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Sul XVI quaderno Italiano (2ª parte) | Isonni-Ghisleni-Verdone-Innocenti

Prosegue l’approfondimento sul XVI Quaderno Italiano di poesia Marcos y Marcos (qui la prima parte). Qui invece, ci auguriamo, non termina che un primo affondo sulle ragioni della giovane critica nei confronti di quella che, per sede e legittimazione editoriale, è riconosciuta come «giovane poesia». Lo abbiamo già detto: sempre di più le scritture poetiche si nutrono di prosa (espressione della relazione tra ciò che non si può autodeterminare), ma è vero anche il contrario, e cioè che la critica nella forma del saggio sembra ambire a proseguire queste poesie con altri mezzi, comunicando nell’ordine dei concetti quanto queste si ostinano ad affidare in tutto o in parte all’incanto (o al disincanto) della forma. Anche per questo «la poesia», forma mediana tra la musica e il pensiero, sembra il luogo più adeguato per una verifica del genere. Chissà se furono poi davvero dei tempi beati, quelli in cui i simposiasti nella Grecia arcaica si trasmettevano l’invito a cantare passandosi da sinistra verso destra un ramo di mirto o di alloro.


Dimitri Milleri, nel pieno di nor (Federico Isonni)

«A complicated network of positive and negative interrelationships[1]»: cosa farsene della poesia se non possiamo decidere niente

Un filone di ricerca sempre più battuto negli ultimi anni, nell’ambito della microbiologia, mette in evidenza una tesi che suona, per i non-addetti ai lavori, circa: ‘la composizione del microbiota intestinale influenza in maniera diretta il funzionamento del nostro cervello’. Il sottotesto, prevedibilmente: ‘eventuali deficit presenti in questo ambiente-sistema creano scompensi a breve/medio/lungo termine nel funzionamento cerebrale’. Una breve rassegna su PubMed mostra nella fattispecie la correlazione fra deficit nel bioma e disturbi psichiatrici. I nostri simbionti possono trasformarsi, in determinate circostanze, in entità parassitarie, di cui pure abbiamo necessità. 

Nel pieno di nor traspone questa dinamica, che si manifesta nei gruppi umani – stando attento a argomentare la tesi serrata secondo cui, di conseguenza, la grossa fetta di quello che ci accade, e di quanto decidiamo, è per lo più al di fuori del nostro controllo. Saltare da un ordine di grandezza ad un altro, tuttavia, comporta degli aggiustamenti: se la dinamica simbionte-parassita diventa un fatto umano, una coordinata sociologicamente riconosciuta, allora rientra sotto il dominio delle cose umane; ergo, la si può trattare secondo ragione. Date le premesse, si crea un loop di difficile risoluzione: possiamo trattare le cose secondo ragione, ma pure la ragione risiede, a conti fatti, per la maggior parte in qualcosa al di fuori di quello che controlliamo. Siamo nel pieno di nor perché quel quanto di consapevolezza ci forza a riconoscere che non decidiamo quasi nulla, ma ci sembra il contrario. 

Nella risultante delle forze ci rendiamo conto di essere corpi; che la maggior parte delle cose accade e basta: possiamo orientare le nostre decisioni in una direzione, nella speranza che questo slittamento generi a catena modificazioni sensibili nel sistema stesso (vedi Alien 0Voluntary Human Extinction MovemenT). Stabilire di cosa siamo stati agenti e di cosa pazienti rimane arduo. L’apparizione dell’‘uomo che dorme’ nel testo rende palese da subito il principio switch che sottende lo sguardo: l’alternanza quasi sistematica di soggetti-agenti e soggetti-pazienti risulta in gioco a somma zero che investe la voce. In una prima, folgorante sequenza di strofe-paragrafi – quasi sempre costituite da due membri opposti: attivo/passivo, agente/paziente – Milleri chiarisce la presa di posizione del soggetto che parla: «Difficile dire perché un processo si guardi».

