I.
Scrivere di o su Antonin Artaud deve suonare fin da subito come un ossimoro, una contraddizione in termini. La violenza del suo destino di paria, i nove anni di internamento in diversi ospedali psichiatrici e, soprattutto, gli sparsi lacerti di quel “corpo senza organi” che lui mai avrebbe chiamato “opere” lasciano ammutoliti dal dolore (e non per pietà, quasi per meraviglia). Folgorante se citato con cautela in piccole dosi, in aforismi di due o tre righe, Artaud diventa insostenibile se affrontato sulla lunga distanza. Per seguirne la traiettoria, bisogna infatti percorrere tappa dopo tappa il viaggio che lo ha condotto, con scrupolosa meticolosità, oltre la soglia dell’auto-annientamento e dell’ipertrofia del corpo che si fa solo ricettacolo e letto di Procuste dell’Io («E io dicevo in mezzo al vuoto, vuoto delle sette eternità: L’io non è il corpo, è il corpo che è l’io», p. 128). In Artaud, questi due concetti coincidono quasi sempre, e si rovesciano di continuo nei loro opposti. Così, il pensiero diventa dolore fisico, il corpo “carne spirituale” pura e la mente tempio incestuoso, lo spirito prima ascesi e poi inganno, la salute «una forma imperfetta di malattia» e la malattia l’ultimo stadio mai pacificato di una santità al rovescio, assoluta perché antidogmatica, continuamente minacciata dalla “magia nera” dei reparti psichiatrici, della società tutta che “suicida” i(l) propri(o) poeti(a) e lo condanna alla reclusione e al delirio.
«L’uso che Artaud fa del linguaggio è profondamente contraddittorio. Il suo tessuto metaforico è materialistico (trasforma la mente in una cosa o in un oggetto), ma ciò che egli esige dalla mente equivale al più puro idealismo filosofico». Così Susan Sontag, nel saggio introduttivo all’edizione statunitense delle opere scelte di Artaud (Selected Writings, Farrar, Straus e Giroux, 1976, p. XXI[1]). Artaud è forse più di chiunque altro il poeta che parla dai «luoghi non rivelati della disfatta», tanto conscio della lacerazione che intercorre tra la rappresentazione mentale di un concetto e il suo coerente sviluppo prima in forma di pensiero e poi di realtà verbale, da dichiarare prima di tutto la propria “impotenza cogitatrice”. Un altro nemico del vaniloquio concettuale, Albert Camus, ha scritto che «vivere è dar vita all’ assurdo (…); io non posso provare che la mia propria libertà» (cfr., Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde 1942). Il punto è che della “libertà” come lotta, “compromesso liberatorio” e pure necessario con l’assurdo la furia iconoclasta e in fondo didattica, pedagogica, da moralista antisociale di Artaud non sa che farsene. Certo, si potrebbe dire non a torto che Camus conoscesse la libertà meglio di Artaud, che rimane invece infestato da sé stesso, da una vita interiore che giudica sempre insoddisfacente. Se guardati attraverso la lente della carne, della sua carne martirizzata, le dicotomie del pensiero non sono che giochetti fasulli e micragnosi sotto cui si nasconde l’unica verità possibile: «essere per me non vuol dire né più né MENO di non essere, e non c’è niente che voglia dire qualcosa per me, e del resto ancora meno e neanche più il silenzio» (p.119).
