Nel passaggio da una tipologia di medium all’altro – e, nello specifico, dalla carta stampata alle varie forme del digitale – è cambiato non solo il modo in cui fruiamo della cultura, ma anche che cosa intendiamo per essa, come la articoliamo secondo gerarchie di valore, a chi viene indirizzata e da chi viene prodotta. Il digitale è quindi un vettore di frammentazione della cultura ma anche, come ha scritto Jürgen Habermas, un fattore di preoccupazione (Nuovo mutamento della sfera pubblica e politica deliberativa, Raffaello Cortina, 2023). Infatti, l’inedita densità della sfera pubblica e l’ecosistema dell’informazione culturale mettono in crisi e obbligano a ridisegnare lo spazio collettivo e condiviso di dialogo, intermediazione e verifica, che non poco ha contribuito allo sviluppo delle democrazie occidentali dalla fine del diciottesimo secolo a tutto il Novecento. Nel nuovo scenario, lettori, spettatori e ascoltatori non si limitano a essere una audience alla quale è chiesto di deliberare in base a qualcosa di approntato altrove. Essi in certa misura creano da sé ciò di cui per un altro verso fruiscono, a partire dalle notizie (Nicola Bruno e Raffaele Mastrolonardo, La scimmia che vinse il Pulitzer, Bruno Mondadori, 2011).
Giorgio Zanchini, in La cultura nei media. Dalla carta stampata alla frammentazione digitale (Carocci, 2024), invita a cogliere nella frammentazione della cultura i segni di un’evoluzione – per quanto problematica – e non di un’apocalisse. Nel fare ciò, egli si colloca nel solco d’un pensiero di matrice illuminista e cautamente progressista, come Habermas. Il testo di Zanchini, infatti, è sia un lavoro di alta divulgazione su come la presenza della cultura nei media si è trasformata nel corso dei decenni, sia un manuale di storia del giornalismo culturale, il cui intento didattico-informativo è evidente.
A fronte delle lamentele di chi si dispera per l’assenza di cultura dalla TV, dalle pagine dei quotidiani e, soprattutto, dai social network, Zanchini suggerisce di spostare l’attenzione dal singolo contenuto culturale – ad esempio, il programma televisivo sui libri di solito seguito da un pubblico molto limitato – al modo in cui forme e contenuti, mezzi e idee si ibridano. Quella della ibridazione, scrive Zanchini, è una logica da sempre molto diffusa in ambito anglosassone sotto la spinta commerciale dell’advertisement e del marketing, meno in Italia, per via del «retaggio della cultura alto-umanistica» (p. 52), e del peso storico delle figure di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Quel retaggio e quel peso, infatti, hanno contribuito sino a oggi a creare in Italia un’ostilità di fondo nei confronti della modernità – anzi, un suo fraintendimento, come direbbe Giuseppe Lupo (La modernità fraintesa, Marsilio, 2023). Tale ostilità è stata trasversale rispetto alle ideologie e in passato ha accomunato intellettuali comunisti, tradizionalisti e scettico-liberali come Pier Paolo Pasolini e Franco Fortini, Elémire Zolla ed Eugenio Montale. In anni più vicini a noi, e per quanto riguarda la stampa, si pensi alla iniziale diffidenza nei confronti di soluzioni editoriali come quelle che, in Inghilterra, hanno combinato la parte broadsheet di The Guardian, The Independent e The Times, con una parte tabloid dotata di features (viaggi, lifestyle, resorts, motori).
La logica dell’ibridazione – sviluppatasi dapprima nelle pubblicazioni britanniche – abbandona il mito della purezza della cultura e abbraccia la logica del palinsesto, della stratificazione dei messaggi e dei media, della loro reciproca contaminazione. In Italia, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sono stati proprio i palinsesti televisivi – la forma e i contenuti delle fiction, dei talk show, dei contenitori pomeridiani e poi dei reality – a porre agli intellettuali lo stesso problema che Elio Vittorini – non Pasolini, non Zolla – si poneva proattivamente sulle pagine del Politecnico: «allargare verso il basso l’area di fruizione della cultura» (p. 52). È tuttavia vero che, nello scenario attuale, la capillarità e la diffusione pressoché molecolare del digitale – tramite gli smartphone e l’integrazione di TV e web – rendono difficile perfino individuare un medium più nobile degli altri, un luogo ‘alto’ della cultura da estendere verso il basso (la nostra potrebbe essere addirittura una condizione postmediale, secondo quanto scrive Ruggero Eugeni in La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni, La Scuola, 2015). Anche chi si forma oggi nelle scuole e nelle università, infatti, lo fa a partire da posizioni e istituzioni ibride, progettate, in un certo senso, come palinsesti che integrano linguaggi, mezzi e tecniche dell’apprendimento.
