche di ricreazione del sé, legata all’esposizione all’impermanenza. Non è credo casuale quindi che l’ultima sezione includa l’impermanenza, il filo che si perde e chi ha scoperto il disamore. Non avevo in mente la Vita nova dantesca quando ho dato forma all’ordine delle sezioni della raccolta, ma questi sono sicuramente degli inconsci poetici profondi. Per me la Vita nova è stato un libro particolarmente importante quando ero ragazzo, l’ho letto quando avevo quindici anni e mi aveva molto colpito. Forse insieme al Giardiniere contro il becchino l’altro libro che mi ha formato è La vita nova; sicuramente è un libro che non ho mai più studiato, ma quella lettura che avevo fatto all’epoca è stata per me rivelatoria. Non so risponderle se c’è una mimesi dello schema che ritorna nell’Indifferenza naturale, ma dalla tradizione della poesia delle origini e del Dolce Stil Novo, la Vita nova è senz’altro – più delle Rime del Petrarca – un libro che per me ha avuto un significato molto importante nella mia fase adolescenziale, che è quella in cui si è formato il mio gusto per la poesia e che è anche quella in cui ho più attinto alla tradizione.

“Indifferenza” è un termine centrale, che subito sembra rimandare al tema leopardiano della natura matrigna e indifferente alle sorti umane, acuendo il senso di estraneità che provaniamo rispetto a ciò che non consideriamo umano; ma d’altra parte, etimologicamente rimanda all’impossibilità di distinguere nettamente i confini tra umano e non umano, nella raccolta continuamente ridisegnati. È da qui che vorrei chiederle come questa grande tematica poetologica si sia riversata nelle maglie del testo, innanzitutto dal punto di vista linguistico e retorico.

La questione dell’indifferenza torna varie volte nei miei testi e nei miei libri: negli Aspri inganni come indifferenza delle cose, nella Divisione della gioia come «indifferenza naturale», verso che è già contenuto qui, fino a dare il titolo a questa raccolta. Perché ho deciso di dare questo titolo? Perché a un certo punto ho capito che questo titolo rivelava una dimensione di complessità del testo, perché consentiva un’escursione in questa polisemia dell’indifferenza, legata anche allo sviluppo stesso della mia poesia. Se appunto, prima facie, “indifferenza naturale” sembra rinviare e rinvia nella nostra memoria al tema leopardiano della natura matrigna e alla sua indifferenza ai nostri scopi, c’è anche poi un’altra accezione cioè quella dell’indifferenza delle cose, tema dell’Ecclesiaste, quello baudelairiano e quello scettico della diaforia, elemento centrale nella mia formazione, che ha a che fare con l’idea della sospensione del giudizio rispetto all’indiscernibilità delle cose. È un titolo che avvertivo come polisemico e che, andando su una vasta gamma, permetteva un’escursione su queste diverse mie stesse prese sul tema dell’indifferenza, per arrivare a quello che è probabilmente la dimensione più orientante. Perché c’è un movimento per cui quella che è l’indifferenza del Leopardi della natura matrigna, con il suo sentimento di ostilità e violenza anche rispetto a noi, si rivela anche come qualche cosa d’altro: questa non distinzione e indeterminazione o anche porosità, passaggio, transizione e oscillazione tra natura e storia, artificio e spontaneità. Mi sono poi reso conto che, sebbene guardiamo a Leopardi in quell’ottica della natura matrigna, nella poesia leopardiana la natura è insieme anche la ginestra: in un certo senso è anche quindi la pianta pioniera, che può essere riletta come una figura della possibile non-distinzione tra natura e storia, una forma dell’invenzione del possibile. C’è quindi anche un modo di riguardare alla tradizione.