La dipendenza, variamente declinata, è forse l’isotopia più marcata nel testo; parrebbe che l’uomo che dorme sia un’ambiguità incarnata, e che la dipendenza ne sia uno dei simboli. È a tutti gli effetti una modalità relazionale cui non ci si può sottrarre (ecosistemi) che investe l’intera esistenza – pure con i suoi nervi scoperti: la tossicodipendenza sembra percorrere l’intero libro come contraltare o doppio specifico. Come Gezzi segnala nella Prefazione, la scansione delle tre sezioni non implica una progressione hegeliana: ritengo tuttavia che vi sia una sintesi centrale, negli ecosistemi, intorno alla quale si posizionano le due opposte istanze parassitaria e simbiotica. La nostra esistenza e la nostra comprensione sono implicate dal sistema in cui siamo inscritti: di qui le tante figure di buio o di vista alterata che attraversano parassitie la prima metà di ecosistemi – è per lo più quello che non vediamo, non capiamo, di cui non ci accorgiamo, a fare il reale: «gli spazi di azione autentica mi sembrano marginali». È per questa ragione che si realizza per caso di essere parassiti e la reazione istantanea non può che essere di fuga o lotta – rinuncia o contraddizione dialettica («È un pensiero e non sono io, mi cresce contro»; «non dico niente, non faccio | nulla di male a nessuno»; «la colpa di essere nati qui», «sentire che non ci dovremmo essere»). Poi – sarebbe meglio dire: nel mentre – il freezing («la faccia […] | entra nel cuore dell’ibernazione»), la comprensione del corpo («ma esiste un corpo laggiù»), il pensiero di «tornare in un luogo di sole radici», quindi il colpo di reni: «Volevamo sentirci esposti, lo eravamo». 

L’esergo di simbionti proietta il lettore in un orizzonte di sostanza spinoziana, che annulla «la distinzione soggetto-oggetto». La compresenza di A. spariglia le carte: c’è ancora il buio, ma è inscritto nel «seno | bianchissimo», nelle «ossa»; diretta conseguenza è l’atto di distruzione delle poche speranze residue nel pensiero logico («Capire | non significa niente»). Quei corpi «caldissimi, quasi complementari» su cui la sezione si chiude preannunciano la relativa chiusura dell’Ingranaggio, in cui assistiamo a qualcosa di analogo a un rave o un sabba: la netta demarcazione dello spazio umano dal bosco – la linea fra erba e alberi, e la simmetrica partizione verticale del bosco, senza «felci, arbusti, aghi di pino» – doppia di nuovo lo sguardo, restituendo sia la zona liminale fra entità simbionti, sia fra entità e sistema. Per quanto il centro di gravità del libro permanga nella sezione ecosistemi per la sua funzione di equilibrio, è chiaro che il ritorno ad un rapporto non conflittuale con il sistema sia dovuto alla sperimentazione di una simbiosi funzionale con un* deuteragonista – una suggestione che permane è che A. e Alien siano la stessa entità, trasformatasi a sua volta per una serie di interazioni positive con l’ambiente. 

La fluidità sembra essere una risposta convincente, a fine libro, per affrontare lo stallo di cui l’opera mette a parte: e fluida quindi è la forma, che compie metamorfosi repentine tra verso e frase, ibridando la prosa con la poesia e viceversa senza una demarcazione percepibile. Nel pieno di nor risulta quindi la giustificazione retroattiva di quel processo di lungo corso volto a perfezionare l’onestà della voce, epurandola da tutti i tratti ereditati dal simbolismo, senza però eliminarla, anzi rimarcandone la specificità. Prendendo a prestito una figura cara al Novecento, l’interlocuzione con un’alterità atta a significare, Milleri sembra volerci dire che alcune istanze sono innanzitutto necessità biologiche: per questo umanissime, e quindi bisognose del colloquio, e quindi della scrittura.

