Nei racconti brevi della sua raccolta d’esordio Mantide (pubblicata da Bompiani nel 2022 e tradotta da Pietro Lagorio) Julia Armfield fa sfoggio della naturalezza con cui sa plasmare alcuni dei topoi ricorrenti della letteratura di genere, soprattutto horror. Ragazze adolescenti vedono il proprio corpo attraversato da strane mutazioni; una novella Frankenstein va in cerca di parti del corpo per poter assemblare l’uomo perfetto; una coppia affronta una catastrofe naturale che pare echeggiare il loro tumulto interiore. Ciò che brilla in queste storie è la facilità con cui Armfield sa infondere un tono vitale e unico in queste trame onorate e spesso abusate, quasi fosse lei stessa dotata del genio creativo del dottor Frankenstein, capace di creare la vita dalla materia marcescente. Le trasformazioni e gli elementi soprannaturali fanno da cornice a una prosa determinata ad indagare gli angoli più inquieti, morbosi, e inspiegabili dello spirito umano, seguendo quindi la formula più classica del genere gotico, ma con un risultato che appare – grazie alla scrittura chiara, ironica, e schietta di Armfield – tutt’altro che polveroso, anzi agile e moderno.
La stessa determinazione a incanalare una schiettezza psicologica nitida attraverso le trame ambigue e conturbanti dell’horror è alla base del suo primo romanzo, Le nostre mogli negli abissi, uscito originariamente nel 2022 e finalmente pubblicato in Italia da Bompiani nella traduzione di Chiara Manfrinato. La vicenda segue Miri, la cui moglie Leah, biologa marina, è appena ritornata, all’inizio del romanzo, da una missione subacquea che sarebbe dovuta durare poche settimane, e che si è invece protratta per diversi mesi, avvolta in un alone di mistero e incertezze. Quello che dovrebbe essere un momento di sollievo è in realtà, per Miri, una situazione estremamente difficile, mentre si vede costretta a fare i conti con il cambiamento improvviso da uno stato di incertezza e quasi di lutto a una normalità ormai impossibile. Leah, dopo aver passato così tanto tempo sul fondo dell’oceano, è affetta da disturbi fisici inspiegabili, e col passare delle settimane pare sempre più ovvio come non sia più la persona che era prima della sua partenza.
Le nostre mogli negli abissi è un romanzo che parla di mondi complementari ma separati: l’oceano e la terraferma; il comportamento delle persone e i loro sentimenti più profondi. È un’opera affascinata dai punti in cui questi mondi si toccano e fondono, come la costa e la superficie dell’acqua nel caso dell’oceano, oppure dai momenti di tenerezza, confusione e conflitto in cui amici e partner cercano, spesso invano, di esprimere i propri sentimenti indicibili. Il ritmo del romanzo è animato dal moto ondoso e altalenante delle sue due voci narranti, Miri e Leah, le cui parole sono riportate in capitoli alterni. Il racconto di Miri è connotato da una coscienza di sé, dei propri difetti e dei propri pregiudizi estremamente elevata, forse un aspetto della sua forte ipocondria. Miri è abituata a interrogare i propri pensieri e il proprio comportamento nello stesso modo in cui interroga il proprio corpo, leggendo qualunque fastidio o dolore come potenziale sintomo di un grande male. È conscia delle proprie mancanze come amica e come partner, ed è al tempo stesso conscia di come il modo in cui sceglie di presentare la storia della sua relazione con Leah, e delle difficoltà che si trova ad affrontare, non sia certo disinteressato, ma volto a creare una certa immagine (perlopiù positiva) di sé.
Questa onestà autocritica non rende però la narrazione morbosa o isterica, appesantita e aggrovigliata. La prosa di Miri è anzi cristallina e scorrevole anche nei momenti di più profondo scandagliamento interiore e offre una chiave di lettura molto lucida e convincente su alcune delle dinamiche più torbide della vita di relazione, non solo amorosa. Il miscuglio, ad esempio, di disappunto, ipocrisia e genuino affetto che regola le relazioni con certi amici di vecchia data; oppure ancora quel bisogno a metà strada tra egoismo e istinto di sopravvivenza che ci spinge ad essere a volte bruschi con i nostri cari nei loro momenti più vulnerabili.
A questa narrazione così intima e onesta si contrappone quella di Leah, altrettanto lucida ma più distaccata, scientifica. I capitoli narrati da Leah descrivono, in forma di flashback, ciò che è effettivamente accaduto durante la missione in cui è rimasta intrappolata per mesi in un angusto sottomarino assieme a due colleghi, Matteo e Jelka, offrendo pagine di agghiacciante tensione ma aprendo anche spiragli sui grandi misteri che governano la vita negli abissi.