Tuttavia, per Zanchini, il nuovo paesaggio dei media, per mantenere almeno lo spirito del progetto di Vittorini, ha bisogno di coltivare il pluralismo dei propri strumenti, senza privilegiare in maniera unilaterale quelli che fanno leva in maniera pressoché esclusiva su di una comunicazione facile, immediata, emotiva, fatta tipicamente d’immagini e musica, in modo da essere più appetibile per gli investimenti pubblicitari (Il futuro del leggere. Giovani e lettura, una storia contemporanea, a cura di Angelo Piero Cappello, Castelvecchi, 2023). «Credo innegabile», scrive Zanchini, «che la concentrazione resti quasi una precondizione per una reale assimilazione dei saperi, e in parte anche delle informazioni, e da questo punto di vista il supporto cartaceo conserva un’efficacia probabilmente superiore» (p. 56). Nella parola concentrazione, l’autore di La cultura nei media fa confluire quella capacità d’analisi e di pensiero critico che già nel 1985 il sociologo americano dei media Neil Postman considerava prerogativa d’una «mentalità tipografica», non d’una intelligenza calibrata sull’istantaneità delle reazioni e dello scambio compulsivo di messaggi (Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, 2021, pp. 58-75).
La concentrazione di cui scrive Zanchini, d’altra parte, è ciò di cui v’è bisogno in presenza della mole di «dati culturali» (p. 14) da cui siamo sommersi, e che sono prodotti a getto continuo dai singoli, dalle imprese culturali, creative e d’informazione. Se investire nella data science e «nell’analisi computazionale della cultura» (p. 15) è infatti una delle strategie da adottare per rendere sensata questa messe di informazioni, che ce ne facciamo di simili dati e analisi se poi non sappiamo concentrarci, appunto, sul significato di quel che ci passa sotto gli occhi, si concatena in nessi logici e in sequenze di pensiero? («L’unica parte importante della vita è il raccoglimento», scriveva Italo Svevo in una pagina del 4 aprile 1928, Le confessioni del vegliardo).
Quando sfiora questo argomento, Zanchini sembra affiancare una prospettiva non meramente di mercato a quella della pubblicità, che non è, per dirla con Svevo, la «l’unica parte importante della vita». In tal modo, Zanchini mostra una sensibilità che è ancora anglosassone, ma stavolta nel senso dell’originaria ispirazione della Scuola di Birmingham degli anni Cinquanta e Sessanta, quella dalla quale sono scaturiti i Cultural Studies (i Cultural Studies di allora, non gli Studies di oggi, che soprattutto negli Usa s’appaiano alle odierne culture wars, sulle quali si può leggere, di Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, nottetempo, 2024). In quegli anni la cultura – la cultura di massa – era concepita, da intellettuali come Richard Hoggart, Raymond Williams ed Edward P. Thompson, in stretto e dialettico contatto con la struttura materiale, economica, della società, ovvero con qualcosa di ‘pubblico’ che coinvolgeva direttamente la working class e i suoi interessi, e non era semplicemente calato dall’alto dall’investitore privato, dalla classe dominante. Quel che insomma per Zanchini fa da ponte tra il nostro essere inevitabilmente immersi in logiche di consumo e pubblicitarie, e una cultura che dica qualcosa di significativo, è sì la nostra capacità di pensare, di concentrarci e di ‘raccoglierci’, di leggere un testo ibridato con altri stimoli cognitivi e d’intrattenimento. Affinché però le due cose – la pubblicità e la capacità di riflettere su qualcosa di rilevante – stiano insieme, v’è bisogno per l’autore de La cultura nei media anche d’un punto di vista sovraordinato a quello dell’interesse economico privato, un punto di vista che concepisca la cultura come un bene in sé (la «parte importante»), ovvero come qualcosa su cui valga davvero la pena concentrarsi, non solo come un costo in un marketing plan, che generi un quantificabile profitto economico per qualcuno.