[1] Góralczyk-Bińkowska, A.; Szmajda-Krygier, D.; Kozłowska, E. The Microbiota-Gut-Brain Axis in Psychiatric Disorders. 


Stefano Modeo, Partire da qui (Diego Ghisleni)

La pena da scontare per stare insieme

Noi siamo l’aldilà della natura
espulsi con lo sguardo, assaliti
senza melodie, qui non esistiamo
come migliaia di piccoli tentativi
che scongiurano il vuoto dopo di sé.
(Stefano Modeo, I monti)

Si sa: sono decenni che i poeti, o la maggior parte di essi, pensano al libro di poesia nei termini di un corpo di sezioni comunicanti, dalla cui lettura complessiva sia riscontrabile un orizzonte di senso nuovo, in grado di completare il significato discreto dei singoli testi, di costruire una trama che premi e soddisfi compiutamente lo sforzo ermeneutico. La silloge di Stefano Modeo, inclusa nel Sedicesimo quaderno italiano di Poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2023, pref. Paolo Febbraro), non è affatto estranea a questa tendenza: Partire da qui è un’opera solida, per quanto si presenti come smembrata in sezioni più numerose e più brevi della media dei libri di poesia suoi coetanei (basti il rapido confronto di architetture delle sillogi contenute nel Quaderno XVI: Bordoni, 4 sezioni; Corbetta, 2; Ciaco, 3; Milleri, 3; Modeo, 5; Nagy, 3; Perozzi, 3). L’impianto macrotestuale di Partire da qui risponde ad alcune costanti strutturali che, impiegate di volta in volta diversamente, contribuiscono a configurare un percorso semantico che garantisce almeno un’interpretazione. Nella fattispecie, è interessante riflettere sul disequilibrio tra mondi sociale e naturale che emerge dai testi delle prime tre sezioni (Partire da quiPater e Il segreto di Pulcinella), ordinate per gradi successivi di scarto o alterazione.

Un importante dispositivo tematico con funzione strutturante della raccolta è la ricorrenza dell’elemento animale, presente nelle prime sedici poesie con dodici occorrenze e spesso associato all’uomo o al paesaggio mediante l’istituzione di similitudini (cfr. Falò: «Appiccano fuochi a cataste di legno, / arrampicandosi come scimmie sui monti»), metafore (cfr. La tartaruga: «Di profilo la roccia è una tartaruga») o personificazioni (cfr. Una nuova mappa: «Piangi sulle foglie d’ulivo / ti fanno male le ali ora / che la parola è muta nel nido»). Nei testi della prima sezione, l’atmosfera dominante è una concordia rerum ai limiti dell’edenico, nella quale i legni si sottraggono all’approdo con ostile desiderio, come gli intenti degli uomini alla rassegnazione, il gioco dei bambini al richiamo materno: le trame naturale e sociale si abbracciano in un rapporto di continuità indisturbato, pertanto le figure retoriche adibite alla fotografia di questo connubio sono similitudini che pongono sullo stesso piano uomini e animali («sono come uccelli»; «Saltano sugli scogli come capre»; «come scimmie sui monti»; «Come pesci che brillano sulle lenze»).

Una prima scossa all’idillio di Partire da qui si registra a cominciare dalla seconda sezione, Pater, nella quale il ruolo del “come” paragonante non è più quello di istituire un legame tra uomini e animali, bensì tra persone, posta la disappartenenza dell’uomo alla natura: «Mentre uso le mani / sulla farina con tutto / il mio peso d’uomo / come preparavi tu / il pesce mi scruta / implacabile e l’acqua / ripulisce le viscere» (cfr. Lasciami andare). Tra l’uomo e la fauna vige un rapporto di transitività spietata: la spigola, che nella prima sezione era cacciata per gioco dai bambini-capra, ora, pescata, dice «lasciami andare»; il mare si uccide (cfr. Diario dell’inconscio), la neve soffoca il nutrimento di uccelli dai tratti antropomorfi (cfr. Una nuova mappa), l’io si arrende alla rassegnazione e aspetta che lo scirocco lo riconsegni al «cerchio del golfo» (cfr. Il secchio). Se i testi della prima sezione erano appannaggio di una terza persona singolare o plurale, fatta eccezione per l’incipitaria Due mari, le poesie di Pater introducono un “io”, un “tu” e un “noi” che centrano il contenuto da un punto di vista più interessato e sensibile, contaminando la concordia rerum di un mondo privato di prospettive individuali.