Non più “dire”, quindi, perché non c’è ancora nell’uomo sufficiente pensiero non degradato per poter davvero dire qualcosa, ma mostrare che esistono altre vie possibili: l’esoterismo (poi rinnegato) ma soprattutto la scena, il luogo per eccellenza deputato per Artaud all’apprendimento e alla trasformazione interiore. Il celebre “teatro della crudeltà” è difatti il progetto impossibile (e mai davvero messo in pratica) di ammaestrare il pubblico attraverso la violenza e di purificarlo, un’anti-catarsi che persino allo stadio di pura teoria ha influenzato lo sviluppo del teatro contemporaneo. Parlare di Antonin Artaud significa quindi esporsi al rischio del farfugliamento, del “parlare in lingue” che, tuttavia, gli era dolorosamente caro. D’altra parte, lui aveva già predetto, con palese idiosincrasia, il suo status di martire celebrato post mortem:
barbe d’asini che non siete altro, porci pertinenti, maestri del falso verbo, ritrattisti da strapazzo, feuillettonisti, piani terra, allevatori, entomologi, piaghe della mia lingua. Ve lo ripeto, il fatto che io non sia più in possesso della mia lingua, non è una ragione perché voi persistiate, perché voi vi ostiniate a farne uso. Già lo so, verrò capito tra dieci anni da gente che farà quel che fate voi oggi. Allora si vedranno i miei geyser, i miei ghiacciai, si imparerà a denaturare i miei veleni, verranno svelati i trucchi della mia anima (p. 37).
II.
Leggendo Artaud si scopre presto quanto lontano si sia spinta la sua intransigenza espressiva. Ancora prima dell’internamento all’Havre, già intendeva la propria militanza surrealista in maniera eterodossa: «per strappare gli uomini ai loro territori, a questi immoti terreni della mente chiusa nel proprio cerchio, serve qualcosa che straripi dal pensiero propriamente detto, qualcosa che sia al di sopra delle relazioni dello spirito» (p. 54), scriveva nel 1925. Non tanto un continente nuovo, una “surrealtà” raggiungibile attraverso l’innalzamento delle proprie facoltà immaginative: Artaud già allora ricercava la definitiva liberazione dai vincoli del pensiero astratto, di questa gabbia umana-troppo umana di cui si sentiva prigioniero lui stesso, non, ovviamente, perché credesse di essere incapace di pensare (al contrario), ma poiché disperava di riuscire a possedersi per intero, di raggiungere il pensiero depurato dalle scorie dei falsi ragionamenti. Conseguenza di questa posizione estrema è lo scacco di ogni tipo di “letteratura”, intesa come frode di bassa lega perché si configura come una forma chiusa di “parole pensate” e mai messe in relazione con i realia dell’esperienza, ma decreterà anche l’impraticabilità del manifesto definitivo di poetica artaudiana, il “teatro della crudeltà”. Così, in un’ottica del genere, a presentarsi come il vero serbatoio della poetica inattuabile di Artaud, sono le scritture extra-testuali, la messe infinita di lettere, ma anche di pensieri, interviste, interventi, dialoghi, le «raschiature dell’anima» a cui il poeta si sottopone di continuo.
Due episodi segnano altrettanti punti di svolta nella vita e nella traiettoria artistica di Artaud, e il primo è l’irrinunciabile corrispondenza con Jacques Rivière, critico di acume brillante e rigoroso, amico di Marcel Proust e allora direttore della Nouvelle Revue Française. In Italia, la manciata di lettere che i due si scambiarono tra il 1923 e il 1924 era apparsa nel lontano 2002, tra i materiali di corredo al volumetto Poesie della crudeltà (Stampa Alternativa). Poi, più nulla. Ora, il carteggio figura completo in Lettere e grida, ed è una non piccola nota di merito, perché queste pagine indicano forse la via più diretta per approcciarsi all’universo-Artaud. Il giovane poeta scrive a Rivière sperando pubblichi sulla sua prestigiosa rivista le sue prime prove d’autore. Lui rifiuta per ragioni “stilistiche” (le poesie non gli sembrano granché) ma intuisce di trovarsi difronte perlomeno ad un personaggio singolare. Lo scambio che ne segue stravolge ogni sua aspettativa:
Queste formulazioni, queste espressioni inadeguate che lei mi rimprovera, io le ho sentite e le ho accettate. (…). Esse vengono dall’incertezza profonda del mio pensiero, e io sono felice quando questa incertezza non viene sostituita dall’inesistenza assoluta di cui talvolta soffro. Anche su questo temo di essere frainteso. (…) non si tratta di quell’esistenza che emana in misura maggiore o minore da ciò che viene comunemente chiamato “ispirazione”, ma di un’assenza assoluta, di una vera e propria perdita (…) Le poche cose che le ho mostrato sono i soli frammenti che sono riuscito a salvare dal nulla assoluto. È importantissimo per me che queste poche manifestazioni di un’esistenza spirituale che sono riuscito a dare a me stesso, non vengano considerate come inesistenti a causa delle mancanze o delle imperfezioni di alcune espressioni (p. 26).