Su questo punto, Zanchini segue la via anglosassone e non quella americana, benché degli Usa egli non possa non ricordare le eccezioni di qualità, e cariche di pubblicità in cartaceo e in digitale, del New Yorker, dell’Atlantic Monthly, di Harper’s e di Nation. Zanchini, quando pensa alla cultura come a un bene che si giustifica e legittima da sé, ha comunque in mente il caso della BBC in Inghilterra (non gli Usa), ove lo Stato ha gestito l’etere sin dagli anni Sessanta inoltrati, con lo scopo, enunciato dal direttore di allora John Reith, «to educate, to inform, to entertain» (p. 107). Oggi, in necessaria competizione con i GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), la BBC – in particolare per quel che riguarda la cultura in radio – si è dotata di app proprietarie. In tal modo, «il servizio pubblico britannico è riuscito a presidiare vecchi e nuovi media e a trasformarsi in una piattaforma multimediale che in sostanza riaggiorna con gli strumenti di oggi il vecchio obiettivo di educare, informare e intrattenere» (p. 122). La cultura, quindi, viene accostata, oltre che in un’ottica pubblicitaria – foriera di segmentazioni di mercato e ibridismi dei mezzi – anche e soprattutto in quella di «servizio pubblico», per generare «public value» (pp. 122 e 133).
Le pagine sul servizio pubblico sono quelle in cui Zanchini esprime maggiormente la propria vena idealistica, che poi è quella che in genere motiva al giornalismo, alla ricerca, all’insegnamento, al lavoro culturale. Proprio parlando degli insegnanti –professionisti troppo spesso spregiati, in Italia e non solo, perché ritenuti improduttivi, a meno che si riciclino nella pubblicità e nel marketing –, Zanchini sembra fare di essi l’emblema di chi, valorizzando la cultura come bene in sé, ne tiene letteralmente in vita l’industria. Pur non essendo abbienti, gli insegnanti comprano libri, leggono giornali, sovente accumulandone oltre la loro stessa capacità di leggere in tempi brevi, perché hanno «un ricco capitale culturale», per dirla con le categorie del sociologo Pierre Bourdieu, «e dunque un peso notevole nella vita della società» (p. 64).
Certo, non si può chiedere agli insegnanti, né ai precari della cultura, che nonostante tutto continuano a leggere forsennatamente, di salvare come degli eroi un po’ comici le librerie, i giornali, le radio, le TV, i podcast di storia dell’arte e così via. Tuttavia, è forse nell’idea dell’insegnamento – ovvero nel porsi al servizio d’un bene oggettivo, quello dell’educazione e della crescita di sé e degli altri – che si può trovare un’ispirazione che orienti l’industria culturale alla qualità, alla convivenza sociale, alla creatività.
Sottotraccia, nel libro di Zanchini, c’è qualcosa di utopico, che lascia ben sperare, anche quando proviene dagli Usa, il Paese dei Mad Men e dei lupi di Wall Street:
Negli Stati Uniti è nata di recente un’iniziativa singolare, Wash & Learn («lava e impara»), che ha trasformato le lavanderie a gettoni in biblioteche e poli di accesso digitale al fine di coinvolgere le realtà marginali, nelle quali l’isolamento e l’analfabetismo sono ancora oggi un ostacolo da arginare. La scelta della lavanderia pubblica come luogo per creare una catena bibliotecaria diffusa è stata suggerita dalle sue stesse caratteristiche strutturali: aperta tutti i giorni della settimana, frequentata da numerosi adulti e bambini costretti a rispettare un tempo di attesa di circa 40-60 minuti. (p. 172)
Giorgio Zanchini, La cultura nei media. Dalla carta stampata alla frammentazione digitale, Roma, Carocci, 2024, pp. 212, € 17.