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La lingua inventata di Centomilioni

Dall’esordio di Marta Cai si sarebbe già potuto indovinare che un romanzo come Centomilioni sarebbe, prima o poi, arrivato alla pubblicazione. Il suo primo libro, Enti di Ragione, pubblicato da Sui Generis nel 2019, spiccava già per almeno due motivi: il primo, quello di essere una raccolta di racconti in un panorama editoriale in cui esordire con dei racconti è considerato (per qualche oscura ragione) eresia; il secondo, quello di presentarsi da subito come un libro altamente sofisticato, capace non solo di mostrare grande padronanza linguistica e strutturale da parte dell’autrice, ma anche una certa capacità di nascondere al suo interno enigmi di cui si percepiscono le pulsazioni sotterranee. Nel caso di Enti di Ragione, infatti, quella che a primo avviso potrebbe sembrare una sequenza di storie slegate fra loro si intreccia man mano in una rete di coincidenze narrative, riapparizioni di personaggi, ricorrenze di nomi tra un racconto e l’altro che finiscono per tessersi assieme in una sorta di romanzo – o se non in un romanzo perlomeno in una di quelle raccolte di racconti organiche à la Dubliners dove permane la sensazione che tutte le storie si svolgano sullo sfondo di una scenografia unica, che pur restando alle loro spalle sembra poter contenere in sé una trama segreta di cui la parte scritta – e letta – non è che una frazione emersa.

Dopo questo esordio notevole (ma purtroppo non abbastanza notato), il primo romanzo di Marta Cai, Centomilioni, uscito nel 2023 per Einaudi nella collana gli Unici, ha ottenuto un meritato successo di critica, arrivando a essere selezionato per la cinquina finalista del Premio Campiello. Centomilioni infatti espande e approfondisce tutto ciò che in Enti di ragione l’autrice aveva già dimostrato di poter fare: la pagina, presa singolarmente, è ancora una volta di grande qualità, capace di alternare (e combinare) lirismo letterario e variazioni sul registro parlato, così come periodare articolato e paratassi. Ora, inoltre, nel contesto ampliato del romanzo, Marta Cai sembra aver trovato abbastanza spazio per permettere alle involuzioni della lingua di riflettere su di sé, producendo un libro capace di calarsi nella natura della propria composizione e in quella della letteratura stessa – arrivando, insieme e attraverso di esse, a parlare del mondo che lo circonda.

Centomilioni è infatti la storia di una persona che, scrivendo e scegliendo come scrivere, inventa la propria storia. Si potrebbe, rievocando i modelli forse in parte Joyciani del libro – Dubliners è menzionato più volte dalla protagonista, assieme ad altri libri e sempre in contesti che lasciano indovinare possibili influenze su Centomilioni – descriverlo come un libro in cui non accade quasi nulla, o in cui tutto quello che accade è completamente ordinario e prosaico, mentre la trama, quella vera, si svolge sotterraneamente: appunto, nella lingua e nei pensieri che essa esprime su ciò che potrebbe accadere e invece non è accaduto. Ciò che avviene in superficie è questo: Teresa, un’insegnante d’inglese di mezza età in una città di provincia, una «signorina senza qualità» (p. 35), come lei stessa si definisce, si innamora di un suo ex studente, Alessandro, ma tra i due non succede nulla: la trama potenziale non si innesca, la storia d’amore non accade, non ci si abbraccia né ci si bacia, Teresa e Alessandro a malapena si incontrano. I sedici capitoli che compongono il libro si dispongono in cerchi concentrici (così Teresa descrive la struttura di Wuthering Heights a p. 104), o più precisamente a spirale, attorno al centro di un riuscitissimo nono capitolo in cui si descrive la cittadina in cui ha luogo Centomilioni, ovvero l’ambiente che condanna i personaggi che lo abitano, un sistema di satelliti con tanto di sole platonico piazzato al centro: il denaro, «L’immutabile, l’eterno, il buono, il bello, il vero» (p. 68). Eppure, in questi capitoli non leggiamo una storia d’amore, ma la storia dello schiacciamento progressivo e della compressione inarrestabile di una vita umana all’interno di questa cittadina e del suo contesto sociale essenzialmente ostile: la vita di Teresa è infatti interamente asservita a quella dei genitori, Piero e Maria, e in particolare dominata dalle richieste, raccomandazioni, opinioni e obiezioni continue della madre. La conseguenza di questa compressione, di questo non potersi esprimere e a volte nemmeno parlare, è che la vita, non trovando sbocchi, finisce per zampillare fuori in direzioni alternative, sottomarine, fantastiche, proprio attraverso la scrittura, che nel caso di Teresa è la scrittura di un diario in cui evocare il sogno dell’amore per Alessandro.

