Cosa sta succedendo alla storica collana «Lo Specchio» di Mondadori? Si proverà a fornire delle informazioni in merito, e un accenno di risposta più tardi, preparando il terreno andando un po’ indietro — non troppo — nel tempo per comprendere le ragioni che hanno portato all’attuale situazione, che vedono la collana trincerata nelle sue pochissime pubblicazioni a una ristretta cerchia di già noti, o notissimi, e di grandi (morti).
La collana, una storia per pochi
Arnoldo Mondadori fonda «Lo Specchio» nel 1940, per lui è una delle prime imprese editoriali insieme a una collana che si occupa già di versi, chiamata «Poesia», all’interno della quale pubblica poeti di fine ’800 e inizio ’900:
«La pubblicazione di questi ultimi indica una preferenza per gli autori più tradizionali e fa capire in che senso si muove ora la casa editrice con la nuova collezione. Si privilegia il noto al poco comprensibile della nuova poesia. Eppure, è proprio questa casa editrice che si accorge del cambiamento di paradigma in corso. La collana nei primi anni di vita ospita principalmente autori contemporanei italiani, tra narratori e poeti. Fra i titoli di poesia degli anni ’40 si possono notare in catalogo diverse raccolte di Ungaretti e Saba. Alla fine degli anni ’40 viene pubblicata la silloge Ossi di seppia di Montale, già edita presso altre case editrici»[1].
Come si può intuire dal passaggio appena letto il paradigma appare chiaro sin dal principio: la reticenza verso le nuove voci poetiche, tacciate di “poca comprensibilità”, viene contrastata con la ‘certezza’ degli autori-canone, insieme alla centellinata accoglienza in casa di quelle voci che non emergono con la collana mondadoriana bensì con altre realtà editoriali, ormai diventate note e che possono ben assicurare un risultato economico.
Solo a intermittenza, negli anni, la collana deciderà di pubblicare esordienti o autori con pochissime pubblicazioni alle spalle e con una fama ancora da costruire. Un paradigma che diventerà un vero e proprio marchio di fabbrica, un atto di fede, quasi, nei confronti del suo fondatore, ancora fino ad oggi. Neppure l’eccezionale parentesi d’oro, decennale, che vede Vittorio Sereni dal ’58 al ’68 a capo della collana cambierà le cose, anche se, sotto la sua reggenza, verranno pubblicati più titoli di quanti negli anni successivi altri direttori de «Lo Specchio» riusciranno a fare.
Infatti, è nel periodo sereniano che «Lo Specchio» assume «il carattere laboratoriale che le è proprio, iniziando ad attuare un’operazione di svecchiamento» (Alleva, op. cit., pag. 170), con le pubblicazioni non solo degli aficionados, ma anche delle nuove voci italiane e straniere che ad oggi sono ripubblicate sotto nuove vesti grafiche sia da Mondadori che da altri editori: Gatto, Kavafis, Sinisgalli, Bellintani, Blake, Raboni, Spaziani, Pound, Majorino, Heaney, Zanzotto, Vigolo e altri. Un bel ventaglio di versi, portatori di un’aria e di un gusto letterario eterogeneo.
Uno schema che, sostanzialmente, continuerà a ripetersi, seppure con minore intensità, anche quando faranno il loro ingresso in collana autori nuovi come Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Giuseppe Conte, Roberto Mussapi, Davide Rondoni, Gian Mario Villalta, Giampiero Neri, Alberto Pellegatta, Antonella Anedda, Biancamaria Frabotta, Stefano Dal Bianco, Mario Benedetti, Giancarlo Pontiggia, Elio Pecora e altri. Salvo constatare che alcuni dei nomi suddetti, dopo una o due pubblicazioni, non saranno più editi ne «Lo Specchio», arrivando così all’autore che si prenderà in considerazione più in là, Marco Pelliccioli, con il libro Nel concerto del tempo.
Ma si rimanga ancora un po’ su Sereni. Dopo la sua brillante parentesi, il poeta originario di Luino resta direttore letterario all’interno di Mondadori fino al 1975, collaborando come lettore esterno fino al 1983 — anno della sua morte. Nel periodo di poco successivo la sua uscita da direttore de «Lo Specchio», le pubblicazioni in collana decrescono lentamente. I nomi si ripetono a oltranza, e la poesia comincia a divenire una ‘merce’ che non si vuole più offrire. Lo spiega bene Giovanni Raboni nel 1971, in un passaggio di un articolo pubblicato sulle pagine di «Avvenire»:
«La poesia è, da sempre, uno strumento di conoscenza “oppositiva”, di messa in discussione della realtà costituita, insomma (se mi si vuol perdonare l’uso di una parola così logorata dall’uso) di “dissenso”. Ebbene, le industrie editoriali, che evidentemente fanno parte integrante, come strutture, di un sistema che rispecchia e tende a conservare l’esistente, non hanno certo interesse a favorire la diffusione di ciò che può essere portatore di anticorpi, di dubbi, di elementi non epidermici di discussione. Meglio […] un tranquillo, solido romanzo […] che non un libro di poesia dove può darsi che la contestazione sia presente, invece, “all’interno”, come progetto linguistico e come visione del mondo»[2].