L’altro aspetto, che riguarda la questione dell’indifferenza e la scelta poi di questo titolo per il libro, concerne la volontà di dire esplicitamente che questo libro aveva a che fare con quella che possiamo chiamare “poesia della natura” o Naturlyrik. Oggi forse le cose sono un po’ cambiate, ma quando lo scrivevo per molto tempo c’è stata la percezione – forse più nella critica che nella poesia – che la poesia della natura fosse come una strada sbarrata, cioè che tentare questa operazione comportasse di per sé un atteggiamento nostalgico, regressivo o idilliaco e che non fosse qualcosa che parlasse del presente. Era come se ci fosse un vettore nella modernità per cui in un certo senso il discorso sulla natura appartenesse necessariamente al passato e non avesse a che fare con l’attualità e con ciò che stiamo diventando. Ho riflettuto di recente sulla Poesia ingenua e sentimentale di Schiller, dove parla dei poeti come conservatori della natura e soprattutto dove scrive la sua sentenza celebre: i poeti o sono natura, o lo saranno. Credo che questo secondo aspetto, per cui i poeti saranno natura, sia stato poco pensato, perché in genere la forbice poesia ingenua/poesia sentimentale è stata letta soprattutto sottendendo che una poesia che aveva a che fare con la natura era una poesia ingenua. Mentre il discorso di Schiller riguarda una questione che a mio avviso rimane ancora aperta nella modernità, perché è la questione della natura in trasformazione e della nostra trasformazione della natura, che si è in un certo senso riaperta nel presente, anche per una pressione esterna alla poesia stessa: la crisi ecologica e tutto quello che sappiamo anche sulla crisi sanitaria. Ha cioè fortemente riorientato la nostra visione; fino a poco tempo fa nessuno parlava più della poesia della natura, che sembrava un argomento obsoleto, sebbene ci fossero poeti che continuavano a farlo. C’era però una percezione che nella Naturlyrik ci fosse un aspetto regressivo. Mentre invece mi sembra che quel «Sarà (stata) natura?» di cui parla Zanzotto, sia invece qualcosa di profondamente contemporaneo anche rispetto alla poesia stessa. Questo è per rispondere alla domanda da un punto di vista tematico e ideologico e degli aspetti concettuali del titolo e di come si leghino a una possibile idea di poesia per cui la questione della natura continua ad essere centrale nella definizione della poesia.

Come questa cosa torna nella scrittura? È vero che ci sono nell’Indifferenza naturale diversi testi, per esempio limonio, in cui sono presenti delle descrizioni di attribuzione indeterminata: non si tratta di una vaghezza a livello della descrizione, che per certi versi è piuttosto nitida e chiara, ma c’è una sorta di vibrazione e oscillazione per cui rimane indefinito a chi debba essere attribuita questa descrizione, se ad animali, a elementi umani… Questo è probabilmente uno dei procedimenti retorico-linguistici in cui l’indifferenza si riversa nel testo: questa oscillazione e brillio della descrizione nella sua attribuzione crea una vaghezza che è a livello dell’attribuzione e non a livello semantico o del contenuto, credo. Questo ha a che fare con il tema dell’indifferenza naturale e con il modo in cui questa si traduce in certe procedure di scrittura e di osservazione.

Sempre per collegarmi a questo, ha detto poco fa che la zona in cui più le capita di intervenire e tornare sul testo è quella che riguarda l’interpunzione. Il mancato utilizzo delle maiuscole dopo le pause forti fa sistema nelle sue raccolte poetiche e addentrandomi nel suo lavoro mi è subito parso che questa scelta possa essere legata a un modo di concepire la poesia, come una ridefinizione e rimodulazione di sguardi e visioni. L’assenza delle maiuscole può collegarsi alla volontà di non accettare la fissità dei confini, creando quindi una sorta di “indifferenza interpuntiva”?

È vero che in molti miei libri c’è questo mancato uso della maiuscola, anche se non in tutti – come in Onda statica in cui viene consistentemente usata e in diversi testi di Biometrie – perché c’è una geometria variabile: è un uso pragmatico quello che faccio della maiuscola e della minuscola. Credo che abbia ragione lei a dire che in qualche modo in questi testi io voglia evitare l’uso lapidario della maiuscola, quei casi in cui la maiuscola non è più una soglia ma una barriera. C’è anche una questione grafica, ma soprattutto ho pensato che questo possa avere a che fare con un altro aspetto; questi miei testi in particolare, cioè La divisione della gioia e L’indifferenza naturale, sono molto marcati dal punto di vista interpuntivo; c’è una gamma interpuntiva piuttosto vasta (virgole, punti e virgola, due punti…) e anche nel processo di riscrittura, come dicevo, questa è una delle cose su cui mi capita di intervenire e reintervenire continuamente. Avevo come la percezione che in certi casi l’uso della maiuscola potesse produrre una ulteriore iperdeterminazione sui testi, un effetto di fissazione. Mentre invece in un certo senso il non uso della maiuscola dovrebbe anche far avvertire il sistema interpuntivo come un elemento dinamico. È quindi anche un’operazione di tipo contrastivo a un forte uso espressivo dell’interpunzione, come se questa avesse bisogno di un pendant e uno di questi pendant fosse proprio l’abolizione della maiuscola; sia per, come diceva lei, tenere maggiormente aperta la soglia tra una frase e l’altra, sia per bilanciare l’iperpunzionismo in questi testi, che è una mia tendenza verso la quale sono fortemente spinto e verso la quale alle volte devo resistere. E una delle forme di questa resistenza interviene anche a livello grafico-visuale: mi interessa molto come la maiuscola in alcuni casi produca più soluzione di continuità e mi interessava smussare questo aspetto.