Non solo Artaud non contesta i rilievi “formali” di Rivière, li approva. Eppure, ciò che gli preme comunicare è tutt’altro, qualcosa che esula dai reami angusti della “letteratura” ed investe la possibilità stessa di rappresentare in una qualunque forma il pensiero che si estrinseca dalla mente e va così a “provare” l’esistenza nel soggetto di ciò che più conta per Artaud, la propria “esistenza spirituale”. Immune a qualunque tipo di compromesso al ribasso, Artaud si figura di navigare nel nulla assoluto, di non esistere neppure se non riesce ogni giorno a compiere un atto di violenza su sé stesso, vale a dire strapparsi una prova concreta di esistenza, costi quel che costi e con qualunque mezzo. Artaud rigetta l’idea che il pensiero sia un dato inquestionabile e invalicabile della psiche, ma lo ritiene una dolorosa e mai conclusa conquista.
Artaud ribadisce più volte, e lo ribadirà sempre con non poco perverso piacere, di rischiare il fraintendimento. La lingua comune è adulterata dalla convenzione, e farsi capire è il più delle volte semplicemente impossibile. Difatti, nonostante la caratura intellettuale e la non comune sensibilità, Rivière non intende il vero motivo della frustrazione del suo corrispondente:
Come le ho già detto, nelle sue poesie, oltre a delle espressioni sgraziate, ci sono anche degli elementi sconcertanti. Mi sembra però che corrispondano più a una sua ricerca che a un’incapacità di controllare i suoi pensieri. Chiaramente (ed è il motivo per cui non posso pubblicare nessuna delle sue poesie nella “N.R.F.”) lei non riesce in generale a pervenire a un’unità d’impressione sufficiente. Ma ho abbastanza esperienza nel leggere i manoscritti per intuire che questa concentrazione dei suoi mezzi verso un oggetto poetico semplice non le è affatto negata, e che con un po’ di pazienza, anche fosse solo tramite l’esclusione di immagini o tratti divergenti, riuscirà a scrivere delle poesie perfettamente coerenti e armoniose (p. 27)
Rivière riconduce tutto il discorso sul terreno della “letteratura”. Ha visto fin troppi giovani che si baloccano con la tagliola pericolosa dei versi, ma qui confonde il “mestiere” con qualcosa che lo sorpassa di misura. Artaud intende operare fuori dal campo della poesia. La sua è insieme una disperata richiesta d’aiuto e un atto d’accusa contro i sotterfugi del pensiero e le consolazioni che ne derivano (la “coerenza”, l’“armonia” …). Rivière intuisce lo scarto tra gli abbozzi poetici che ha ricevuto e la lucidità analitica con cui il loro autore si fa a pezzi e si mostra a lui, un perfetto sconosciuto. Propone quindi ad Artaud di pubblicare la loro corrispondenza. Lui accetta, ma a patto che mittente e destinatario figurino con i loro nomi reali.