Il problema, secondo Raboni, è la forza eversiva della poesia — quando essa nasce da una sincera pulsione di libertà, di conoscenza, anche ruvida, della realtà, e non di semplice intrattenimento o riflessione diaristica —, una forza che gli editori han cominciato a non voler pubblicizzare: «In realtà, non esiste campo (dalla letteratura al cinema, dagli alimentari agli elettrodomestici) in cui la domanda non sia fortemente condizionata […]. La manipolazione dei bisogni e dei desideri attraverso la persuasione (più o meno occulta) della pubblicità è un fatto innegabile […]. Se sono vere queste premesse, dobbiamo concludere che la poesia, più che una merce invendibile, è in Italia una merce che gli editori “non vogliono” vendere» (Raboni, op. cit., pag. 46).
Ora, Raboni allude sicuramente all’operazione di casa Mondadori, visto che lo dirà nel 1985 proprio in una lettera a loro indirizzata affermando di essersi stancato della «scarsissima presenza, negli attuali programmi della Mondadori, di un lavoro di ricerca e valorizzazione di nuovi autori, sia nel campo della poesia che in quello della narrativa», stigmatizzando la forte diminuzione delle uscite ne «Lo Specchio», essendo venuto a mancare quel ‘carattere laboratoriale’ che le fu proprio durante il periodo in cui Vittorio Sereni era direttore.
Nel nuovo millennio la collana è affidata al poeta e critico letterario Antonio Riccardi, sebbene sotto una forte supervisione di Maurizio Cucchi il quale esordisce ne «Lo Specchio» nel 1976 con Il disperso e affianca, dal 1981, Giovanni Raboni nel comitato di lettura dell’«Almanacco dello Specchio». La situazione continua secondo l’andamento poc’anzi indicato, fino alla crisi del 2015 che vede il licenziamento di Antonio Riccardi e l’ipotesi di chiusura della storica collana mondadoriana.
Sui giornali italiani è tutto un chiacchiericcio intorno al perché, ma la risposta pare comunque unanime: la poesia interessa a pochi, e Mondadori ha smesso da troppi anni di azzeccare i poeti da pubblicare, con l’aggravante di far perdere prestigio alla sua collana. Eppure «Lo Specchio» non chiude. L’allarme è solo un fuoco fatuo sebbene dal 2015 ad oggi le pubblicazioni continuano a decrescere considerevolmente, con sacro rispetto allo storico dogma ‘pochi ma (forse) buoni e già noti’: riedizioni di poeti canonizzati, poche antologie e nomi che han già fatto il loro ingresso in collana come, in ordine sparso, Rosita Copioli, Davide Rondoni, Roberto Mussapi, Giancarlo Majorino, Giancarlo Pontiggia, Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Vivian Lamarque, Giuseppe Conte, Franco Buffoni. Centellinati i nuovi, passabili di quieta attenzione, quali Paolo Ruffilli, Alessandro Rivali e Mary B. Tolusso.
Cambio di rotta o reiterazione?
Con estrema sorpresa, contrariamente a quanto affermato fina a qui, Nel concerto del tempo di Marco Pelliccioli emerge nella collana mondadoriana come un’eccezione, una bella e piacevole eccezione che non manca certo di rispettare gli schemi sopra enunciati, ma che presenta nel suo libro un punto d’aggancio temporale (raro, ormai, trovare il respiro di un poeta che viva nel suo tempo e tenti di metterlo a fuoco). L’arco va dalla caduta del Muro di Berlino, nel 1989, arrivando presumibilmente ai giorni nostri, con delle determinazioni contestuali fedeli al tipo di vita che l’autore sente (finalmente!) nella città in cui abita, Milano. Pelliccioli apre il libro con una sorta di prologo che recita:
Un viaggio, un sogno, o forse una visione.
Rastrellavo i granelli di un muro in frantumi. Bussole e clessidre erano guaste. Così le cantine, i sottotetti, le oasi urbane, le foglie.
