Nell’agosto dello scorso anno, Luiss University Press ha opportunamente ripubblicato la traduzione in italiano del saggio del 1985 del sociologo e teorico dei media americano Neil Postman (1931-2003), dal titolo Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (Prefazione di Matteo Bittanti).

Quaranta anni fa, all’epoca dell’uscita per Viking (Penguin Random House) di Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business, Postman faceva sedere la televisione al banco degli imputati della critica dei media. Questo non significa che rileggere il suo lavoro oggi equivalga a una mera operazione archeologica sui mezzi della comunicazione. Divertirsi da morire, infatti, ci fornisce obliquamente delle indicazioni anche circa quel che sta accadendo nella nostra contemporaneità, segnata dal predominio dei social media, dei relativi codici comunicativi, e dei poteri economici che li alimentano (a partire da quelli di Mark Zuckerberg ed Elon Musk).

La tesi sostenuta in queste righe, ricavata da alcune riflessioni che Postman svolge su un testo di Northrop Frye (Il grande codice. Bibbia e letteratura [1981], Vita e Pensiero, 2018), è che i socialintensificano fino al parossismo una predisposizione o affordance che è propria della TV e già della parola scritta, benché in quest’ultimo caso essa sia sviluppata in misura minore.

Frye, come riporta Postman (p. 27), sostiene che «la parola scritta è molto più potente che non il semplice ricordare: essa ricrea il passato nel presente, e ci dà, non solo la cosa ricordata, ma l’intensità eccitante di un’allucinazione» (The Great Code: The Bible and Literature, Academic Press, 1981, p. 227). Se la parola scritta è meno vaga del ricordare (ovvero di quell’aspetto della memoria che per Giacomo Leopardi era invece il paradossale punto di forza della ricordanza), le tecnologie successive alla parola scritta, secondo Postman, rendono presente quel che è assente con ancora maggior potenza, riconsegnandoci l’intensità talvolta adrenalinica d’una nient’affatto vaga allucinazione –  d’un allucinare e d’un illudersi fuori controllo, non ammaestrati per bene, né governati dalla versificazione del poeta, del ‘miglior fabbro’ incaricato di forgiare il sensodal caos incomprensibile, dal balbettare sine regula

Vale la pena affidarsi all’illusoria potenza demiurgica di mezzi animati da una sempre più intensa e puntiforme – rigida, a suo modo fissa e ripetitiva – capacità allucinatoria? Postman suggerisce che la parola scritta è in realtà più interessante per gli esseri umani, e per le loro complesse facoltà immaginative e di pensiero, perché non appiattisce queste ultime sulla dimensione esclusivamente emotiva e istantanea, dis-tratta, d’una comunicazione prettamente visuale, d’un ‘linguaggio’ la cui cifra è in realtà la disconnessione, la frammentazione, la ripartita riduzione a brandelli di opinioni e fatti, significati e immagini (si pensi, ad esempio, all’affastellamento di inputvisivi su Instagram).

Occorre tuttavia sgombrare il campo da un equivoco. Quella di Postman non è una lamentazione di per sé tecnofobica, un ciceroniano oh tempora, oh mores, come invece rischiano di essere le riflessioni di Günther Anders (L’uomo è antiquato, vol. I [1956], Bollati Boringhieri, 2007) e di Giovanni Sartori (Homo Videns. Televisione e post-pensiero [1997], Laterza, 2023) – va anche ricordato incidentalmente il caso ancora diverso di Karl Popper, che appena prima di morire si è più che altro soffermato, a ragion veduta, sul danno che i contenuti violenti della TV possono arrecare ai bambini (Cattiva maestra televisione [1994], Donzelli, 1996). 

