Il romanzo d’esordio di Jessica La Fauci, Croste, edito da Alcatraz nel 2023, è un testo che si costruisce per strati sovrapposti, intrecciati tra loro: strati di ricordi, di autoanalisi, di traumi, strati di flusso di coscienza, di osservazioni, di nostalgie, di cambiamenti.

Bisogna contare ogni buco sulle cosce, l’acqua che ristagna, tutti i grani di sale inghiottiti.
Bisogna guardare il corpo che si espande, si sforma e cade, le linee che cedono, convergono in basso.
Bisogna vedersi brutti da disperarsi, provare disgusto, vergogna. 
Bisogna contare ogni buco sulle cosce per capire quanto tempo è passato, quanti anni si è vissuto, quanto rimane per cancellare tutto, tornare sodi, tornare indietro.

Finalista al Premio Calvino 2022, il romanzo di Jessica La Fauci è come un’analisi petrografica compiuta su un corpo umano vivente e in formazione: la roccia si fa carne e le stratificazioni sono le esperienze di Nina, protagonista della narrazione.

Nina è una giovane donna, nell’età in cui intorno a lei le persone, gli amici, gli amanti perduti, la famiglia, nutrono delle aspettative che sono quelle sociali e culturali del nostro tempo. Nina però non riesce e non vuole pagare il prezzo dell’adeguamento sociale, per carattere e per intuizione morale, perché il prezzo è l’oblio, il prezzo è lasciare indietro pezzi di sé, un sé che invece è in costruzione permanente, lenta, cocciuta, ampia e inesorabile. La protagonista non butta via niente, né oggetti, né ricordi, né persone perdute, non butta via nemmeno chi ha scelto di andare via e si è costruito una vita altrove; tutto interviene a costruire la persona Nina, in ossequio a una coerenza morale purissima.

All’inizio del romanzo, la protagonista eredita una cantina, non senza alcune proteste dei familiari che vorrebbero svuotarla e pensare al futuro invece che al passato e agli oggetti che lo ricordano e lo rappresentano. La cantina è una sorta di Xanadu allo specchio: lì dove il Kane di Orson Welles costruiva in vita il castello che avrebbe contribuito a raccontarne la storia, Jessica La Fauci, attraverso il personaggio Nina, ribalta la costruzione e il punto di vista. Nina racconta sé stessa, in terza persona, e la storia non è l’invenzione egotica e corrotta dal potere che porta avanti Charles Foster Kane, ma la ricostruzione a partire da oggetti e ricordi già dati, da sensazioni e traumi già vissuti. Analoga invece è la percezione temporale: i piani si intrecciano dal punto di vista non solo formale, ma soprattutto sostanziale. Nella stratificazione rocciosa sono intervenute le onde (eco forse di Virginia Woolf) a complicare l’analisi e a rendere la pietra-personaggio Nina un’alterità.

Il fatto è che a loro non serviva. Non avevano bisogno della cantina per ricordare, non avevano bisogno di un posto che contenesse. Gli anni del prima, le foto marroni: per loro non erano una fantasia. Li avevano sempre a portata di mano, bastava guardarsi indietro, osservare una cicatrice, raccontare un aneddoto.      
Quando si era dovuto decidere che farsene della cantina, soltanto Nina aveva reclamato. I suoi genitori l’avrebbero svuotata e svenduta, magari; ai suoi fratelli non importava. Lei sola si era aggrappata, vergognandosi quasi di quell’esigenza, di quella debolezza. Non aveva nemmeno saputo spiegare bene perché, aveva mascherato tutto con necessità pratiche: un appoggio nelle fasi di trasloco, una risorsa.
Aveva vinto. Poteva farne quel che voleva, decidesse lei, la cantina era sua.

In un’intervista Jessica La Fauci rivela che Croste è un libro che prova a riflettere sulle “rimanenze”, sulle croste delle proprie perdite. Di nuovo, ciò che resta è non solo un riferimento ai vari passati, ai diversi strati, alle varie fasi della costruzione di sé, ma è anche un riferimento presente, perché queste croste metaforiche sono potenzialmente perenni, vanno via solo se si smette di guardare indietro. Il passato però ritorna sempre – ce lo insegnano decenni di romanzi e di film.

La protagonista Nina, all’apparenza incapace di “liberarsi” del proprio passato e inadeguata, troppo profonda, è piuttosto un personaggio che ricerca incessantemente la completezza della verità e sembra dirci che si è tutto o non si è affatto. Questa idea di purezza, di una forma a modo suo di grandezza e di ambizione, riporta a Quarto potere e al gigantismo di Kane. La differenza però è profonda tra Nina e Charles Foster Kane e va ricercata, a mio parere, in quello che chiamiamo spirito del tempo; il personaggio di Orson Welles è la rappresentazione dell’ideale culturale maschile votato al successo personale e al progresso, lasciando indietro amici, relazioni, progetti. Di questo personaggio simbolo dello spirito del tempo Welles dà un ritratto tragico e in alcuni frangenti grottesco, anche in virtù di quello che potremmo chiamare, usando uno slogan, il falso mito del progresso. Jessica La Fauci invece vive nel periodo storico di maggiore cambiamento riguardo ai temi dei femminismi, e il personaggio di Nina ne risente inevitabilmente; lo spirito del tempo è cambiato, nonostante il capitalismo ci inchiodi tutte e tutti ai suoi ritmi e ai suoi “valori”. Nina ricerca e non abbandona la sua Rosebud (una raffigurazione geniale e ironica di un maiale), perché ne va della sua stessa identità. Nina ha imparato dagli errori e dalle sfortune di Kane e sceglie di essere lenta, attenta alle relazioni, perfino a quelle finite o dissonanti, profonda fino allo scavo e proiettata non verso un progresso ideale ma piuttosto in direzione di una costruzione di sé armonica. La goffaggine che pure caratterizza alcuni episodi del romanzo è uno scarto temporale: la velocità del mondo e delle persone che la circondano vengono addirittura denunciate in tutta la loro insensatezza.

«Era scritto sull’invito, sai? Il dress code»   
«Sì che lo so».          
«Ma sei turchese».    
«Troppo banale? ».   
«Peach. C’era scritto Peach, sull’invito. Vuol dire Pesca». 
«Credevo fosse un refuso». 
«Un refuso? ».          
«Credevo intendeste Beach. Lo davo per scontato».         
«Era proprio Peach».
«Pensi che potrei essere una pesca andata a male?».

Si potrebbero fare numerosi altri esempi, ma il punto centrale del discorso è che Nina agisce su sé stessa e sul tempo, sull’intreccio tra vita ed esperienze in senso quasi verticale. I personaggi intorno a lei sembrano muoversi lungo un’immaginaria linea orizzontale, secondo un’idea del tempo e del progresso, che del tempo vorrebbe farsi espressione, che è semplicemente decaduta.

Croste non è un romanzo politico in senso stretto, ma nella misura in cui riesce a cogliere lo spirito del tempo assume anche la forma di un romanzo femminista, che del femminismo prende le componenti più profonde di libertà e di costruzione di sé, in un certo senso in continuità con le esperienze di autoanalisi che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare, seppure in forme diverse e meno psicoanalitiche, i femminismi attuali.

In questa analisi di sé, a forza di sottrazioni, il romanzo opera una bonifica dei falsi miti, delle sovrastrutture imposte dalla famiglia, dal sistema culturale, dalle aspettative sociali e ci consegna un’ipotesi di verità personalissima eppure condivisibile dalle lettrici e dai lettori.


Jessica La Fauci, Croste, Agenzia Alcatraz, Milano 2023.