Un ulteriore scarto di trame si registra con i testi del Segreto di Pulcinella, dove una certa discordia si appropria anche dei rapporti umani. È a questo proposito significativo che il dettato poetico, qui, si arricchisca delle voci esterne, e che queste intervengano non a favore di un dialogo, bensì per denigrare qualcuno, ricorrendo oltretutto alla metafora animale, che in queste accuse perde ogni connotazione positiva: «Qual è il verso che conviene a te / dimmelo non me lo negare, / l’asino sì, l’asino lo sai fare?» (cfr. Le voci). In questa sezione, tuttavia, gli offesi non sono persone, ma maschere, scudi di personalità esposte a rapporti interpersonali che somigliano a gerarchie di potere: l’esergo «Ubi fracassorium, ibi fuggitorium», attribuito al personaggio di Pulcinella, rimanda alla possibilità di una fuga dagli altri che è capace di garantire una maschera, ma anche al bisogno di fugare se stessi attraverso il sacrificio al giudizio altrui. «Da questo, chi è capace e si scarcera / non è schiavo di niente e si smaschera» (cfr. La maschera): posto il doppio statuto di protezione e carcere di un volto-feticcio, la sensazione è che Modeo, con questi versi, suggerisca di smantellare le difese e consegnarsi all’alterità per ripristinare un contatto con l’ordine naturale e sociale. Sono i prodromi delle sezioni finali, Nostalgia e un estratto di testi da La terra del rimorso (Italic Pequod, 2018), teatro di un’amara constatazione dello scompaginamento delle trame e di un anelito a una riconciliazione consapevole dello scarto di sinfonie umane e naturali: «[…] Cosa aspettiamo a dirci addio? / Quando finisce la guerra può l’uomo / forse con più facilità tradire la terra? / Faccio testamento, depongo l’ascia: / mare, restituiscimi le braccia / a questa riva mi sono abituato / a non amare a non sentirmi amato» (cfr. Ulisse sulla spiaggia).

Proprio la cognizione di un tradimento della terra da parte sua invita l’uomo a deporre alcuni comportamenti “bellicosi” a favore di una rassegnazione che, se nelle prime poesie del libro era ostinatamente avversata, ora è abbracciata con coscienza. Solo attraverso un’educazione di questo tipo sembra che sia possibile concepire e mettere in pratica delle risposte etiche appropriate a una riconciliazione con l’alterità umana e naturale, sopperire alla nostalgia accogliendo il sentimento di perdita. Così Ulisse apprende a rinunciare al resoconto del suo viaggio, a conservare inespressa la memoria di sé per non rovesciare sugli altri il macigno della propria identità: «Ma se ti dico come o cosa, conoscerai / anche i giorni in cui ho cercato / riparo dalla nebbia che è piovuta / tra me e ciò che ho desiderato. / Per questo mi chiedi di mentire / di non approdare a nessuna verità / di conservare ogni dipendenza / dalla tua memoria, dalla tua civiltà» (cfr. Allo specchio).

Un sogno d’unione pervade gli ultimi testi di Partire da qui, il desiderio che per una volta siano i vinti a scrivere la storia, essendo vinti tutti, o che due corpi, nel cuore della notte, si stringano per silenziare l’angoscia di un rapporto esposto in ogni momento al pericolo di una crisi. È auspicabile orientare la vita lungo la parabola di uno slancio così umano, fosse anche il dolore di una cesura originale la pena da scontare per esserci «tutti insieme» (cfr. Scirocco).