Le nostre mogli negli abissi è una storia di mostri che, come nella migliore tradizione del genere, lascia i propri mostri quasi interamente fuori dalla pagina. È un romanzo che si interroga a lungo sugli angoli più remoti delle profondità abissali, da intendersi sia come grande metafora per tutti gli aspetti sommersi dell’animo e della psiche umana che come una realtà effettiva seppur nascosta, una componente immensa del nostro pianeta di cui è molto facile dimenticarsi. Quest’ambizione ad essere un’opera divisa tra due mondi (il metaforico e il reale, il realismo psicologico e la fantascienza, il documentaristico e il soprannaturale) è incarnata già nel duplice epilogo del romanzo, che contiene citazioni a due delle più significative e influenti storie di mostri marini mai raccontate, ossia Moby Dick e Lo squalo. HP Lovecraft, l’autore che forse più di ogni altro ha cercato di combinare questi due lati – uno filosofico e astratto, l’altro “pulp” e primordiale – dell’attrazione umana per le profondità oceaniche, riceve un cenno nel romanzo tramite un pupazzetto di Cthulhu, la divinità subacquea di sua invenzione, che accompagna Matteo nella missione maledetta, quasi un alter-ego blasfemo e sinistro alla statuetta di San Brandano cara alla molto credente Jelka.
Lo squalo è citato diverse volte nel corso del romanzo per via del ruolo fondamentale che riveste nella relazione di Miri e Leah. In quanto uno dei primi film che hanno visto insieme, la sua funzione è quella di “pietra miliare” nella loro relazione, uno di quei punti di riferimento fondamentali alla costruzione collettiva di ogni storia d’amore. Una delle scene più difficili del romanzo, seppure all’apparenza molto delicata e quieta, si sviluppa proprio con Miri che porta nel bagno del suo appartamento la TV di casa per guardare Lo squalo assieme a Leah, a questo punto ormai costretta a spendere tutto il giorno immersa nella vasca da bagno, perlopiù incapace di comunicare. Un tentativo, questo, di forzare una connessione di coppia che non esiste ormai più, un ultimo sforzo per cercare di pretendere che i terribili cambiamenti di Leah non stiano effettivamente succedendo.
Le nostre mogli negli abissi è infatti in primis un romanzo che racconta la fine di una relazione e il periodo, protratto e doloroso, in cui le persone al suo interno devono esistere in uno stato di limbo senza poterne uscire completamente. La metafora del ritorno di Leah consente ad Armfield di trattare il tema della scomparsa in maniera cangiante, multiforme: quello che Miri si trova ad elaborare nel corso del romanzo è insieme il trauma della sparizione di una persona cara, il dolore per la fine di un amore, e il lutto per la perdita del proprio coniuge.
Vista la presenza di tutti questi affari incompiuti, non stupisce che il romanzo sia ossessionato dai fantasmi, fino a potersi considerare una vera e propria “ghost story”. Significativa, tra le numerose “presenze” del racconto, è quella della madre di Miri, scomparsa in seguito a una malattia degenerativa che potrebbe avere trasmesso alla figlia. Miri è costantemente alla ricerca di tracce della madre nel proprio comportamento e nel proprio aspetto fisico. La sua è una presenza ingombrante su diversi aspetti: non solo Miri teme di aver ereditato la malattia della madre, ma è inoltre dilaniata dai sensi di colpa per non essersene presa adeguatamente cura. Una colpa, questa, che inevitabilmente influenza il suo comportamento con Leah, incoraggiando in lei un’attitudine pragmatica e altruista che finisce per sfumare in un’aggressività mal repressa, andando a ferire entrambe le partner.
Le nostre mogli negli abissi è dunque un romanzo che traccia, con una semplicità disarmante nella sua incisività, il complicato turbinio che governa i nostri sentimenti nei momenti che più mettono a dura prova le nostre relazioni: malattie terminali, situazioni traumatiche, cambiamenti imprevisti nei nostri bisogni e nelle priorità. È un romanzo estremamente conscio della natura artefatta dei nostri legami, di come ogni storia d’amore sia in primis una storia, un’invenzione, qualcosa che i partner costruiscono insieme. Eppure non è affatto un romanzo disilluso. È proprio nel grande potere ascritto alle narrazioni, capaci di riportarci indietro dagli abissi interni a noi stessi, che è messa in risalto la vena estremamente romantica al cuore di questa storia di mostri e fantasmi.
Julia Armfield, Le nostre mogli negli abissi, traduzione di Chiara Manfrinato, Milano, Bompiani 2024, 18€, 240 pp.