L’indifferenza naturale è una raccolta di metamorfosi, passaggi e interzone. Oltre all’interzona del terzo paesaggio e degli spazi residuali, è presente l’interzona identitaria di un io che a tratti è parte e a tratti preda del paesaggio. Mi è parso però che esista una terza interzona che riguarda l’aspetto temporale. In una dimensione sospesa infatti, la poesia dell’Indifferenza naturale parla sia al passato – con le stratificazioni geologiche e le scene della Resistenza nella sezione cori – che al futuro, come si intuisce dal suo articolo Autorizzare la speranza. Poesia e futuro radicale. Crede che la poesia possa essere, nelle parole di Serenella Iovino, una strategia di sopravvivenza per il presente e il futuro umano?

L’idea dell’interzona temporale mi sembra molto calzante, perché da un lato questa stratificazione è anche una stratificazione di tempi: di lunghissima durata del tempo geologico o anche di tempi di breve decorso. Questo tipo di legame alla temporalità, per tornare a quello che dicevo sulla poesia che è natura o sarà natura, credo sia qualcosa che leghi passato e futuro. Mi interessava anche come in questa indistinzione ci potesse essere un aspetto di tipo anticipatorio. Da questo punto di vista credo che più che con la resistenza, la poesia possa avere a che fare con una dimensione prefigurativa e che quindi la sua escursione su una temporalità possibile possa avere a che fare con questa oscillazione tra passato e futuro, o anche farsi specchio del futuro, per usare un’immagine di Shelley in Defence of poetry quando parla degli specchi giganteschi del futuro. È una cosa su cui in parte ho riflettuto senz’altro in quell’articolo che ha citato, che farà da introduzione a un libro di saggi sulla poesia e di poetica che uscirà ad aprile, dove ho rifuso vari materiali e che si intitolerà appunto Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, dove la questione che lei chiama “interzona temporale” è cruciale, rispetto a questa idea dell’immaginazione poetica e dell’immaginazione della natura. Il punto dell’Indifferenza naturale è anche relativo a questa natura in trasformazione, al modo in cui noi possiamo pensarci o sentirci dentro questo e come questa tensione all’ignoto si manifesti in tale dimensione. L’interzona non riguarda quindi soltanto da un lato un io che non è semplicemente separato ma emerge dal paesaggio e dagli altri, ma riguarda anche le dimensioni della pluralità: riguarda quindi un certo tipo di relazione tra futuro e passato e anche di possibilità inevasa.

Anche nella poesia nel clamore mi è parso che emerga uno sguardo al futuro che si concentra nel verso «preparare la lingua al sentiero dei morti».

Sì, prima parlavamo di Cori, sezione delle poesie sulla storia e sulle tracce della storia nel paesaggio, che si legano a questo concetto delle possibilità inevase.

Un’ultima domanda si lega invece al dialogo che la sua poesia intrattiene con altre forme d’arte, visive e musicali. Se in Tutto accade ovunque fa da epigrafe una fotografia di Gordon Matta-Clark e nella Divisione della gioia dialoga sia con Edward Hopper che con le atmosfere dei Joy Division, quale opera dell’arte visiva connetterebbe all’Indifferenza naturale? Data la sua attività come resident DJ del lit-blog «Le parole e le cose», mi piacerebbe chiederle infine se dietro alle maglie del testo vi sia una influenza musicale che le piacerebbe citare anche per L’indifferenza naturale.