Noemi Nagy, L’osso del collo (Alessio Verdone)

«Durare come cosa è facile, difficile è qualcos’altro» 

Se mi si chiedesse di definire brevemente L’osso del collo – la raccolta di Noemi Nagy selezionata per il Sedicesimo quaderno di poesia contemporanea – azzarderei una formula di questo tipo: una dialettica tra tentativo di autonomia resistente e minaccia di sparizione che trova la sua sintesi obbligata in un controllo precario ma vitale sulle cose. Tutto ciò articolato su un sottofondo in cui dominano la cosificazione dei corpi, la disgregazione della materia e un effuso sentimento della fine. Elementi che richiamerebbero tradizionalmente un vago gusto per l’orrido, ma non qui. Ed è questa la forza di questo testo: riuscire a parlare di corpi, di carcasse, di macerie mantenendo un’affabilità di immagini che è quotidiana, dunque vera e che perfettamente si accorda con una versificazione ritmica ma discorsiva, piana, dialogata e a volte anche essenziale, da resoconto.

Ma al di là di questa lettura astraente, L’osso del collo funziona come un viaggio a più tappe che ha il suo punto di insorgenza nelle alterne vicende di malattia e ripresa di una persona a cui l’io parlante è molto legato, presumibilmente una figura paterna. A partire da qui il soggetto può costruire una riflessione che va oltre il dato concreto, elaborando il vissuto per cercare di darsi risposte su domande fondamentali, sullo statuto delle cose vive che si trasformano in oggetti inerti e sull’impotenza che in fondo caratterizza ognuno di noi nel far fronte a cose che sempre ci colpiscono impreviste. 

L’iter di questa interrogazione si riflette nella struttura del testo che, pur essendo molto breve, ha una sua razionalissima articolazione interna. Subito dopo un testo proemiale che è anche una dichiarazione di intenti, l’autrice si affida, nella scansione dei tre tempi della sua raccolta, all’anatomia umana, gestita secondo una funzione omologica e metaforica che identifica nelle tre principali vertebre cervicali – Atlante, Asse e Prominente – le stazioni di un viaggio attraverso la malattia, la ripresa e la scoperta di un’impotenza, dell’impossibilità del controllo sulle cose e sugli avvenimenti.

Il testo proemiale contiene già in germe ciò che verrà dopo e ci parla del logoramento e della frantumazione che subiscono tutte le cose: qualunque sia la loro natura iniziale, che sia viva o che sia inerte, tutto finisce per diventare un oggetto che non smette mai di spaccarsi, creparsi, farsi a pezzi.

Le cose fragili più̀ tardi diventano oggetti

altrimenti si spaccano in due.
Le crepe arrivano fino al soffitto
il muschio cresce ai lati 

dove cemento amianto mucchi prime avvisaglie

di disgregazione danno spazio a un’aria
del tutto irrespirabile. 

Il vento ha seccato le pareti

 affilato le cime degli alberi

La dissoluzione e la sparizione procedono non solo verticalmente («le crepe arrivano fino al soffitto», «affilato le cime degli alberi»), ma si allargano nello spazio espandendosi orizzontalmente («il muschio cresce ai lati»; «il vento ha seccato le pareti») e realizzando quella sparizione che si annida nelle cose stesse.