Il dialogo a distanza tra Artaud e Rivière può ricordare un episodio de El pozo (Il pozzo, 1939) esordio narrativo di un altro grande scrittore, l’argentino Juan Carlos Onetti. L’atmosfera rimanda più ad un modernismo/surrealismo di stampo sudamericano (ed è qui che si ancora si stende la longa manus di André Breton: se infatti Artaud ha optato per un’arte del fraintendimento perpetuo, Breton ha creato invece un sistema poetico ed ermeneutico tra i più influenti e rimaneggiati di sempre), ma il misunderstanding che coinvolge il protagonista e il suo amico Cordes è puro Artaud. Il narratore descrive a Cordes il proprio turbamento interiore, che si configura in un sostanziale disallineamento tra la “vita interiore” (ricca di salti temporali e spaziali, di avventure esotiche e strazianti, di rivelazioni e oblii) e quella esteriore, in cui il narratore sembra non trovare mai posto, incapace di sopportare la monotona e dolorosa fissità di un’esistenza inautentica, pensata e mai vissuta. A racconto concluso, la mirabolante e disperata concitazione verbale del protagonista fa esclamare a Cordes, poeta e fine intellettuale: «È molto bello… Sì. Però non capisco bene se è la bozza di un racconto o qualcosa del genere.»[2]. Il narratore trema di rabbia e di sconforto: neppure Cordes, neppure il poeta, non certo privo di sensibilità, riesce ad uscire dal proprio cervello, dall’astrazione delle parole, e il dolore è solo un espediente retorico di un’anima altrimenti pacificata, incapace di comprendere i tormenti di chi non accetta distinzione tra pensiero e dolore. «No, nessuna bozza. Tutto mi disgusta, capisce? La gente, la vita, i versi con il colletto inamidato. Mi butto in un angolo e mi immagino queste cose. Roba così e porcate, tutte le notti.»[3], risponde il protagonista del Pozzo a Cordes, e Artaud avrebbe sottoscritto in pieno.
Il secondo incontro che segna Artaud prima dell’internamento è quello con Breton, “papa” del surrealismo, libertario e despota, eccessivo in tutto, nella magnanimità come nella piccineria. Nonostante i toni accesissimi delle loro polemiche. «Il surrealismo è morto a causa del settarismo imbecille dei suoi adepti.» (p. 51), scrive Artaud dopo essere stato allontanato dal movimento. Nel Secondo manifesto del Surrealismo (1929), invece, Breton accusa Artaud di incoerenza, di voler mettere in scena un dramma psicologico di Strindberg solo per compiacere il pubblico borghese e l’ambasciata svedese che avrebbe coperto le spese di realizzazione. Queste risse verbali erano già in una vera e propria rissa nel foyer del Théâtre de l’Avenue il 2 e 9 giugno 1928, con Artaud costretto a fare intervenire la polizia (!). Tuttavia, i rapporti tra i due rimarranno improntati ad un grande e sentito rispetto reciproco. Durante gli anni di Rodez, Breton non riceverà mai lettere ingiuriose come quelle indirizzate ad altrettanti amici di Artaud, il pittore Balthus e André Gide (recuperatele in Lettere e grida[4]: fanno rabbrividire), ma una serie di riflessioni su un tema che stava a cuore ad entrambi, vale a dire il rapporto tra psichiatria e magia nera: «Questa società che non vuole sentir parlare di malefici e di magia, e che non smette di perfezionare e mettere a punto una certa armatura psichiatrica per scoraggiare i momenti di lucidità, è nata da un trucco di magia, da un’immonda operazione che le ha dato il diritto di cittadinanza nelle cose e che essa continua a mantenere a forza di malefici verso e contro tutti.» (p.170).