Postman non sostiene che la televisione – e per estensione la successiva tecnologia della comunicazione – sia uno strumento ideologicamente neutro nelle mani dei ‘cattivi’ di turno, né che essa sia intrinsecamente malvagia (la capacità allucinatoria della TV, d’illudere la presenza di cose, persone ed eventi, come abbiamo visto, non è negativa in sé). Secondo questi punti di vista, solo in apparenza distanti l’uno dall’altro, la funzione della TV e di chi la gestisce sarebbe quella di ridurre la disponibilità di notizie vere e distorcere la realtà dei fatti, sottoponendo la conoscenza, gli affetti e le speranze degli individui alla sorveglianza d’un Grande Fratello orwelliano in grado di decidere e amministrare dall’alto quello che vale la pena di sapere e provare sul piano emotivo (ciò in cui vale la pena credere, e anche ciò di cui vale la pena illudersi). Tuttavia, scrive Postman, «chi gestisce la televisione non limita l’accesso alle informazioni, in realtà lo amplia» (p. 146), aumentando l’indice di gradimento dello spettatore-cittadino senza sopprimerne i desideri e la libertà – o ciò che lo spettatore-cittadino, nelle nuove condizioni, considera «libertà».

Uno scenario del genere è stato preconizzato da Aldous Huxley, non da George Orwell, nel romanzo Brave New World del 1932 (Il mondo nuovo – Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, 1933). Infatti, l’utilizzo oppressivo dei mezzi di sorveglianza, a cui pensava Orwell in 1984, scritto all’indomani della fine della seconda guerra mondiale (1949), non si applica secondo Postman alla TV e alle più recenti tecnologie della comunicazione. «Orwell, in realtà», scrive Postman, «si rivolgeva a un problema dell’era della stampa» (p. 145). Egli aveva in mente i libri da bruciare della civiltà tipografica, non le immagini immateriali ed ubique dello show business, o de La Société du Spectacle di Guy Debord (1967).

Oggi, diversamente dall’epoca dei roghi dei libri, «la televisione ha dato la massima espressione [siamo nel 1985] alle inclinazioni epistemologiche del telegrafo e della fotografia, portando l’interscambio tra l’immagine e l’istantaneità a una perfezione squisita e pericolosa, fin dentro le case» (p. 88). In questo modo, secondo il sociologo americano, si sarebbe aperta la strada alla pervasività – non solo economico-commerciale, ma anche cognitiva – della «istantaneità» e «brevità di espressione» della «pubblicità», per la quale «sessanta secondi sono già troppi» (p. 137). In questo stesso modo, si sarebbe pure aperta la via alla mera «apparenza del contesto», ovvero allo «pseudo-contesto» (p. 86) delle informazioni, degli input della conoscenza (si pensi, nel 2024, agli insensati e talvolta tragici putiferi scatenati da una cosiddetta cancel culture che decontestualizza parole, frasi, pensieri).

Quei sessanti secondi, come ben sappiamo, si sono ulteriormente ridotti su Tik Tok, combinandosi – non solo nelle case, ma sugli schermi appoggiati sui palmi delle nostre mani – ai caratteri limitati di X e alle immagini diffuse e allucinate a dismisura d’un (coraggioso?) Mondo sempre più Nuovo. Il mondo di Huxley è insomma divenuto realtà nell’odierna cultura dominata dall’illimitatezza incontrollata (davvero libera?) di percezioni segmentate in unità ‘puntillistiche’ letteralmente analfabete, le quali sono in maniera sistematica quantificate e classificate, per essere estratte dalle nostre vite – da quel che vediamo e sentiamo – e vendute sottoforma di dati (Andrea Sartori, Assaliti dalle mille luci del cielo. La cultura della percezione, Quodlibet, 2023).

D’altra parte, che il dato fosse destinato a diventare la merce più ambita e la forma di conoscenza più in voga, è un’altra delle intuizioni esatte dell’autore di Amusing Ourselves to Death: «passa […] inosservata [all’epoca in cui scriveva Postman, non oggi] la tesi centrale della tecnologia dei computer, cioè che la difficoltà principale per risolvere i problemi proviene dall’insufficienza dei dati. Verrà il momento in cui ci si accorgerà che la raccolta massiccia di dati alla velocità della luce è stata utilissima alle grandi organizzazioni [corporations] ma ha recato ben poco vantaggio alla gente comune e ha creato non meno problemi di quanti ne abbia risolti» (p. 167).       

