Di recentissima uscita è la serie TV Ripley, produzione Netflix diretta da Steven Zillian e tratta dal romanzo del 1958 The Talented Mr. Ripley, di Patricia Highsmith. La vicenda del giovane Tom Ripley che, su commissione del milionario imprenditore Herbert Greenleaf, si reca in Italia per riportare a casa il rampollo della famiglia, Richard (che di qui in poi chiameremo Dickie), si declina in tragedia quando il primo, invidioso del secondo, lo uccide a sangue freddo durante un giro in barca e ne ruba l’identità.
È immediato il successo scaturito dalla tetralogia di Highsmith, specie dei primi due volumi, e dà inizio a una lunga e fruttuosa sequela di riadattamenti cinematografici e televisivi. Il più iconico, che senza dubbio è rimasto nella coscienza collettiva, è l’omonimo film del 1999, diretto da Anthony Minghella (già premio Oscar per Il paziente inglese nel 1996), ed è naturale per noi, come forse per il grande pubblico, vagliare il nuovissimo riadattamento col metro di paragone del suddetto film. La serie è stata rilasciata da qualche settimana, ma sta già facendo scalpitare il web attraverso contributi giornalistici, omaggi, ma anche stroncature, molte delle quali attuando comparazioni e confronti con il libro di Highsmith.
Ecco. Iniziamo col dire che un confronto di questo tipo ci sembra inadatto: passati sono oramai i tempi in cui leggevamo testi letterari per poi far a pezzi le loro trasposizioni cinematografiche, superato e ben lontano è il nostro io adolescente che vorrebbe ripercorrere visivamente, pedissequamente il proprio libro preferito. Dovremmo oramai aver ben chiara la differenza che si instaura tra diversi media, tra libri e prodotti filmici/televisivi. L’uno, dunque, non deve nulla all’altro e non saperlo, oppure fingere di non farlo per ridestare banali polemiche, appiattisce soltanto quella che invece potrebbe diventare una critica costruttiva e utile per beneficiare dell’opera in questione.
Al contrario, quello che questa nuova serie ci pare essere è un prodotto avvincente che mira a reinterpretare le gesta del talentuosissimo Tom Ripley mediante la ripulitura di alcuni elementi fulcro del film del ’99 – mentre non ci soffermiamo su altri riadattamenti per ragioni di spazio. Il primo aspetto centrale, in questa nuova produzione Netflix, è la perdita di colore, da intendersi in tre diverse declinazioni: (1) Perde di colore la fotografia, che gioca coi soli toni del bianco e del nero, ma soprattutto con le luci e le ombre, facendosi carico, come vedremo, di tutta una simbologia che rimanda all’artista Caravaggio. (2) Perde di colore, nel senso di entusiasmo, eccessiva drammaticità l’intera visione dell’Italia, venendo così meno (in grazia di Dio) la stereotipica lettura americana del Bel Paese e dei suoi abitanti. (3) Perdono di colore persino gli stessi personaggi, ridotti nel fascino, e così del loro carisma e la loro eccentricità – oltre che della loro sublime carica estetica.
Partiamo proprio da quest’ultimo punto. Il nuovo Tom Ripley (Andrew Scott) è un giovane truffatore di New York che opera falsificando assegni bancari, non solo la propria identità; già avvezzo all’arte della truffa, quindi, rispetto alla versione di Matt Damon, che altro non era se non uno sbarbatello squattrinato che immaginiamo Franca Leosini avrebbe definito “bipede sgualcito”. Il talento di Mr. Ripley, ribadito nel film ma non nella serie, resta tuttavia immutato, quello di calarsi con naturalezza nelle vesti e nei comportamenti dell’altro. Ma se l’arte mimetica è per Scott un vero mestiere, un espediente per ingannare sistematicamente il prossimo, nel personaggio di Damon rivelava anche un tangibile disturbo della personalità, ed è proprio in questo che risiedeva la forza del personaggio, nella progressiva psicosi alimentata dall’invidia e che degenera in un omicidio non premeditato.
Dickie Greenleaf (Johnny Flynn) è invece un aspirante pittore e scrittore o, per essere più obiettivi, un ricco nullafacente con la puzza sotto il naso e in fuga dalla famiglia che trova rifugio nel piccolo borgo di Atrani, nella costiera amalfitana. Anche qui, le differenze tra le due versioni sono alquanto palesi: il Dickie del ’99 è interpretato da Jude Law – tutt’altro che bipede sgualcito –, un sexy biondone da poster come quelli che brulicavano tra i Cioè di fine secolo scorso. È un giovane spavaldo, distinto, che veste sempre all’ultima moda. È appassionato di arte e di jazz, si diletta col sax ma anche col sex (al buon dongiovanni non bastava infatti la compagnia della fidanzata, Marge). Sotto il sole campano splende come l’angelo dorato del Victoria Memorial. «The thing with Dickie… it’s like the sun shines on you, and it’s glorious. And then he forgets you, and it’s very, very cold», dice la Marge del 1999 (Gwyneth Paltrow) a Tom.
