Intervento letto durante il Convegno tenutosi all’interno del II° Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo, San Mauro Castelverde, 20 agosto 2022
Nella famosa prefazione alla prima racconta mondadoriana di Lucio Piccolo, edita nel 1956 e intitolata Canti barocchi e altre liriche,[1] così Eugenio Montale presentava l’esordiente poeta:
Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, […], un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori dal tempo.[2]
Sebbene non si addica al «singolare» poeta di Capo d’Orlando la troppo sbrigativa definizione di «isolato»,[3] contraddetta dai numerosi contatti con l’ambiente intellettuale del tempo e dalle non poche «corrispondenze letterarie»,[4] è indubbio che la sua poesia presenti i caratteri di un’opera «controcorrente»[5] e in rotta con il suo tempo. Posto a margine della produzione del secondo Novecento dalle principali antologie poetiche, Piccolo è sicuramente incollocabile nel panorama poetico a lui contemporaneo. La sua opera, sebbene alimentata da una fitta rete di rimandi letterari e da un incessante dialogo intertestuale, con la letteratura italiana ed europea, contemporanea e no, rimane estranea a ogni possibile collocazione.
Tra le molteplici peculiarità stilistiche e tematiche che permettono di definire l’originalità della poesia piccoliana un ruolo di rilievo rivestono le inconsuete e «singolari» protagoniste dei suoi versi: le «sognanti, lontane ombre»,[6] come il poeta stesso le definisce. Attraverso esse, nella concretezza monumentale del barocco palermitano, nelle campagne orlandine e negli interni casalinghi l’autore intraprende la sua ricerca di un «senso del trascendente»,[7] dell’oltre il limite. Tale «sconfinamento»[8], il varcare la soglia dell’esistente, si riconnette direttamente a una riflessione sulla caducità del corpo e sull’inarrestabile trascorrere del tempo che tanta parte ha nella sua lirica.
In Canti barocchi prima, in Gioco a nascondere e soprattutto in Plumelia, accanto agli oggetti della memoria, ai volti paesani e alle figure mitiche e ancestrali, hanno il loro posto le misteriose presenze incorporee. D’altronde, già un’osservazione di carattere lessicale permette di rilevare come il termine ombra sia tra quelli più ricorrenti e semanticamente sfuggenti in tutte le sillogi del poeta, dunque «poeticissimi», per dirla con Leopardi.
In Canti barocchi e altre liriche, in particolare nel quarto componimento intitolato La notte, che chiude la suite dei quattro Canti, si legge:
La notte si fa dolce talvolta,
[…]
Subito allo schermo dei sogni
soffia in vene vive volti già cenere, parole afone…
muove la girandola d’ombre:
[…]
Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,
riflusso di vita svanita che trabocca
dall’urna del Tempo.[9]
L’atmosfera in cui misteriose presenze si animano è, non a caso, quella notturna. Proprio la notte, infatti, diventa la grandiosa orchestratrice di oniriche danze. Nel delineare tale atmosfera Piccolo affianca, inaspettatamente, alla materialità immanente delle «vene vive», una figurazione mortifera e spettrale: i «volti già cenere».
«La proliferazione a catalogo, a serie, delle immagini»[10] pare rispondere in tal caso all’esigenza di meglio definire la «girandola d’ombre». Le quattro immagini adoperate dal poeta nei versi citati sono portatrici di un senso profondo di precarietà e incompletezza e al contempo recano in sé traccia di qualcosa che è stato («riverberi d’echi», «frantumi», «memorie insaziate», «riflusso di vita svanita che trabocca dall’Urna del Tempo»).
Piccolo sente il bisogno di esplicare e specificare la densa semantica della sua rappresentazione e, a proposito dell’espressione «memorie insaziate», nei suoi Appunti critici, spiega:
Le memorie insaziate possono avere due sensi: memorie di qualcuno che nella vita non compì quello che voleva, che rimase come un nodo non sciolto. Memoria che non cessa mai di ritornare come in un incubo. […] Non propriamente fantasmi nel senso spiritualistico e tradizionale, esse sono tuttavia sul punto di diventarlo.[11]
L’autore, dunque, insiste su quello che evidentemente considera uno dei nuclei concettuali della sua poetica. Tali entità intangibili non devono essere considerate fantasmi nel senso «spiritualistico e tradizionale» del termine, la loro è una condizione ancora in divenire («non propriamente fantasmi […] sono sul punto di diventarlo»).
La dimensione del trascendente viene tuttavia sottoposta a un continuo processo di normalizzazione, privata dei connotati più terrificanti e accolta in toto nel quotidiano.