Il dialogo con varie forme d’arte, visive e musicali, è qualcosa che attraversa tutti i miei libri, e anche se meno esplicitamente – nel senso che altrove ho anche citato direttamente o ho utilizzato delle fonti dirette – è presente anche nell’Indifferenza naturale. Questo non è segnalato, ma è più qualcosa di background. Quando ci ho pensato, per quanto riguarda l’aspetto musicale, in senso di qualcosa che ho ascoltato o ascolterei, ho pensato a una serie di rock strumentale; non saprei dare una spiegazione ma ho pensato a un gruppo come gli “Explosions in the Sky” con l’album The Earth Is Not a Cold Dead Place, composto da un insieme di paesaggi sonori e perturbati. Qui c’è una correlazione di paesaggio perturbato e paesaggio sonoro, che è un po’ uno dei Leitmotive dell’Indifferenza naturale o anche della Teoria delle rotonde. Mi sembra che ci siano degli elementi di vibrazione, di modulazione del suono nelle opere di gruppi come gli “Explosions in the Sky”, in cui sento una prossimità con questo libro. Probabilmente non è un caso che io abbia pensato a degli album strumentali, in cui non c’è la voce (c’è il voicing, effetti di voce): l’Indifferenza naturale non è un libro parlato, non è un libro cantato in cui si sente risuonare la voce usata come strumento. Nella Divisione della gioia anche se l’io non parla è come se fosse presente la voce. Nell’Indifferenza naturale c’è più una sorta di sordina, un silenzio di fondo, oppure una vocalità che emerge dal fruscio come interferenza sonora, interferenza che è centrale in certe opere del post rock. Un’altra cosa che ho ascoltato a posteriori, di un’autrice a me cara che invece lavora con la voce, è la musica di Meredith Monk, anche se non è un qualcosa che ascoltavo mentre scrivevo il libro. Per quanto riguarda invece l’arte visiva mi è un po’ difficile distinguere il discorso tra L’indifferenza naturale e Teoria delle rotonde, perché è vero che alcune riflessioni che possa aver fatto a questo proposito non mi è chiaro se nascano più da questo o dall’altro libro. Già in Teoria delle rotonde, comunque, ci sono diversi ailanti raffigurati; la prima cosa che però mi viene da pensare, a parte Ghirri con l’idea del paesaggio come zona di passaggio, è un altro autore che ho già citato altre volte: Robert Smithson. Devo dire che nei suoi Art Project e nella sua Land art, la cosa che mi è servita maggiormente per capire cosa avevo fatto – non c’è una influenza diretta di Smithson su questo progetto, ma lavorando e scrivendo su Smithson ho trovato delle chiavi d’accesso – è questa tematica, presente anche nei suoi saggi in particolar modo in A Sedimentation of the Mind: Earth Projects, della erosione reciproca tra mente e paesaggio. Questa idea della erosione reciproca e di dialettica, che lui chiama «stato costante di erosione in cui mente e materia infinitamente si confondono», è qualcosa che emerge in alcuni momenti dell’Indifferenza naturale, specialmente nel testo incipitario, come qualcosa di legato alla condizione dell’indifferenza. Ho scoperto che Smithson scriveva che «l’indifferenza ha possibilità artistiche» e in questo senso l’indifferenza è legata a quel processo di “dedifferenziazione oceanica” di cui parla, che riguarda il rapporto tra paesaggio e umano. Ciò che mi interessa in questo senso di Smithson è come questi processi di dedifferenziazione abbiano a che fare con una sorta di riconfigurazione produttiva. Cioè di come riconfigurino anche la nostra vocalità di dire le cose. Credo che questo abbia a che fare con la possibilità della poesia. In questo senso darei questi riferimenti ma non nel senso, diversamente da come accadeva nella Divisione della gioia, che ci sia una descrizione nell’Indifferenza naturale di opere di Smithson o che io durante la stesura pensassi a Smithson, ma che da un lato per la musica è un tipo di analogia che mi veniva abbastanza spontaneo fare, e dall’altro per quanto riguarda Smithson è qualcosa che ho iniziato ad utilizzare – specialmente per la dimensione teorica – per pensare le cose che implicitamente potrebbero essere emerse dall’Indifferenza naturale. Poi c’è un mio progetto successivo che ha a che fare esplicitamente con Smithson e con una sua opera che si chiama Hotel Palenque; non riguarda l’Indifferenza naturale ma possiamo dire essere quasi una sua trasmutazione in altro.

L’associazione con il post rock strumentale credo sia particolarmente significativa e calzante, perché – come afferma Tommaso Di Dio in un articolo sull’Indifferenza naturale – la voce dell’io poetico nella raccolta sembra talvolta emergere e talvolta nascondersi dal fondo naturale e minerale del paesaggio.