D’oro sono dunque i suoi averi, d’oro sono i suoi sogni, d’oro sarebbe stato il suo futuro se solo un farabutto non avesse interferito nei piani. Questo bagliore e carisma mancano nel Dickie interpretato da Flynn, una scelta forse voluta, pensiamo noi, se non altro perché il film del ’99 era un tripudio di fascino da far strabuzzare gli occhi, che faceva una sublimazione quasi eccessiva della bellezza. Che la scelta di attori meno statuari (ma non per questo meno avvenenti) sia stata dettata da questo? Abbassare il livello del sublime, limitare la rappresentazione del bello ideale per porre un accento rigoroso su elementi più meritevoli della nostra attenzione.
Uno fra questi, l’uso degli ambienti, una rappresentazione dell’Italia che nel nuovo Ripley si fregia di un’autenticità suggestiva proprio per la sua decadenza. La costiera amalfitana è, sì, magnificente ma ha anche rampe infinite di scalinate che tagliano il fiato. Gli ascensori scorrono attraverso palazzi neoclassici, ma sono spesso guasti e tremendamente rumorosi. A Venezia le gondole sono pur sempre romantiche, ma quanto sanno essere lente e noiose? I canali sono quelli caratteristici di Canaletto, ma sono anche ricoperti dal muschio scivoloso e potenzialmente pericoloso. Sembreranno elementi da poco, ma è nei piccoli dettagli che traspare la sensazione di autentica realtà. Steven Zillian non sta magnificando l’Italia, la sta osservando con minuzia.
Ecco allora l’abbandono della stereotipica e carnevalesca Italia vista dall’occhio medio statunitense – che ci aveva dato il colpo di grazia con la seconda stagione di The White Lotus –, quella che ci fa alzare gli occhi quando un giovane con coppola in testa sfreccia sul motorino lasciando andare un “we uagliò!”, quella tendenzialmente poco abbiente, che valuta la ricchezza non in termini materiali, come una barchetta a vela o dei mocassini Ferragamo, ma in valore umano, quello invidiato dal forestiero di turno che vorrebbe immergersi nel più puro folclore da trallallero-trallallà. Non saremo mai abbastanza grate a Zillian per averci salvate dall’ennesima volgarizzazione dell’Italia, l’encomiabile rispetto nel risparmiarci il personaggio burlone alla Fiorello (oltre che Fiorello stesso), per aver sostituito le urla tra compari al bar ed eventuali inutili sbraitamenti di strada con un silenzio che trasuda austerità, che induce alla riflessione. Al colorito italiano alla Vanzina, Zillian contrappone una trafila di figure argute e sveglie che osservano il protagonista in maniera sempre guardinga; dalla domestica atranese di casa Greenleaf, ai receptionist degli hotel in cui l’assassino trova rifugio, fino al sagace ispettore Pietro Ravini (Maurizio Lombardi), chiunque è in grado di cogliere l’aura sinistra attorno a un uomo facoltoso, di bell’aspetto, ma dal cui sguardo obliquo traspare una costante incertezza di fondo.
Ulteriore elemento meritevole è il lavoro eccelso di fotografia svolto da Robert Elswitt, che non necessita di certo del nostro encomio (vincitore dell’Oscar nel 2008 per la fotografia de Il Petroliere, di Paul Thomas Anderson). Elswitt usa la luce e gli spazi per spezzare e incorniciare i suoi soggetti senza mai lasciare nulla al caso, anzi, facendo in modo che ogni singola inquadratura diventi una scoperta. Anche la sua idea di Italia differisce dal quella solita, abusatissima, da cartolina, ma viene studiata da vicino, quasi sottraendosi allo sguardo dello straniero che la vede per la prima volta e avvicinandosi con discrezione alla dimensione dei nativi. La scelta del bianco e nero oltretutto è sicuramente peculiare, obbligando a un lavoro completamente diverso rispetto al classico, sfavillante colore. Ed Elswitt ci si butta a capofitto, approfittando dei contrasti e delle prospettive, del bianco accecante di Atrani come del buio tra i vicoli di Napoli.