Sotto l’influenza ammaliatrice di Breton, Artaud ha composto una serie di testi surrealisti raccolti poi in L’Art e la Mort (1929, uscito per L’Orma nel 2023), prose visionarie, da leggere d’un fiato, che tuttavia Artaud presto rinnega: nonostante varie impennate di originalità deviante (i capitoletti su Abelardo ed Eloisa, ad esempio) non sopporta di riconoscersi marionetta in mano ad un ventriloquo. In realtà, l’inizio palese delle ostilità tra i due, e tra Artaud e tutto il movimento surrealista, si consuma già nel 1928. È di quell’anno un documento di straordinario interesse per comprendere la temperie culturale dell’avanguardia di quegli anni. Si tratta delle Ricerche sulla sessualità (In Italia il volume che le contiene è pubblicato da SE nel 1991) depositate all’ “archivio del surrealismo”, una serie di incontri in cui i membri del gruppo si confrontavano discettando in termini altamente speculativi di temi quali il sesso, l’orgasmo, la masturbazione, la relazione tra amore e piacere sessuale e altro ancora. Artaud partecipa ad un incontro soltanto, il sesto, ma le battute che scambia con Breton delineano già due visioni inconciliabili tra loro:
A: Trovo la sessualità molto ripugnante in sé. Me ne sbarazzerei volentieri. Vorrei che tutti gli uomini fossero giunti a questo punto. Sono esasperato di essere lo schiavo di queste sollecitazioni infette. (…) Se si mescola l’amore a un’inchiesta sulla sessualità, questa inchiesta non ha alcuna ragion d’essere (…) Credo che le soddisfazioni che l’amore è capace di donare siano sempre di un ordine abbastanza vago, che non comporta mai alcuna specie di certezza. Credo ostinatamente a soddisfazioni di un ordine intellettuale opposto a quello amoroso, e che gli sono superiori in quanto comportano un’idea di possesso più vicina e più affermata. C’è, nell’amore, un’idea di sottomissione e di spersonalizzazione che mi è insopportabile (…).
B: (…) ho sorvolato, del resto con difficoltà, sulla parola soddisfazione di cui (Artaud, nota mia) si serviva. Per me, questa parola testimonia preoccupazioni pragmatiche che non condivido a nessun livello. Se pongo l’amore al di sopra di tutto, è proprio perché lo ritengo lo stato di cose più disperato e più disperante che esista. La mia spersonalizzazione in questo campo è tutto ciò che io possa sperare. Quanto alla mia sottomissione, è così mescolata al dominio che non posso assolutamente eluderla. Alla fine ho l’impressione di non essere più libero per nulla.
A: (…) ritengo che lo spirito concepito nella sua totalità racchiuda risorse molto più disperanti di quelle dell’amore (pp. 115-119).
Breton è un “materialista mistico” che spiritualizza la materia, mentre Artaud un “mistico materialista” che trasmuta lo spirito in corpo. Teorico della “bellezza convulsiva” e immaginazione sbrigliata e senza altro dogma che se stessa, agitatore politico “au service de la Revolution” (prima di capire che surrealismo e PCF non potevano andare d’accordo e prendere le distanze), Breton non può che cercare nell’amore l’atto disperato (ma in fondo vivificante, perché estremo) della resa ad una forza più grande in cui quasi si obbliga a credere, alla spersonalizzazione, al je est un autre di Rimbaud, vale a dire proprio a quello che la sua intima disposizione caratteriale e il suo ruolo di capo movimento non gli consente altrimenti. Breton punta tutto sulla comunicabilità di una catastrofe della tradizione che si fa palinodia attraverso il gesto disperato dell’annientamento nella scrittura automatica o nell’amour fou. La disperazione si converte così in politica della gioia smodata e terribile, l’automatismo si tramuta in genio e l’asservimento in dominio.
Dall’altro lato, invece, l’ultra-individualista Artaud inorridisce davanti alla “spersonalizzazione” che l’atto sessuale prima e l’amore poi implicano, un involgarimento di bassa lega se confrontato con le gioie e i tormenti che lo spirito si autoinfligge in purezza. Artaud soppesa tutto in funzione del corpo, ma un corpo “senza organi” né pensieri, un corpo, appunto, che sia “tutto spirito” e tragga il proprio piacere supremo da una irraggiungibile verginità e impenetrabilità del soggetto liberato dal bisogno e dal dolore (Artaud inizia fin da giovane ad assumere oppio e laudano per calmare lancinanti attacchi di emicrania). Spossessato di sé stesso, sfiduciato di potersi mai ricomporre, perennemente schiavo della propria lucidità, Artaud cerca disperatamente almeno la libertà della “non compromissione” tanto nella sfera sessuale, un bisogno meschino ed esecrabile, quanto in una più alta contemplazione della propria e dell’altrui miseria. Se Breton punta sulla comunicabilità della missione surrealista, Artaud si arrovella e si compiace del malinteso, concepito insieme come arma dissacrante in proprio possesso e come Moloch da abbattere. A questo secondo proposito, sono illuminanti le affermazioni di Vladimir Jankélevitch in Le Je-ne-sais-quoi et le presque-rien (Il non-so-che e il quasi-niente, 1957): «Il malinteso (…) è la socialità stessa; esso imbottisce lo spazio tra gli individui e dell’ovatta e dei piumini ammortizzanti (…) fa del barbaro predatore e scontroso un falsario civilizzato e un truffatore di buone maniere (…). Perché la vita continui a essere vivibile è sempre meglio non approfondire le cose.»[5].