La prima sezione, Atlante, rappresenta il momento della resistenza e del tentativo di mantenere un’autonomia da opporre alla minaccia della sparizione. Atlante – in accordo con la figura mitologica – è la vertebra che regge la testa e sostiene materialmente le facoltà intellettive, mentre senza sosta si oppone alla forza di gravità. E dunque la sua essenza più profonda è quella di «resistere alla compressione e al carico», come scrive l’autrice nelle note finali. Una caratteristica che si incarna nella figura paterna che, pure gravata dal peso della malattia, resiste vitalisticamente ed esorcizza le paure con l’ironia («la scorsa notte sei andato | e ai medici pare tu abbia chiesto perché | cazzo ti hanno riportato indietro, poi riso»; «E come è morto? In pigiama, dici | poi ridi»). Nonostante ciò, comunque, il basso continuo della sezione resta l’atmosfera spettrale di animali investiti, liquidi espulsi, di corpi che non obbediscono più agli ordini.

La seconda sezione, Asse, è il luogo in cui la sparizione prende corpo. Una sparizione che si configura però come la condizione su cui far leva per ripartire. Ne risulta uno spazio poetico in cui le figure umane hanno una presenza ridotta, quasi del tutto limitata al loro riflesso sulle cose offese. Ciò è evidente sin dall’esordio catastrofico della sezione: di fronte a un allagamento anche l’umano rischia di diventare riflesso delle cose, anzi di farsi cosa esso stesso («Diventa sempre più difficile restare nelle stanze | senza coprirci di ruggine»). Per il resto dominano presenze animali («da qualche tempo ci sono molte formiche | nel lavandino»), segni di danneggiamento («il vetro crepato | delle docce») cose che non funzionano come dovrebbero («la finestra si apre e chiude male»; «confezioni che non chiudono»).

L’ultimo momento, Prominente, rappresenta una sorta di punto di svolta o comunque di ripresa disordinata, in cui dalla sintesi delle due tappe si può arrivare al momento finale del viaggio. È infatti la sezione che ha «caratteristiche intermedie» (ancora dalle note finali) tra la prima e la seconda, oscillando dunque tra dinamiche legate a una sorta di bilancio degli avvenimenti e un movimento alternato tra perdita e presa di controllo. A partire dalla comunicazione di un decesso («dopo l’annuncio del decesso su Whatsapp») il soggetto si avventura in un tentativo di razionalizzazione di ciò che non può essere controllato o previsto, ma a invece di applicare la logica si abbandona a comportamenti ossessivi che ritualizzano lo spazio della realtà («o lavarsi le mani per tredici secondi | chiudere l’acqua e conciarle di nuovo | perché hai toccato il rubinetto»). Così, preso tra tentativi di suicidi («oltre una certa altezza buttarsi») e la visione di corpi esposti («Real Bodies Experience a lato della strada»), l’io parlante – nonostante il suo sentirsi braccato – mai si arrende alla mancanza di speranza. Anzi in qualche modo, rallenta e riposa prima di riprendere il viaggio: «Di qui verso la terra che si torna | il sentiero infine rifiata». 

Così si chiude una raccolta in cui il dato concreto nasconde le caratteristiche di un discorso molto più generalizzabile e in cui a partire dall’esperienza di un soggetto collocato nello spazio e nel tempo si ottiene una poesia che riesce a non essere lirica, nel senso più tradizionale del termine. E che anzi, nel continuo montaggio e riposizionamento delle voci, cerca di comunicare qualcosa che va al di là del mero avvenimento privato e individuale.


Antonio Francesco Perozzi, bottom text (Riccardo Innocenti)

I profili fritti degli asserviti

Esiste una tendenza nella poesia italiana iper-contemporanea a identificare in modo pressoché totale autore (o, peggio, il suo profilo Facebook) e io lirico, concependo i testi come emanazione (o, meglio, contenuto) del profilo autoriale. Si tratta della stessa logica che spinge una casa editrice a inserire la foto degli autori in un riquadro sulla copertina del loro libro di poesie, generando un corto-circuito di patti autobiografici più o meno impliciti. Lo sdoganamento di questo orizzonte autofinzionale è merito dei social network, complice il regime di profilicità [sic] che regna da quando i social media sono diventati un mezzo di comunicazione plebiscitario, cioè da quando il regime di autenticità, ovvero l’idea che l’identità del soggetto risieda sotto lo strato di ruoli e costruzioni culturali, è stato soppiantato dall’adesione a criteri desunti osservando il modo in cui gli altri sono percepiti, uno sguardo di secondo ordine. Il profilo è quindi un’immagine di sé che il soggetto crea perché chi lo osserva lo percepisca come questo vorrebbe essere percepito.[1]