Ma il bianco e nero non è solo una scelta del reparto tecnico, bensì rimarca tutta una peculiare simbologia di impianto caravaggesco. Scoperto durante una gita a Napoli assieme a Dickie, il Merisi diventa subito artista amatissimo da Tom, tanto da acquistarne il catalogo delle opere da cui trarre un itinerario dei luoghi d’Italia e che seguirà per rinvenire le opere del milanese. Dietro la passione per l’arte di Caravaggio non si cela solo il personale gusto estetico del protagonista, bensì una vicinanza anche sul piano spirituale che sfocerà quasi nella simbiosi: nel 1606, infatti, l’artista viene accusato di omicidio e durante il suo esilio a Napoli – luogo nient’affatto casuale – realizza l’opera David con la testa di Golia. Nella scena del giovane David che, con una mano, tiene per i capelli la testa mozzata di Golia mentre con l’altra brandisce la spada che riporta la dicitura «H-AS OS» (H[umiltas] O[ccidit] S[uperbiam]), è da rintracciare una doppia autoidentificazione dell’artista che assegna il proprio viso a entrambi i soggetti, prendendo non soltanto le vesti di uccisore e di ucciso, ma quelle dell’umile che uccide il superbo.
Scoprire che anche Caravaggio si sia macchiato di omicidio suscita in Tom un moto di empatia, ma anche conforto che incentiverebbe all’autoassoluzione. Vero è che col Caravaggio si istaurano tanto delle relazioni di tipo analogico (come con quest’opera in particolare, che mette in risalto aspetti più intrinsecamente psicologici del protagonista), quanto rapporti di antitesi: se nel riprodurre l’omicidio Merisi lascia trasparire anche il proprio rimorso, Tom attua un netto rifiuto dell’introspezione e cerca, anzi, espedienti per giustificare le sue azioni per non soccombere di fronte alla propria fragilità. Nel gesto dell’umile, e dell’umiliato, che annienta il superbo si cela anche un odio di classe che Tom cerca di sopprimere, ma di cui non si può certo sbarazzare a colpi di remi, o di posaceneri acuminati.
Un’ultima riflessione la dedichiamo all’uso pratico della luce e dell’ombra in quanto artificio per alterare la realtà, operazione mistificatoria d’impianto caravaggesco, per l’appunto, in cui il significante (il bianco e il nero) viene trasferito nel significato. Siamo a qualche episodio dalla fine, a Roma Tom/Dickie si è sbarazzato di Freddie (Eliot Sumner), ma con l’ispettore Ravini alle calcagna si sposta comunque in direzione di Palermo. La situazione è oramai quasi sull’orlo del collasso, per non compromettersi ulteriormente decide di abbandonare le vesti di Dickie (facendone salpare il fantasma verso Tunisi) e si dirige a Venezia per riacquisire la propria identità. Ma anche qui il furfante non trova pace, disturbato ancora una volta dall’ispettore che richiede un tête-à-tête con Tom Ripley in persona. Ora, la fantascienza o qualsivoglia trucco di magia non hanno motivo alcuno di esistere, in una simile produzione, né il momento storico in cui essa si svolge consente al protagonista di usufruire di sotterfugi da laboratorio come quello, molto discutibile, di John Travolta in Face Off, motivo per cui Tom non può che ricorrere a due soluzioni: darsela a gambe levate ancora una volta, oppure ingegnarsi e pensare a un abile travestimento. La seconda opzione è anche la più intrigante, se non altro perché consente allo stratega di impiegare attivamente la propria conoscenza dell’arte caravaggesca, fabbricando così un inganno più insidioso di quello della cadrega. La lezione di Caravaggio passa questa volta dalla Vocazione di San Matteo, opera in cui, sul piano tecnico, la protagonista è l’ombra spezzata dal fascio di luce che, da destra verso il basso, attraversa la stanza e rivela solo alcuni lineamenti dei visi che emergono dal buio.
Questa, dunque, la lezione di Caravaggio: se sfruttata a dovere, la luce non è soltanto capace di dare forma alle figure e agli oggetti, ma di superare la mera connotazione realistica e contribuire al giogo della verosimiglianza. Il travestimento di Tom non è affatto articolato (una parrucca, della barba), sarà infatti necessario studiare la traiettoria della luce con meticolosità, modularla posizionando strategicamente le poche lampade a disposizione e occultare i tratti distintivi del volto.
L’ars mistificatoria dà così i suoi frutti e l’ispettore, uomo estremamente scaltro e perspicace fino a quel momento, viene turlupinato da quello che potrebbe sembrare un buffo cliché cinematografico. Senza nulla togliere alla lezione che Caravaggio trasmette per osmosi da un semplice catalogo d’arte, la scena è tanto inverosimile da sfociare nel comico, ma come abbiamo sorvolato sul debole mascheramento di tanti altri eroi e personaggi televisivi (da Clark Kent che senza occhiali si tramuta in Superman, al signor Burns travestito da Secco Jones), anche qui accondiscenderemo a una scelta registica attuata, secondo noi, per sottolineare l’importanza della metafora. Dopotutto, come dice anche il prete della chiesa Contarelli, dove Tom si reca per visitare il trittico del Ciclo di San Matteo, alla fine è tutto lì, «è la luce».