Quando Marshall McLuhan era un giovane e sconosciuto professore, negli anni Cinquanta, Postman era uno studente ed ebbe modo di incontrarlo. Già allora si profilavano i presupposti di pensiero che avrebbero portato entrambi a considerare la tecnologia qualcosa di più d’un semplice mezzo della repressione, o della materializzazione del Male, del Nulla, e di qualche altra entità spaventosa. Per McLuhan la tecnologia sarebbe diventata il messaggio; per Postman, com’è chiarito in Divertirsi da morire, essa avrebbe generato delle metafore da utilizzare per organizzare la nostra esperienza e le nostre percezioni del reale in un certo modo e non in un altro (Capitolo 1, «Il mezzo di comunicazione è la metafora», pp. 21-30).

Secondo l’autore di Divertirsi da morire, non è scandaloso che la televisione prima, e il computer poi, contribuiscano a organizzare le nostre percezioni del reale. Quel che non va bene è che essi siano inclini a impossessarsi in maniera esclusiva, con la complicità determinante delle corporation che li producono e amministrano, della nostra cognizione del mondo e degli altri. Bisognerebbe invece coltivare una pluralità di metafore, ecco quel che si può trarre dalla lezione di Postman, per comprendere il mondo, ovvero adottare un’ecologia della metafora, come sosteneva anche il linguista danese, d’origini olandesi, Jacob L. May (1926-2023), ad esempio nel saggio «The Pragmatics of Metaphor: An Ecological View» (The Routledge Handbook of Ecolingustics, a cura di Alwin F. Fill e Hermine Penz, Routledge, 2018, pp. 211-223).

Che cosa intende Postman, con più precisione, quando parla dei diversi mezzi di comunicazione come metafore differenti le une dalle altre? Le metafore, sostiene Postman, ci permettono di intendere la realtà in base ai mezzi che abbiamo a disposizione per comprenderla, perché questi mezzi li abbiamo inventatinoi. Pertanto, la stampa tipografica, che è un’invenzione umana, è sì un mezzo, ma è anche la metafora d’un mondo che possiamo conoscere e spiegare utilizzando un linguaggio ricalcato su quello scritto, articolato in proposizioni sequenziali dotate di significato e organizzate attorno a nessi sintattici ben precisi, non basati sulla reattività istantanea del like a un post. Le proposizioni e i nessi razionali del discorso sono, per riprendere le parole di Frye, il vincolo – non la barriera invalicabile – che permette alla predisposizione immaginativa e ‘allucinatoria’ della nostra mente d’esprimersi avvedutamente evocando l’assente, al fine di liberare risorse di senso dall’hic et nunc che c’inchioda alla presenza di quel che vediamo e tocchiamo.

Alla fine del ventesimo secolo, quando Postman scriveva, «Las Vegas», la città per eccellenza dello show business, era però la metafora-guida, l’unica metafora, «del carattere nazionale americano e delle sue aspirazioni» (p. 20). Questa metafora-guida, irragionevolmente privilegiata, in un ventunesimo secolo ancor più globalizzato dalla tecnologia, è diventata la Silicon-Valley, un’area mega-metropolitana che si snoda tra San Francisco e Los Angeles – ammesso che abbia senso, negli anni d’una economia fondata su silicio e micro-chip, tenere fuori la Cina dal gioco estremamente serio del metapherein, dello spostamento di significati (questa è la funzione d’una metafora), che presiede alla possibilità stessa d’organizzare il senso in un discorso transnazionale coerente.

Il mondo della parola scritta ricordato sopra (quello della stampa tipografica) è il mondo sul quale s’esercita il potere repressivo del Big Brother di Orwell, ma è anche il mondo, sostiene Postman, che a suo tempo ha provato a fare degli Usa una democrazia affidabile. È sull’epistemologia della parola scritta che si è modellato, il 21 agosto 1858 a Ottawa, nell’Illinois, il primo dei sette celebri dibattiti tra Abraham Lincoln e Stephen A. Douglas (p. 58), quando il discorso politico comprendeva repliche e contro-repliche, e richiedeva un ascolto prolungato da parte dell’audience, non una distrazione compulsiva contrabbandata per libertà.