Proprio contro questa mistificazione di scaglia Artaud, e quale arma migliore per combattere un malinteso compromissorio di un malinteso sempre al rilancio, una ripetuta e martellante pretesa di incomunicabilità, di fraintendimento, perché le parole usuali sono fradice e marce come gli organi genitali, o astratte e scialbe come le soddisfazioni instabili che può dare l’amore. «Solo André Breton», scriverà Artaud molto più tardi, in una lettera a Gilbert Lely, «rimane, nella vita come nelle azioni, fedele a questa specie di trasferimento, con un’attrazione distaccata e pura, dalla vita alla più che vita. Voglio dire: nel suo pensiero.» (p. 143). Tuttavia, aggiunge sconsolato: «Nella vita, infatti, chi è che lo segue?» (p. 144). Dal canto suo, Breton riserverà sempre un riguardo speciale per il sopravvissuto Artaud, l’unico che non ha appuntato strali contro carceri e manicomi dai tavolini dei Deux Magots, ma direttamente dalla sedia elettrica.
III.
A ben guardare Artaud, paria del XX secolo, temuto e scansato in pari misura, innalzato e deriso, è colui che con maggiore coerenza e originalità ha traghettato nel Novecento le mille figure della malinconia. Dal malinconico ottocentesco per eccellenza, Charles Baudelaire, Artaud mutua non pochi concetti-cardine: l’autarchia del vero artista che non esce mai da sé stesso e considera quindi la donna e il sesso come attributi della bestialità o del satanismo; la “centralizzazione dell’io” e la necessità di scrutarsi continuamente come davanti ad uno specchio; la visione gnostico-manichea di un mondo materiale grezzo e diabolico e della conoscenza come unica via spirituale verso la salvezza; il gusto del paradosso estremo e dell’ironia che “sdoppia” l’uomo in vittima e carnefice di sé stesso e degli altri. Artaud possiede la lucidità perversa dei solitari e (come Proust già notava nel 1921 à propos de Baudelaire) una sete di misticismo rovesciato, di sacra ed infame bêtise pungolata a morte dall’ago della poesia. E ancora: in uno dei più rigorosi e appassionanti studi sulla poetica baudelairiana, Baudelaire e la poetica della malinconia (1946), Giovanni Macchia dedica un intero capitolo al più elaborato e visionario progetto teatrale elaborato da Baudelaire. Si tratta de L’Ivrogne, storia dell’omicidio in scena della propria moglie da parte di un falegname. Le idee di Baudelaire in merito ai gesti, alle musiche, agli spazi (scenografie assenti) e ai colori come veicoli della trama sono sorprendentemente simili ai precetti del “teatro della crudeltà”, fermo restando l’intento didascalico e pedagogico, che in Baudelaire invece manca.