Anche in Gioco a nascondere le ombre rivestono un ruolo centrale. Proprio a proposito della sua seconda raccolta Lucio Piccolo, in un’intervista rilasciata a Ronsisvalle, dichiara:
Credo che la parte migliore di Gioco a nascondere sia quando è venuta l’oscurità, e la casa si è interiorizzata, è diventata ombra, spazio in cui andiamo errando e ritrovando le figure care, persone care che ci sono state vicine… [12]
Il poeta con tali affermazioni amplia ulteriormente lo spettro semantico e aggiunge nuove sfaccettature alla dimensione dell’ombra. Gli evanescenti profili sono, quindi, anche «figure care», «persone care» e la casa stessa, interiorizzata, diventa ombra.
Un componimento in particolare della silloge del 1960, l’ultimo, non solo pone al centro le inquiete presenze ma proprio da esse prende il titolo: Ombre. Si legga l’incipit della lirica:
Le sognanti lontane ombre che sono
dietro le tue parole questa notte,
fantastiche o dolenti le portava
la corrente dei giorni, il vento che apre
i colori, ed ognuna il suo segreto
di dolore o di gioia che il destino
segnò e il buio chiude;[13]
Queste impalpabili essenze sono «lontane» e inafferrabili ma, in un bellissimo ossimoro, sono anche così vicine da poter essere avvertite dietro il suono di semplici «parole». Sfuggono a ogni tentativo di razionalizzazione, sono «fantastiche» e allo stesso tempo portano in sé la memoria di esperienze reali.
I versi sembrano suggerire come esse siano custodi del segreto di un dolore o di una gioia, sono travolte dalla «corrente dei giorni» che inarrestabile conduce inevitabilmente a un cambiamento.
Anche nel secondo componimento di Gioco a nascondere, Anna Perenna, dedicato a una dea, una mitica divinità delle acque, la costante ansia del varcare la soglia trova nuova conferma:
intese hai con l’ombra, Perenna,
urgono ad un tuo sguardo d’intorno
forze di generazioni inesauste
alle soglie, in ansia di forme[14]
Anna Perenna ha intese misteriose con l’ombra e con «forze di generazioni inesauste» che, in una perenne condizione liminare, tra materialità corporea ed evanescenza, rimangono «in ansia di forme». La comunione, o forse meglio la comunicazione, tra corpi e ombre, tra terreno e ultraterreno, è evidente e necessaria.
La poesia di Lucio Piccolo, che a buon diritto potrebbe essere dunque definita poesia di continui sconfinamenti nel mondo dell’oltre, delle ombre, muove costantemente alla ricerca di quel «senso familiare d’oltre il limite»,[15] come lo stesso autore lo definisce. Ma, come sottolineato già all’inizio, è soprattutto nell’ultima raccolta, in Plumelia, che tali presenze acquistano un ruolo centrale. Come per La notte, in Canti barocchi, e per Ombre, in Gioco a nascondere, anche nella terza raccolta si può rintracciare almeno un componimento dedicato interamente alle misteriose entità, nel titolo esplicitamente definite come I morti:
Un’ombra
che si allungò su la credenza,
o nel cortile sotto la caldaia
l’occhio che ancora luce
quando tutto è spento,
soltanto questo, ma sono
i morti. Male non fanno, che può
un flusso di memoria
senza muscoli o sangue? terrore
dai vani al crepuscolo, bianche
ombre, movenze agli spiani
tesi di luna nei sogni infantili…
Pure un turbamento sono, nelle sere
sommesse – pazienza, preghiere.
Sono su le giogaie e i passi
dei monti, anche nei giorni
quando spiegato è calmo il manto
delle domeniche a frange d’oro…[16]
Attraverso le tre sillogi, in un costante gioco di rimandi, il riferimento alle ombre permane ma, in una climax di intensità e di pathos, è in Plumelia che l’autore rappresenta in maniera più articolata e complessa queste fantastiche compagne del suo itinerario poetico. È nello spazio della dimora che l’identificazione di esse con i morti diventa esplicita: «ma sono | i morti. Male non fanno».
Le ombre, sono adesso flussi di memorie «senza muscoli o sangue». E, andando oltre le mura domestiche, in un ulteriore ampliamento semantico e della prospettiva, esse sono anche essenze proprie del paesaggio naturale, spiriti nuovi e antichissimi, che si agitano sulle giogaie e sui passi dei monti.
L’autore mette a punto un lessico specifico e puntuale. Quelle che prima erano appellate genericamente come «ombre» sono, adesso, definite «i morti». La scelta lessicale tradisce una nuova ansia definitoria che non connotava le raccolte precedenti.