In una nicchia sociale come quella della poesia italiana contemporanea, nella quale gli scambi e le lotte per l’egemonia avvengono prevalentemente su Facebook, la profilicità rappresenta una strategia di costruzione dell’identità particolarmente efficace (un’estensione del sistema passante di cui parla G. Simonetti nel suo La letteratura circostante) e, nel caso di bottom text di A. F. Perozzi, un’ottima occasione per ‘memare’. Nei testi che compongono la sua quota di Quaderno, Perozzi ha sapientemente giocato con elementi della mitopoiesi contemporanea (precarietà lavorativa/esistenziale, case in affitto, telecomunicazioni, terzo paesaggio) dando forma a un io lirico medio, un perfetto Pinco Pallino tardo-ventenne. Come ha fatto brillantemente notare L. Di Palma,[2] i testi in oggetto non si sorreggono sulla logica della persuasione ma sulla post-ironia che mira a sfuggire «l’eccesso di significato»[3] accantonando l’idea che la poesia debba offrire un contenuto di verità. L’io lirico di bottom text è tanto Antonio Francesco Perozzi quanto Riccardo Innocenti, un profilo in cui noi, suoi followers, riconosciamo i tratti di un giovane insegnante di periferia, ma che nelle sue disfunzioni cognitive (proliferazione di «non so», «Non lo so dire», «credo», «può darsi») e nelle sue sovraesposizioni («gli stabili e il loro opaco silenzio», «per ogni cosa che si scampa cresce questo veleno», «si squaglia come stagno sopra gli ultimi arrivi», endecasillabi più o meno regolari) si rivela un non-player character che riattualizza in bit il soggetto di carta di Valerio Magrelli.

Così Perozzi ha saputo dare forma a un io lirico all’altezza dei nostri tempi interiorizzando «il meglio della temperie poetica recente derivata, in parte, da La pura superficie di Guido Mazzoni»[4] e rinunciando, almeno in parte, all’assertività. Il risultato è una versione di poesia post-lirica che nasce da una «presa di posizione ermeneutica»[5]incentrata sul «deficit cognitivo»[6] e che porta alle estreme conseguenze l’accettazione dello «status di individui finiti» che caratterizza la migliore poesia lirica degli ultimi decenni:[7] la posizione dell’io lirico non è quella privilegiata dell’intellettuale, anzi, essa è prostrata (bottom) rispetto a un discorso (text) di cui non è padrone. Lasciando quindi allo stato di accenno la notazione su: 1) il Veneto di Perozzi, che a differenza del Friuli affettivo di Benedetti, è ridotto a terzo paesaggio composto di atmosfere autistiche e backrooms 2) la coesistenza di endecasillabi e liste à la Giovenale,[8]preferisco continuare questa nota citando un testo di Nuova Poesia Troll che si chiama ANNALISA E LA SCENA e che vorrei riportare per intero.