Restavo io, controfigura assente, a proferire gli accadimenti…[3]
Un prologo che ci introduce una voce narrante, cui segue una felicissima e ispirata poesia sul giorno in cui cadde il Muro (Nel concerto del tempo, pp. 11-12):
È una sera di novembre,
come tante, mia madre
pulisce la cucina, l’Angiolina
rammenda un’altra toppa,
mio padre afferra stanco
il telecomando e urla:
“Zitti!”
Sembra lieto. Al prurito sul polpaccio
fanno strada gli occhi grandi, la bocca
spalancata, il lavandino
chiuso e l’ago,
senza ditale e filo:
“Il muro è caduto!”
Tra quei cocci, ora, che il notiziario
ha portato in casa, ci muoviamo
incerti, noi, senza più
confini, siamo
un’unica materia.
Una climax intensa che culmina in un abbraccio del pensiero e del sentire, partendo da un dato storico e zigzagando con lo sguardo nella tensione emotiva con la quale lo scrittore investe le cose del reale. È il correlativo oggettivo di eliotiana memoria, non il solo felice momento di un libro in cui si alternano delle brevi prose, dal tono recitativo, a poesie in cui il canto, pur sommesso e contenuto, si fa così intenso da mettere a nudo il reale (e sicuramente lo scrittore stesso), come nella poesia Lo storpio (Ibid., pag. 51):
In sella al suo triciclo rosso
pedalava contro la tempesta
avvolto nella giacca a vento
le gambe attorcigliate
a spingere i pedali.
Chi si affacciava non capiva
la sua corsa solitaria
ma la pioggia scrosciava,
evaporava, sulla faccia
di lui che non fugge davanti al suo dolore
ma disegna con amore un inno
alla vita lungo la salita.
Momenti di una chiarezza smagliante che si ripetono, tra quelli più bassi e colloquiali, con le poesie Nunzia, La persiana, il testo numero tre della serie Urbane in cui Pelliccioli centra il sentimento del nostro tempo chiamandolo «epica sconnessa», e così continuando con la serie di testi @CLIO in cui a parlare è Martina, una ragazza ventiduenne che, entrata in contatto con la sua noia e preda della comunicazione digitale, accresce inconsapevolmente la sua solitudine e ossessione per il numero di follower a causa di un account Instagram nel quale parla di make-up: «Uno smartphone quattro luci | prodotti di make-up qualche minima | istruzione e tutto poi diventa | spettacolo da star […]», «Intanto io crescevo, gli amici | carovane venute dallo schermo […] mi avevano prescritto | blister e caffè | per ritornare ancora | con occhi braccia mani interattive | touch a vivere sul set.» (Ibid., pp. 66-68).
I suddetti e altri momenti felici del libro di Pelliccioli aiutano lo scrittore, attraverso quello che lui stesso definisce «lieve canto», a smemorare la sua «pena» (Ibid., pag. 124), pena causata anche dallo spaesamento per un’epoca che il poeta vive sulla sua pelle, alla quale alterna sinceri tempi di leggerezza in cui il cuore si libera di tutto il suo sapere per riannodare la memoria a una strana felicità bambina (Ibid., pag. 113):
E andiamo così,
tu davanti, io dietro,
nell’aria leggera
che scorre sul Lambro
e, forse, chissà, domani già io
sarò lì davanti, e dietro poi tu
a tenermi per mano
ma adesso che batte
questo poco di sole
e l’aria d’inverno
sembra primavera, corriamo
al mio tre
insieme nel prato.Si torni adesso alla domanda posta in apertura di recensione. Negli ultimi 11-12 anni «Lo Specchio» ha vissuto di alcune riuscite pubblicazioni, si ricordino almeno Tersa morte (2013) di Benedetti, La natura del bastardo (2016) di Rondoni, Il moto delle cose (2017) di Pontiggia, Linea intera, linea spezzata (2021) di De Angelis. Pubblicazioni che rientrano, certo, sempre nel paradigma esposto in apertura. Ma oggi, com’è accaduto raramente fuori dal periodo di direzione sereniano, «Lo Specchio» si è aperto aggiungendo una pietra al suo filo di autori — non sapendo quale figura farà nel tempo, se brillerà o meno insieme alle altre gemme —, con la certezza d’essersi fatto carico di un rischio, un rischio cui si vorrebbe vedere la collana esposta più spesso se i risultati sono buoni come quest’ultimo.
Marco Pelliccioli, Nel concerto del tempo, Mondadori 2024, pp. 160, €16.
[1] Ilaria Alleva, Due collane a confronto: «Lo Specchio» Mondadori e la «Collezione di Poesia» di Einaudi, «Diacritica», VII, 3, 39, 2021, p. 159.
[2] Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Mondadori 2019, pp. 46-7.
[3] Marco Pelliccioli, Nel concerto del tempo Mondadori 2024, p. 7.