«Scrivo il suo nome, lui esiste» (p. 24), scrive Teresa; e, come a soddisfare la sua richiesta, nel capitolo immediatamente successivo, il terzo, Alessandro diventa a sua volta un personaggio. La sua storia occupa solamente quattro dei sedici capitoli del libro e ha quindi uno spazio minore rispetto a quella di Teresa, ma in questi quattro capitoli sono rivelati i veri motivi delle apparizioni di Alessandro nella vita di lei, tra cui il principale, ma non l’unico, è quello di sedurla per sottrarle «cinquantamilaerotti» (p. 69) euro, ovvero i famosi cento milioni del titolo che, come viene rivelato nel cruciale nono capitolo, «in origine erano molti di più, zampillati da una fonte nera e concentrata, sfuggita ai finanzieri, spartiti tra soci, impresari e dipendenti di maggior fiducia, e infine, nella forma di cento, divisi fra loro tre, Piero, Maria e Teresa» (pp. 67-68). L’altro motivo, più sotterraneo, più segreto, è il tentativo di sfuggire a una situazione familiare a sua volta soffocante, e a una condizione di isolamento non troppo diversa da quella di Teresa.

Entrambi i personaggi cercano una via d’uscita dalla «cittadina né grande né piccola, né nota né ignota» (p. 64) e dalle vite che vi conducono; entrambi, per la propria fuga, si affidano a un’allucinazione. Leggendo sorge però il dubbio che sia una terza voce ad allucinare entrambi, o a orchestrare le allucinazioni evocate dalla solitudine di Teresa e Alessandro: come scrive Teresa nel suo diario, «I segreti è inutile nasconderli, bisogna scriverli o pronunciarli in una lingua straniera. Meglio ancora in una lingua inventata, se si è in grado» (p. 101). Una lingua inventata è certamente quella della voce narrante di Centomilioni, che finge di raccontare le vicende di Teresa e Alessandro col distacco della terza persona, ma viene invece costantemente contaminata dai pensieri di entrambi, che irrompono all’interno della narrazione in frasi, frammenti di frasi e a volte interi paragrafi di flusso di coscienza. Forse più interessante ancora è il fatto che la voce narrante non solo si lascia contaminare dai pensieri dei personaggi che narra, ma sembra persino poterli contaminare essa stessa, come avviene ad esempio in questo paragrafo:

«È difficile, bisogna farlo. Lo si fa. Gli altri lo fanno. L’ha fatto persino lei. Ha bevuto il caffè, ha fumato una sigaretta davanti alla vetrina, ha buttato il mozzicone nel cestino, è entrata nel negozio. Una persona qualsiasi. Una donna qualunque, in un negozio di catena di media qualità, odoroso di un mix fiori e nylon, per farti dimenticare dove sei, che sei qui, in una città dove sei triste. In questo negozio sei al sicuro, puoi comprare quello che vuoi. La commessa le viene incontro sorridente. Teresa spiega che darà un’occhiata, in caso di bisogno la chiamerà senz’altro. E questa è fatta. Non ha mai comprato un vestito da sola. Questa è da fare. Non è difficile. Viene la nausea dal profumo, ma non è difficile. Zitta, voce nella testa, zitta, levati di torno, vattene. Compro cosa voglio. Non ti piace il tessuto? Lo trovi caro?» (p. 106)

Qui i pensieri di Teresa si confondono con la voce narrante e a tratti sembrano intrattenere con essi un dialogo. È davvero la voce narrante a dire a Teresa «sei al sicuro, puoi comprare quello che vuoi»? O è Teresa che rassicura sé stessa con queste frasi? E, di nuovo, è Teresa o la voce narrante a incitarla con il suo «Questo è da fare. Non è difficile», a cui Teresa sembra rispondere direttamente con «Zitta, voce nella testa, zitta, levati di torno, vattene»?