Npt: ANNALISA E LA SCENA
nel video sulla malattia mentale mon Amour
Annalisa prima di riassumere tutto lo squallore del
mondo con la frase
Ehi garson ho un’idea
Dice una frase importantissima
Ovvero: Vengo per rubarti la scena

In pratica c’è questo ritrovo di proletari due punto zero
Ovvero senza prole
Questi non detentori del capitale
Ma partecipanti a titolo gratuito del discorso del potere
che
Convinti dal padrone di essere belli o di poterlo essere
Secondo una manipolazione terribile e funzionale al
padrone del concetto di bellezza
si rubano la scena
Fanno le diete vanno in palestra fanno i vaccini
prendono tutti i medicinali questi supposti belli che 
rubano la scena

Sono in realtà brutti grotteschi con la faccia che cade a
pezzi stanno sempre male sono poveri non possiedono
niente
Stanno male hanno la faccia della malattia
Sono delle maschere questi proletari
Si rubano la scena

Una scena che verrà ripetuta all’infinito
Nelle case popolari
Nelle vacanze low cost
sui luoghi di lavoro più osceni

Mentre i padroni del discorso se la ridono al sicuro[9]

Che cos’è questo bottom text se non il discorso visto dalla prospettiva dell’asservito? Perozzi flirta con la mitopoiesi di una minorità fatta di posti letto in affitto e mobili ikea sbeccati, riattualizzando a questo decennio le scritture della crisi. Troppo deep fried, troppo zeppo di microplastiche o bollito dal 5G, l’io lirico «non detentore di capitale» di bottom text è bloccato in un glitch che non ha nulla di eroico. Egli ha interiorizzato la precarietà che gli preclude pose istrioniche, lasciando come unica scappatoia (più una valvola di sfogo) un’ironia a tratti idiota, la risata della disfunzione cognitiva e della regressione a 8bit. L’impossibilità di computare e concretizzare contenuti di verità a partire dall’Erlebnis si accompagna a quella di agire incisivamente, condannandoci a chiosare, proporre «la deduzione di qualcosa di fabbricato da altri»,[10] o pensare che condividere grafici dal proprio profilo social sia una forma di attivismo. 


[1] Cfr. H. Moeller, P. J. D’Ambrosio, Il tuo profilo e te, traduzione di Luciano Martinoli, Milano, Mimesis, 2022.

[2] L. Di Palma, Su “bottom text” di Antonio Francesco Perozzi, «Lo spazio letterario», https://www.lospazioletterario.it/bottom-text-antonio-francesco-perozzi/?fbclid=IwAR0_Pvm61tcfrRAZ70Dzte6wcucctAVVg7db-8zDfPy_9cUvISBStysPk2E, 22 novembre 2023.

[3] A. F. Perozzi, Dank will never die (but you will) #1: su Nuova Poesia Troll, «lay0ut», https://www.layoutmagazine.it/dank-will-never-die-but-you-will-1-su-nuova-poesia-troll/

[4] https://www.lospazioletterario.it/bottom-text-antonio-francesco-perozzi/?fbclid=IwAR0_Pvm61tcfrRAZ70Dzte6wcucctAVVg7db-8zDfPy_9cUvISBStysPk2E, 19 ottobre 2022.

[5] A. Devicienti, Note di lettura a “bottom text” di Antonio Francesco Perozzi, «Via Lepsius», https://vialepsius.wordpress.com/2024/03/08/note-di-lettura-a-bottom-text-di-antonio-francesco-perozzi/?fbclid=IwAR1rHFCeJq9ZTzIgQURCWo6qMIF6sL9Qr3bOIIqsLpqLpZHQ6LA9wx1kXYA, 8 marzo 2024.

[6] Dalla prefazione di G. Policastro a bottom text, in Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2023, pp. 287-289: 287.

[7] R. Socci, Modi di deindividuazione, Udine, Mimesis, 2022, p. 47.

[8] Cfr. M. Giovenale, una semplicehttps://issuu.com/compostxt/docs/marco_giovenale__una_semplice5, 6 aprile 2010.

[9] Testo pubblicato dal profilo Facebook di Nuova Poesia Troll il 20 aprile 2023, https://www.facebook.com/nuovapoesiatroll

[10] A. F. Perozzi, Variazioni dell’edilizia, in Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2023, p. 310.


Poesia contemporanea. Sedicesimo quaderno italiano, a cura di F. Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2023, 25 €, 336 pp.