Angelo Ferrara alla fine degli anni Settanta è il vicedirettore della sede centrale del Banco di Napoli. È attivo politicamente nella Democrazia Cristiana – dagli affari e dalle relazioni del Banco di Napoli passano parecchi voti. Nel febbraio del 1980 Angelo Ferrara è eletto nel consiglio nazionale della DC al Congresso di Roma: da molti è indicato come la nuova promessa dei democristiani campani. Poi nell’estate del 1980 tutto cambia. Angelo Ferrara viene accusato di truffa aggravata, falso e associazione a delinquere. Da quel momento la promessa democristiana diventa un latitante. Angelo Ferrara ha due figlie: una delle due, Enrica, da grande diventa ricercatrice al Trinity College di Dublino. Della scrittura ha fatto un lavoro e decide di raccontare la storia di suo padre e della sua famiglia.
«Questo romanzo è opera di finzione ma prende spunto da una vicenda realmente accaduta che ha al centro la storia di mio padre», è la nota che accompagna il testo di Mia madre aveva una Cinquecento gialla (Fazi Editore), il primo romanzo di Enrica Ferrara. Nella storia raccontata in prima persona, il padre diventa Mario Carafa e lei, Enrica, diventa Gina: la bambina che a 10 anni si interroga su dove sia finito il padre. È con lo sguardo e la testa della piccola Gina che veniamo catapultati in questa vicenda. A condividere con lei l’assenza del padre ci sono la sorella maggiore Betta e la madre Sofia. È un racconto di un’infanzia serena interrotta dalla scomparsa-non-scomparsa del padre, perché Mario Carafa mantiene le comunicazioni con la moglie. Si vedono tutti insieme un’estate e un Capodanno, in incognito, con un gioco dove Gina diventa Enrica Coffey per inventarsi una nuova identità. Ma il padre non è più presente nelle loro vite e Gina non capisce perché. I primi due capitoli hanno nell’incipit le pietre angolari di una narrazione che lungo tutto il libro ci accompagnerà nel racconto/confronto tra due mondi. Il primo capitolo inizia così: «Mia madre aveva una Fiat Cinquecento gialla. Adesso non c’è più e non so nemmeno se ne facciano ancora». Il secondo così: «Mio padre aveva un’Alfetta blu, che è la macchina dei camorristi, almeno secondo mamma». Cinquecento vs Alfetta: attorno a questa contrapposizione Ferrara costruisce un immaginario che a poco a poco trasforma il proprio campo semantico, diventando metafora di altre contrapposizioni. Femminile vs maschile, fatica vs leggerezza, moralità vs compromessi per accedere al potere. Perché ciò che prende spazio nelle parole della piccola Gina è la figura di Sofia, sua madre, che si trova a dover crescere da sola le due figlie, senza soldi e con tutti gli amici del partito che le hanno girato le spalle. Il marito è diventato per tutti un ladro, un latitante, e loro sono rimaste lì a subirne le conseguenze. La madre non regge e cade in depressione. E la figura del padre, «l’Alfetta» che non c’è più, rimane lì come sospesa per la piccola Gina che non capisce cosa sia successo, mentre nessuno spiega ma tutto le fa capire che sia qualcosa di grave – anche se in famiglia tutti pensano che il padre sia innocente, incastrato dal partito, un capro espiatorio.
Enrica Ferrara in questo romanzo ci fa attraversare un pezzo di storia degli anni Ottanta: c’è il terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980 che lei e la sua famiglia vivono tra i muri tremanti della loro casa di Napoli, c’è nei discorsi il riferimento costante al rapimento Moro di due anni prima e c’è, soprattutto, un altro rapimento delle Brigate Rosse: quello del democristiano Ciro Cirillo (che nel romanzo diventa Mimmo Cerino). E questa storia diventa il buco della serratura dove tutta la vicenda di Mario Carafa si condensa. Dopo il terremoto dell’Irpinia in Campania arrivano fiumi di soldi pubblici che la DC locale gestisce in modo poco trasparente, ed è proprio Ciro Cirillo, in quanto assessore ai lavori pubblici della Regione Campania, a controllare il tutto. Ed è lui che le Brigate Rosse decidono di sequestrare il 27 aprile 1981; ma, a differenza di quanto accaduto con Aldo Moro, dopo 89 giorni viene liberato. Si saprà, dopo, che su quella liberazione la DC (con l’importante ruolo di Antonio Gava – molto probabilmente il Gaetano Bava del romanzo) e lo Stato hanno trattato con le BR, pagato un riscatto e usato nella mediazione anche la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Dove con Moro si era imposta la linea della fermezza, con Cirillo prevalgono altre logiche. Di nuovo, si potrebbe dire, Cinquecento vs Alfetta. E Mario Carafa, il protagonista in absentia del romanzo, ha un ruolo in questa storia, ruolo che Gina scopre solo verso la fine del libro quando in un salto temporale di 7 anni, arrivando al novembre 1987, quasi maggiorenne rincontra finalmente il padre. Ma Gina non è più una bambina e ha una lunga lista di domande accumulate. Questo incontro-scontro tra padre e figlia, a metà tra un interrogatorio e una confessione spontanea, prima tra i giardini della Reggia di Caserta e poi in una trattoria di campagna, vale tutto il libro. Non solo perché lì troviamo risposta ai molti punti interrogativi, alle molte tracce che Enrica Ferrara ci ha fatto intravedere nelle pagine precedenti, ma soprattutto perché lì la Cinquecento gialla raggiunge l’Alfetta per superarla.
Mia madre aveva una Cinquecento gialla, come altri casi più o meno recenti, mette in romanzo il noto slogan femminista «il personale è politico», perché la storia di Gina, di sua sorella Betta e sua madre Sofia ci obbliga a scavare nell’ordinario e nel quotidiano dietro a vicende pubbliche che invece di ordinario non hanno niente. Come di ordinario hanno ben poco la politica italiana di quegli anni e le trame eversive che l’hanno sconvolta. Il romanzo ci obbliga a passare rapidamente dal micro al macro, dal privato al pubblico, dall’alto al basso, dall’ordinario, appunto, allo straordinario. E riesce nell’obiettivo che ogni storia si propone: farsi leggere fino alla fine. Se c’è un limite in questo romanzo è forse nel suo essere “solo” un romanzo, perché nel progredire della narrazione è come se cominciasse a non bastarci più Mario Carafa. Abbiamo bisogno di Angelo Ferrara, della storia vera, di capire cosa davvero è successo. Perché quella domanda rimane in testa anche dopo aver girato l’ultima pagina. Ed è una domanda che non è saziata dalla sola letteratura anche se forse, come scrive Ferrara prendendo a prestito Sciascia nella nota finale: «la verità» potrebbe essere stata «generata dalla letteratura».
Enrica Ferrara, Mia madre aveva una Cinquecento gialla, Fazi Editore, Roma, 2024, 18€, 300 pp.