Nel 1936, il grande autore e disegnatore polacco Bruno Schulz scriveva ad Andrzej Pleśniewicz: «il mio ideale è di maturare verso l’infanzia, per potere avere ancora una volta la sua pienezza e la sua immensità». Pienezza, immensità: un bambino coincide con sé stesso e con tutto quel che immagina, pensa, desidera e teme. Con un mondo, insomma, che comprende il sotterraneo e il siderale, l’incubo e il sogno, il prodigio e la ragione (i bambini apprezzano la logica e la applicano con zelo, specialmente nel gioco).
Bruno Schulz potrebbe facilmente trovare un posto nella galleria di scrittrici e scrittori composta da Marta Barone in Ritratto dell’artista da piccolo (Utet). Al pari di Schulz, molti degli autori scelti da Barone hanno voluto guardare indietro, alla loro infanzia, e scriverne – magari per frammenti e trasfigurazioni, senza comporre vere e proprie autobiografie. Per di più, Barone ha una passione particolare per gli autori novecenteschi che provengono dall’Europa orientale: l’Ungheria di Magda Szabò, la Bulgaria di Elias Canetti, la Russia di Vladimir Nabokov, la Bucovina di Gregor von Rezzori.
Poiché la storia del Novecento ha sconquassato e più volte ridisegnato confini e entità politiche, alcuni di questi scrittori, come von Rezzori, hanno visto tramontare, insieme alla loro infanzia, tutto ciò che la circondava, o quasi: lingua, abitudini, istituzioni, cultura. Per altri, come Walter Benjamin e Ingeborg Bachmann, due autori di lingua tedesca (come anche Canetti e von Rezzori – e torniamo ai dissesti e alle stratificazioni del Novecento), la guerra ha comportato una lacerazione e un’espulsione da sé stessi, dalla propria identità: Benjamin, bambino berlinese, è anche un bambino ebreo. Cresce e si ritrova in balìa del nazismo. Fugge a Parigi nel 1933 e muore suicida nel 1940 in Spagna, mentre aspetta un visto per gli Stati Uniti. Durante la guerra Bachmann è una ragazzina, la figlia di un padre che ha aderito al nazionalsocialismo. Ha appena diciott’anni quando capitola il Terzo Reich. Ne gioisce: per i nazisti ha provato odio, ripugnanza. Con gli adulti, scrive, non si può più parlare. Solo che è appena diventata adulta anche lei. Occorrerà scegliere con cura i propri interlocutori.
In questo libro colto e incantevole, Barone attinge al saggio e alla biografia e sceglie di non romanzare, eppure i testi somigliano soprattutto a dei racconti, a undici storie vere. La voce dei diversi autori e la voce dell’autrice si intersecano e si parlano grazie alle molte citazioni da lettere, diari, saggi, romanzi. Il racconto procede agile, svelto ed erratico come il passo di un ragazzino. Scorci di gioia e trepidazione infantili ci si aprono davanti: le scintille di un treno che si perdono nella notte, una gragnuola di mele, libri sparsi per le stanze, spiritosaggini, una madre piena di segreti.
Il risultato del lavoro di Barone è, mi pare, unico nel suo genere. Tra gli anni Sessanta e Settanta, Dacia Maraini condusse una serie di interviste a scrittori e artisti, tutte legate da un filo rosso: l’attenzione all’infanzia e alla giovinezza. Sono state raccolte e pubblicate da Rizzoli nel 2023 con il titolo E tu chi eri? Per Maraini, allora giovane a sua volta, e intimidita, parlare d’infanzia non è soltanto un modo per entrare in confidenza con gli intervistati celebri, bensì una chiave d’accesso alla loro produzione e alla loro poetica. Lì si trova, spesso, la sorgente di un immaginario. Ne discute con Carlo Emilio Gadda, Natalia Ginzburg, Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini, Giorgio De Chirico, Maria Callas, e altre, altri. Dopo il primo approccio, comunque, le interviste tendono a farsi più tradizionali e ampie. Del resto, più che un programma stabilito a priori, parlare d’infanzia è una cifra comune rinvenuta a posteriori. E gli artisti sono lì, di fronte a Maraini, in carne e ossa, con la loro viva voce, le loro confessioni e le loro reticenze.