Sicuramente la vocalità dell’Indifferenza naturale è policentrica, non viene da un punto centripeto perché è parte essa stessa di questo paesaggio; infatti non vede la concentrazione della poesia lirica che ha un unico magnete che aggrega tutto. Nello stesso tempo per me è senz’altro un’esigenza ritenere che se vogliamo fare poesia dobbiamo dare conto di una presa soggettiva, che si trasformi, non si dissolva ma che sia qualcosa di cui è punteggiato il paesaggio, piuttosto che sia qualcosa che sta dietro il paesaggio. Per questo mi interessa anche rendere le trasformazioni della soggettività; tutta la questione sulla dimensione oggettiva e sui procedimenti oggettivanti, che è presente sicuramente nella Teoria delle rotonde, ha a che fare non con l’idea della morte dell’io e della morte del soggetto, ma piuttosto con il fatto che in realtà se vogliamo afferrare le trasformazioni del presente, dobbiamo comprendere le ridislocazioni del soggetto umano e come questo si reinventa.

Questo discorso credo sia coerente anche con l’idea di postumano non come la narrazione della fine della specie umana, ma come una ridefinizione delle modalità umane di abitare gli spazi.

Esatto, questo per me è molto importante: c’è un elemento postumano nell’Indifferenza naturale o nei Camminatori, però non nel senso della morte del soggetto, ma nel senso di chiedersi cosa sia l’umano dopo che arriviamo a comprenderci diversamente o a percepire diversamente la nostra posizione nel mondo: come evolvere verso qualcosa di altro?

Questo è forse ciò che per Leopardi faceva la ginestra e che per lei mostrano gli ailanti: prefigurano in un certo senso nuovi modi di abitare gli spazi in quanto umani di fronte a un presente metamorfico.

Sì, quello che dicevo prima sulla ginestra ha questo senso; forse possiamo riviverla così, nel senso che forse vediamo qualcosa oltre a ciò che abbiamo solitamente visto fin qui in questo; per cui sì, semplicemente nel senso della solidarietà umana nella lettura tradizionale leopardiana, intuiamo un senso di solidarietà, di reinvenzione dell’umano e di convivenza. È quindi qualcosa che ha a che fare col fatto che la natura non è semplicemente natura matrigna ma ha una gamma di possibilità.


Greta Giorgia Palmazio, laureata prima in Lettere Moderne e poi in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Pavia, oggi frequenta il Master in Editoria a Milano, in collaborazione con Associazione Italiana Editori e Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori.

Italo Testa esordisce come poeta nel 2004 con il poemetto Gli aspri inganni (LietoColle, Faloppio 2004). A questa raccolta seguono le sue Biometrie (Manni, 2005). Nel 2007 esce poi la raccolta Canti ostili per l’editore Lietocolle; si arriva così al 2010, anno centrale per la produzione poetica di Testa, che vede la pubblicazione della Divisione della Gioia (Transeuropa) – appena riedita, in una versione ampliata per Industria e Letteratura – e poi, nel “X Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea” edito da Marcos y Marcos la sua silloge Luce d’ailanto, che confluirà in seguito nell’Indifferenza naturale, uscita presso il medesimo editore nel 2018. Sempre nel 2010 esce il poemetto Non ero io, che diverrà sezione finale della raccolta Tutto accade ovunque, pubblicata dall’editore Aragno nel 2016. Quest’ultima è preceduta dalla silloge I Camminatori, vincitrice del Premio Ciampi 2013 e stampata nello stesso anno da Valigie Rosse, frutto della collaborazione con il fotografo Riccardo Bargellini. Si giunge nel 2020 alla sua Teoria delle rotonde. Paesaggi e prose (Valigie Rosse), un interessante esperimento letterario che coniuga poesia, prosa e fotografia. Tra le sue opere più recenti figurano il libro-poemetto Quattro, un progetto parallelo nella collana “Croma K” delle edizioni Oèdipus (2021), e Onda statica – Tre atti unici (Zacinto, 2022). Oltre alla sua produzione poetica, è fondamentale citare il grande contributo di Testa in ambito filosofico e saggistico, con scritti come la monografia La natura del riconoscimento. Riconoscimento naturale e ontologia sociale in Hegel (1801-1806), la curatela di Habits: pragmatist approaches from cognitive science, neuroscience, and social theory e la più recente raccolta di saggi Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, edito da Interlinea.