Oltre a mostrare una plasticità quasi assoluta e una capacità di collocarsi a piacere dentro e fuori dai personaggi che descrive, la voce narrante a volte interroga direttamente il lettore (ad esempio a p. 10: «La storia che ti sto narrando – riesco a fartela vedere?») e a un certo punto arriva anche a discolparsi apertamente: «Andrà a finire che [Teresa] non ricorderà più com’è, ammesso che l’abbia mai saputo. Non è colpa mia, insomma» (p. 100). A tratti viene quasi il dubbio che la stessa Teresa stia in realtà sognando da sé tutto il libro, inclusi i pensieri di Alessandro, con uno di quei procedimenti per cui, nella solitudine, si proiettano i propri pensieri in persone incontrate per caso – il che spiegherebbe una certa iper-coscienza del proprio fascino e della propria forza da parte di quest’ultimo, forse poco comuni in un adolescente. Teresa infatti attribuisce ad Alessandro proprio queste caratteristiche nelle pagine di diario: «Lui è forte, più forte di me, è coraggioso, è sbruffone. Perciò lo amo, perciò lo temo, perché vorrei essere come lui» (p. 36). E sempre Teresa, nel paragrafo finale della pagina di diario in cui già si era detta «scrivo il suo nome, lui esiste» (p. 24), dice anche, nell’ultimo paragrafo della pagina di diario posta a chiusura del capitolo, poco prima che Alessandro faccia la sua prima apparizione nel capitolo successivo: «Signore, scrivo come un’adolescente. E se letteralmente lo fossi?» (p.25).

Seguendo questi indizi, alcune tra le pagine più belle del libro sembrano portarci sulla soglia di un mistero ancora più profondo, quando la «voce nella testa» (p. 106), che è forse la voce che racconta l’intero romanzo Centomilioni, viene prima identificata con un uccellino e poi con un pappagallo, forse proprio lo stesso del racconto Un cuore semplice di Flaubert, se vogliamo vedere Teresa non solo come una signorina senza qualità, ma anche come una discendente delle sognatrici dello scrittore francese – una Félicité, una Salammbô, un’Emma Bovary che proprio a partire da queste pagine si risveglia dal suo sogno e si trasfigura in un personaggio nuovo:

«Munita di una stecca di sigarette, due accendini e un posacenere, sposta la scrivania contro la porta e si sistema fra le lenzuola. A volte seduta, con la schiena appoggiata alla testiera, altre sdraiata per ammirare intensamente una cosetta che le frulla nella testa, una specie di uccellino piccolo piccolo, una pallina che dalla nuca sale fino alla fronte, per incontrare il linguaggio, si capisce. Come debole uccellino in fiduciosa attesa dell’Aquila dorata, diceva la santa Teresina. L’uccellino diventa un antipatico pappagallo che ripete una sola domanda: E se fosse pazzo? E se fosse pazzo? […] Sciò sciò, pappagallaccio del malaugurio. […] E se lui fosse pazzo e io bella?» (pp. 98-100)

Il procedimento con cui la voce narrante sembra identificarsi con l’uccellino, col pappagallo che suggerisce l’idea, a sua volta folle, di una possibile pazzia di Alessandro, ricorda molto quella con cui certi pensieri affiorano spontaneamente in chi li pensa, come se fossero già frasi formate, non pensate, ma suggerite da qualcun altro, da una voce interna che non è la nostra – eppure parla. Qui è la voce narrante a suggerire a Teresa un pensiero che solo dopo essere stato suggerito diventa di Teresa, «E se lui fosse pazzo e io bella?», pensiero che è il culmine dell’allucinazione della protagonista – da cui, nei capitoli finali, non potrà che riaffiorare lentamente. Pian piano, infatti, scompaiono tutti i fantasmi evocati dalla solitudine. Teresa si rende conto di essere sul punto di venire ingannata e si ritira senza dare soldi ad Alessandro, diventando, diversamente dalle protagoniste di Flaubert, una sognatrice disillusa. La voce che, da dentro, l’ha scritta, e in cui forse ha scritto sé stessa, le impedisce di farsi del male e la salva, ma allo stesso tempo le rivela di avere sognato qualcosa che non sarebbe mai potuto davvero accadere.

Tutto quello che non è accaduto, però, è affiorato anch’esso, in qualche modo, dal mondo del sogno a quello reale, diventando una pagina scritta in una lingua inventata. Certo, Teresa non ha epifanie finali da tempo ritrovato: non si scopre scrittrice, non produce (perlomeno non esplicitamente) la storia che abbiamo appena finito di leggere; ma tanto di ciò che abbiamo letto su di lei sottintende quella combinazione di solitudine e capacità di allucinare particolari che si ingigantiscono o di fronte a cui ci si rimpicciolisce, tipiche della letteratura. E alla fine, epifania o meno, il lettore si ritrova comunque in mano questo libro, Centomilioni, che come tutta la letteratura di qualità, riflettendo un aspetto del mondo, ha riflettuto anche su di sé in quanto riflesso del mondo.


Marta Cai, Centomilioni, Torino, Einaudi 2023, 14,50 €, 144 pp.