Il valore e la novità delle misteriose e mistiche presenze, nelle molteplici forme che esse assumono, sembra risiedere nel loro essere parte essenziale di una complessa concezione dell’esistenza, che travalica i margini dell’immanente, del tangibile, e non procede in direzione lineare ma ciclica. Ma le teorie sui fantasmi e sull’oltre-vita e l’humus esoterica da cui traggono linfa vitale, ben lungi dal rimanere ancorati a un mero orizzonte di superstizioni e miti, lontani dall’avere valenze religiose, assolvono a una funzione poetica e conoscitiva fondamentale. Gli sconfinamenti nel mondo dell’oltre diventano strumento di definizione e di comprensione della vita, anche nella sua forma immanente. Poiché tutto quello che è terreno e precario non è altro che figurazione del sempiterno adempimento che si realizzerà nell’oltre-vita.
La ricerca piccoliana, che prende le mosse dal quotidiano e rivolge una grande attenzione al segreto custodito nella concretezza dei personaggi rurali che popolano i versi, sente il bisogno di indagare anche tutto quello che essi saranno: nient’altro che ombra, «memoria insaziata», «anime in fiamme», parte di quel cerchio dell’esistenza che, in quanto tale, non conclude ma, semmai, ritorna, seppure in forma altra: «Che cos’è il futuro se non aspettazione, e dunque nostalgia di un ritorno? » [17]
[1] L. Piccolo, Canti barocchi e altre liriche, con la Prefazione di Eugenio Montale, Mondadori, Milano 1956.
[2] E. Montale, Prefazione a Canti barocchi e altre liriche e poi in Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche, Mondadori, Milano 1960, p.106.
[3] V. Ronsisvalle, Il favoloso quotidiano. Sceneggiatura e script del film tv su Lucio Piccolo, maggio 1967, in Lucio Piccolo, «Galleria», a cura di V. Consolo, V. Ronsisvalle e J. Tognelli, maggio-agosto 1979, n. 3-4, p.
[4] Si ricordino quelle le corrispondenze letterarie con W. B. Yeats (per le lettere di Yeats cfr. N. Tedesco, Lucio Piccolo. Cultura della crisi e dormiveglia mediterraneo, cit., pp. 49-50), con gli editori Mondadori e Scheiwiller e con scrittori e intellettuali di rilievo quali Guido Piovène, Leonardo Sciascia, Maria Luisa Spaziani, Vincenzo Consolo, Corrado Stajano (Due lettere inedite di Piccolo a Corrado Stajano, «Galleria», XXX, 3-4, 1979), Antonino Pizzuto (L’oboe e il clarino. Carteggio 1965-1969. Antonio Pizzuto – Lucio Piccolo, a cura di A. Fo e A. Pane, Scheiwiller, Milano 2002).
[5] Cfr. N. Tedesco, Lucio Piccolo, Pungitopo, Marina di Patti 1986; poi in edizione riveduta e ampliata in Lucio Piccolo. Cultura della crisi e dormiveglia mediterraneo, Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 2003, p. 57.
[6] L. Piccolo, Ombre, in Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche, Mondadori, Milano, 1960, p. 44.
[7] V. Ronsisvalle, Il favoloso quotidiano, cit., p. 95.
[8] L. Piccolo, in Gioco a nascondere, cit., p. 14.
[9] L. Piccolo, La notte, in Canti barocchi e altre liriche, cit, p. 61. Il corsivo è mio.
[10] Cfr. E. Montale, prefazione a Canti barocchi e altre liriche, cit., p.109.
[11] Cfr. L. Piccolo, Appunti critici, in N. Tedesco, Lucio Piccolo, cit., pp. 121-122.
[12] Cfr. V. Ronsisvalle, Il favoloso quotidiano, cit., p. 72. Il corsivo è mio.
[13] L. Piccolo, Ombre, in Gioco a nascondere, cit., p.44.
[14] L. Piccolo, Anna Perenna, in Id., Gioco a nascondere, cit., p. 23. Il corsivo è mio.
[15] L. Piccolo, Gioco a nascondere, in Id., Gioco a nascondere, cit., p. 15.
[16] L. Piccolo, I morti, in Plumelia, cit., p. 47.
[17] Nella già citata intervista del 1963 rilasciata a Domenico Cicciò si legge: «Ha notato l’uso che io faccio del futuro? Che cos’è il futuro se non aspettazione, e dunque nostalgia di un ritorno? Il mio strumento principale resta il ritmo. È la realtà che deve calarsi nel simbolo, e non viceversa.» (D. Cicciò, Non garba a Lucio Piccolo l’altrui Gioco a nascondere, cit.).