Prima che la Silicon Valley e Las Vegas diventassero le metafore-guida d’un certa modernità, era sull’epistemologia della parola scritta che erano stati progettati, tra il diciassettesimo e diciottesimo secolo, gli opuscoli informativi, i libri, che avevano contribuito a combattere l’analfabetismo tra i coloni, a partire da quelli del Rhode Island, «dove la scolarizzazione non era obbligatoria» (p. 48).

Purtroppo non si può dire che quello appena descritto sia il caso dell’America attuale se, ad esempio nell’odierno mercato del lavoro, la superficiale impressione che l’altezza imprime nella memoria visiva di chi conduce le job interview – intesa come statura di una persona, non come insieme di capacità linguistiche o competenze professionali – ha buone probabilità di determinare l’assunzione d’un candidato (Anne Case e Christina Paxson, «Stature and Status: Height, Ability, and Labor Market Outcomes», Journal of Political Economy, 116, 3, giugno 2008, pp. 499-532).  

Tuttavia il mondo non è fatto di sole percezioni visive, anche se il razzismo che discrimina in base al colore della pelle è feroce e sembra confermare, in un circolo vizioso, il predominio delle tecnologie della visione nel mondo contemporaneo. Il libro, il telegrafo, la radio, la TV e il computer, ci ricorda Postman, sono tutti strumenti e metafore del nostro modo di produrre e capire la realtà, ciascuno con una propria logica, una propria dignità. Ognuno di essi è però uno strumento e una metafora che, in quanto prodotti a un certo punto della storia dell’umanità, non sono a loro volta dati da sempre: essi quindi sono storicizzabili, e criticabili, dall’analisi che vi si applica.

Quanto detto sinora mostra che secondo Postman non è sufficiente togliere di mezzo la TV o il digitale per (ri)conquistare un rapporto autentico con il mondo e con noi stessi. L’angolatura dalla quale Postman critica la tecnologia della comunicazione non è quella di un’improbabile purezza, sebbene le sue osservazioni sul predominio della cultura televisiva (e di quella veicolata dai social, direbbe egli oggi) assumano toni dialetticamente affilati e persino impietosi.

Resta sconcertante, rileggendo ora il libro, l’acume dell’intelligenza (tipografica) del sociologo americano. Quando Postman scrive che «una tecnologia benigna», non oppressiva come quella paventata da Orwell, ci fornisce «delle immagini […] che […] cancellano la storia» (p. 144), egli ci parla anticipatamente dell’illusione dell’eterno presente in cui ci fanno vivere oggi i social. Una presentness, come la chiama Rebecca Colman, che è appunto illusoria, troppo ‘allucinata’, e che è propria d’una cultura che in meno di dieci anni è passata dall’essere emergente all’essere dispiegata («Social Media and the Materialisation of the Affective Present», Affect and Social Media: Emotion, Mediation, Anxiety, and Contagion, a cura di Tony D. Sampson, Stephen Maddison, and Darren Ellis, Rowman & Littlefield, 2018, pp. 111-122).

In questo presente senza tempo – esso stesso staccato da un contesto di anni e di secoli, come le immagini puntiformi dei sogni a occhi aperti – è perfettamente normale che si polemizzi con l’inserimento di Aristotele nei curricula di filosofia, perché egli, più di duemila anni fa, assieme alla maggioranza dei Greci, pensava che alcuni esseri umani fossero schiavi per natura.

Come se fosse divenuto impossibile spiegare, a voce o per iscritto, per più di trenta secondi, che Aristotele, su quel punto lì, aveva torto.

Atene, IV secolo a. C. – San Francisco-Los Angeles, 2024.


Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, Roma 2023, 200 pp., 16,00 €.