Entrambi, Artaud e Baudelaire, vivono e soffrono per vedersi vivere e soffrire, come a dover scontare un castigo inflitto per dimostrarsi degni dell’assoluzione, «migliori di quelli che disprezzano» (dal baudelairiano “All’una di notte”, poème en prose contenuto nello Spleen di Parigi). Oppresso dall’impossibilità di non riuscire a non pensare lucidamente, Artaud non voleva limitarsi a pensare di vivere, ma sentirsi vivere senza doversi pensare. Come la classica figura del malinconico, Artaud tende così, nel suo desiderio di afferrare l’inafferrabile, a figurarsi come “materiale” (e quindi passibile di essere toccato, modellato, posseduto) ciò che invece dovrebbe essere soltanto oggetto di contemplazione, e questo non per mera cupidigia, ma per quel tipo particolare di bruciante desiderio che deriva proprio da un’iper-contemplazione, talmente forte e spesso inappagato da convertirsi in fantasma. Artaud disdegna il rapporto sessuale, ma agogna la “pura carne” dello spirito liberato dal pensiero. Tuttavia, come si diceva, Artaud vive gli albori della società davvero di massa del Novecento, e la sua malinconia diventa follia.
Al poeta non è infatti più concessa la nobile arte della flânerie, del vagabondaggio sublime e inoperoso, e Artaud diventa il capro espiatorio perfetto. In Baudelaire, ma anche in Walter Benjamin o Edgardo Scott, la bile nera può almeno travasarsi negli umori delle grandi città, nella coazione a perdersi e a smarrire l’orientamento, e il malinconico può così “farsi infestare” dal simulacro di una o più vite ipotetiche. La malinconia di Artaud, invece, incancrenisce ed esplode nelle gattabuie dei manicomi: il poeta è diventato persona non grata al punto di doverla rinchiudere con il pretesto di curare la sua infermità mentale. È lo stesso Artaud a descrivere minuziosamente il proprio stato paradossale di “esiliato in catene” a Rodez e altrove, là dove, afferma, i falsi detentori di un sapere scientifico (gli psichiatri) lo tartassano di fatture e malefici. Scienza, società, farmacologia e magia nera sono, per Artaud, tutte facce della medesima medaglia.
Nell’ultimo suo scritto pubblicato in vita, Van Gogh, le suïcidé de la société (Van Gogh, il suicidato della società, 1947), Artaud si trasfigura in quello che, forse non ha torto, credeva il massimo rappresentante della poesia per immagini, Vincent Van Gogh:
(Van Gogh) non è morto per uno stato di delirio proprio ma perché è stato corporalmente il campo di un problema attorno al quale fin dalle origini si dibatte lo spirito iniquo di questa umanità, quello del predominio della carne sullo spirito o del corpo sulla carne, o dello spirito sul corpo. E dov’è in questo delirio il posto dell’io? Van Gogh cercò il suo per tutta la vita con energia e con una determinazione strana, e non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva saputo chi era quando la coscienza generale della società per punirlo di essersi strappato ad essa lo suicidò.[6]
In definitiva, neppure il silenzio appaga davvero Artaud. Se ogni parola non è che pensiero infame, se la società intera congiura per suicidare i poeti, il solo discorso valido è proprio quello del suicidato che, tra la vita e la morte, si rifiuta di spirare. Un vaticinio inammissibile, pronunciato da chi, avendo molto sofferto, ora reclama il diritto di parlare (cfr. la lettera a Jacques Rivière del 29 gennaio 1924). Non è l’unica via possibile. È, di certo, la via estrema.
[1] In Italia il testo è reperibile in S. Sontag, Accostarsi ad Artaud, in Sotto il segno di Saturno, traduzione di P. Dilonardo, Milano, Nottetempo, 2023. La citazione si trova a p.26.
[2] J.C. Onetti, Il pozzo, traduzione di I. Carmignani, Roma, SUR, 2022, p. 66.
[3] Ibid.
[4] Rispettivamente alle pp. 87-88 e 91-92.
[5] V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, traduzione di C.A. Bonadies, Torino, Einaudi, 2011, p. 254.
[6] A. Artaud, Van Gogh, il suicidato della società, traduzione di J.-P. Manganaro, Milano, Adelphi, 1988, p. 77.
Antonin Artaud, Lettere e grida, GOG, Roma 2024, 177 pp., 16.00 €.