Al contrario, Marta Barone deve leggere, setacciare, evocare. Il dialogo, l’intervista impossibile, va condotta con altri mezzi. L’autrice delinea i suoi ritratti d’artista a partire da dettagli, fotografie, un’atmosfera, un gioco di parole. Lo dichiara lei stessa nell’introduzione: non c’è biografismo, vale a dire la tendenza a ridurre l’opera alla vita di chi l’ha scritta, la ricerca di corrispondenze immediate fra autore e testi. C’è, semmai, l’interesse verso una porzione dell’esistenza che di solito non ha voce, che viene narrata a posteriori e che si riesce a vedere soltanto quando è stata superata. C’è la curiosità verso l’infanzia di scrittori che, a loro volta, verso l’infanzia hanno provato curiosità. C’è il desiderio di osservare e catturare qualcosa di vite che sono state vissute e non sono più. C’è anche il guardarsi allo specchio, un po’ di sbieco, in penombra, come sempre accade quando uno scrittore scrive di altri scrittori. Tanto più che Marta Barone è una scrittrice anche di libri per ragazzi (ricordo almeno Miriam delle cose perdute e I giardini degli altri, entrambi editi da Rizzoli) e ha tradotto diverse opere rivolte all’infanzia: Mary Poppins e Peter Pan, Bambole giapponesi, Nella città una rosa e La bambina selvaggia di Rumer Godden, e altre ancora.
Viene da chiedersi, ancora, che cosa avvinca così strettamente letteratura e infanzia. Ritratto dell’artista da piccolo ci offre diversi suggerimenti. Il bambino è nuovo al mondo, ci arriva come uno straniero. Proviene da un altro tempo (un senzatempo, ha scritto Giovanna Zoboli) e non sta ancora appieno dentro la società; vive, in effetti, ai suoi margini, è un outsider. I nostri tic, le nostre abitudini, le nostre risposte, sono oggetto di stupore, meraviglia e, talvolta, ribellione. Lo sguardo di un bambino è sempre straniante, e lo straniamento è un valore e un effetto cercato da molta letteratura (da prima di Šklovskij e da prima di Brecht – penso ad esempio alle Lettere persiane di Montesquieu), perché permette di disinnescare gli automatismi della percezione e del giudizio. Nell’infanzia, questo approccio spontaneamente straniante investe anche il linguaggio, che i bambini apprendono con grande gusto per il ritmo e il suono. Per i bambini, e per gli scrittori, il linguaggio non è un mezzo trasparente, bensì una materia densa e spumeggiante, che è possibile manipolare, ri-significare, reinventare, e si riverbera sulle cose.
«Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria», ci dice un verso di Louise Glück, premio Nobel per la letteratura nel 2020. Per scriverne, però, dobbiamo prima diventare adulti. L’infanzia è sempre già passata, è sempre già memoria. Forse per questo è un modello e una sorgente incomparabile di letteratura, se è vero quello che scrive Nabokov: «Bellezza più compassione – questo è il concetto che maggiormente si avvicina a definire l’arte. Dove c’è bellezza c’è compassione, per il semplice motivo che la bellezza è destinata a perire: la bellezza muore sempre, la forma muore con il contenuto, il mondo muore con l’individuo».
Ma allora la pienezza dell’infanzia, perduta e rimpianta da Schulz, si potrà riscoprire proprio nella pienezza offerta da un’opera d’arte. Nel capitolo dedicato ad Anna Maria Ortese, Barone racconta l’incontro della scrittrice tredicenne con un quadro di Raffaello, che ritrae un cielo. E cita Ortese stessa: «Quel cielo capovolgeva ogni idea che avevo sulla realtà, era più vero e reale di ogni cielo del mondo reale». Le infanzie ritrovate da Marta Barone, evocate attraverso una mela cotta nella stufa, un rospomaiale inventato, gesti di timidezza proterva, distese di fiordalisi e disegni nella neve, dalla neve cancellati, hanno tutta la verità e la realtà che la letteratura ci può dare.
Marta Barone, Ritratto dell’Artista da piccolo. Undici infanzie di scrittrici e scrittori, UTET, Torino 2023.