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Il tennis nell’era della sua riproducibilità tecnica

Boris Bum Bum Becker ondeggiava sempre lo stesso numero di volte prima di esplodere il suo celebre servizio. Ivan Lendl preferiva invece accanirsi meticolosamente con le sue folte sopracciglia. Non si contano poi le gestualità ripetute sempre identiche di Rafa Nadal, meravigliosa ad esempio la cura con cui si dedica ad allineare perfettamente le bottigliette d’acqua a ogni singolo cambio di campo. Perfino io, mediocre tennista iperamatoriale, faccio fare sempre lo stesso numero di giri alla racchetta mentre sto aspettando di rispondere alla battuta dell’avversario. In breve, non esiste sport meno ossessionato ossessionante ossessivo del tennis ed è molto difficile che chi lo racconta per mestiere possa essere immune da riti e rituali.

La mania di raccontare il tennis è il sottotitolo che Federico Ferrero ha scelto per il suo libro dedicato allo sport amato e, soprattutto, alla sua narrazione (F. Ferrero, Parlare al silenzio, add editore, 2024); e certo il noto giornalista e telecronista sportivo regala pagine particolarmente felici sia quando racconta della testarda passione con cui ha deciso di intraprendere la carriera del “vecchio scriba” (copyright Gianni Clerici) al posto di quella di avvocato («il tennis non era il mio destino, ma da quel 2001 è diventato la mia scelta e, da allora, tutto si è messo in moto»), sia quando indugia divertito sul parallelismo giornalista-giocatore, entrambi alle prese con le proprie piccoli e grandi manie, appunto.

«La telecronaca di un grande evento somiglia, per certi versi, a giocarlo» esplicita Ferrero nel capitolo dedicato ai cosiddetti Milàn Open, ovvero alle telecronache dello Slam australiano realizzate dall’anonima camera di un albergo di Milano, tassativamente in notturna visto il feroce fuso orario; e le analogie sono in effetti innumerevoli. Dalla comune condizione di forzata frequentazione alberghiera (nel caso di Ferrero per evitare distrazioni, «concentrarsi sul match» appunto), al fatto che il tennis, si sa, è uno dei pochissimi sport che non conosce una fine predeterminata («bisogna commentare due settimane filate, magari con turni di 7-8 ore»), o ancora dalla necessità di un adeguato abbigliamento («i Milàn Open si commentano in tuta e sneakers») a quella di una corretta alimentazione («meglio cinque o sei piccoli pasti con snack e proteine, semi oleosi, qualche barretta ai cereali»). Senza contare che anche le telecronache, esattamente come le partite, si possono affrontare in singolo o in doppio e, in quel caso, il tuo compagno è fondamentale per resistere alla stanchezza e, perché no, alla noia a cui il tennis, giocato o raccontato, non è certo alieno («se uno andava in crisi, l’altro lo sosteneva e commentava solingo qualche game»).

Eh già, noia. Stanchezza. L’interminabile silenzio (solo il regolare toc della pallina sulle corde della racchetta a interromperlo) di infiniti scambi tra due impietosi regolaristi, o ancora game e game di match inguardabili, costellati da errori gratuiti e dalle imprecazioni (ancora, a interrompere il silenzio) di sconosciuti carneadi, meteore di cui domani faticherai a ricordarti il nome, figurarsi le statistiche. Anche questo è tennis, non nasconde Ferrero; forse soprattutto questo è tennis, ore e ore, giorni e giorni di monotona attesa di un colpo decisivo, di una volée capolavoro, di un passante vincente quando tutto sembrava perduto… Sarà per questo che ci appassiona così tanto, perché, fine non predeterminata compresa, assomiglia maledettamente alle nostre vite? Con una differenza, e decisiva. Le nostre esistenze non prevedono telecronaca, il tennis sì (almeno per ora) e un bravo narratore è quello che non viene mai meno al suo compito, «anche quando si ha la tosse o il mal di testa […] quando si è tristi e quando si è felici, annoiati o soddisfatti, stanchi, stufi, nervosi, preoccupati. A casa, quel ventaglio di sensazioni non deve essere percepito perché alla gente non interessa nulla dei tuoi problemi: vogliono seguire la partita e, se possibile, entusiasmarsi con te».

Intendiamoci, sempre che un pubblico di lettori/spettatori ci sia. Perché Ferrero usa efficacemente la propria biografia di giornalista della carta stampata prima e della televisione poi per descrivere come il gioco e la sua narrazione si siano evoluti (o forse involuti?) negli anni, in particolare dai Novanta a oggi. Raccontare il tennis nell’epoca della sua riproducibilità tecnica potrebbe essere allora un altro sottotitolo per questo libro. Ferrero giovane cronista ha infatti fatto in tempo a conoscere l’epoca ormai lontana e per certi versi oggi impensabile in cui esisteva la figura privilegiata dell’inviato («abbiamo speso dei soldi per mandarti a seguire una cosa che, per raccontarla così, potevi guardartela da casa» il commento ricevuto dal nostro autore al suo primo articolo), ha poi attraversato il decisivo momento della sua planetarizzazione televisiva (tra Ottanta e Novanta, similmente a quanto è avvenuto per la Formula 1, o per l’NBA) con tanto di conoscenza diretta e apprendimento vorace dai mostri sacri del racconto su schermo (in primis Gianni Clerici e Rino Tommasi a cui vengono dedicati specifici capitoli) ed è diventato a sua volta protagonista di un modo nuovo di utilizzare lo strumento televisivo («ho commentato gli Australian Open 19 anni di fila e ho frequentato mai. Esatto: mai»), per arrivare al decisivo (ferale?) passaggio al digitale che caratterizza il presente.

Ecco allora che la narrazione deve fare i conti con le dimensioni specifiche di questa nostra epoca, come l’infinita replicabilità e replicazione dei contenuti, la moltiplicazione dei canali, dei dispositivi e della loro accessibilità, la fruizione che si fa sempre più frammentata, discontinua, lettori e spettatori sempre più “distratti”, direbbe Adorno, ma allo stesso tempo ormai completamente simmetrici rispetto a chi avrebbe ancora la responsabilità del racconto, ma ha perso potere e autorità dell’inviato dal campo, di colui che solo vede e solo può narrare. Nell’epoca della disintermediazione si è tutti sostituibili e di fatto velocemente sostituiti (il fotografo ufficiale cede il passo al giocatore che gestisce da solo il proprio account Instagram, il giornalista inquadrato subisce l’avanzata dei freelance). Strapazzando ancora un po’ Benjamin: esattamente come, usciti di scena i Big Three del tennis mondiale, è difficile pensare ad altri giocatori futuri che manterranno la stessa aura, non perché non ci saranno più tennisti altrettanto forti, ma perché ci sembra difficile immaginare un tempo in cui verrà loro ancora riconosciuto uno status di eccezionalità, di trascendenza, lo stesso – ammonisce Ferrero, sempre sul filo del parallelismo giocatore-narratore – varrà per i giornalisti, anzi lo stesso già accade oggi. Nessun mostro sacro, nessun Ray Giubilo, nessun Rino Tommasi. Loro, sospira Ferrero, hanno avuto la fortuna di non conoscere questi nostri tempi tristi. «Quando internet non c’era, internet ero io»,affermava orgoglioso Tommasi.

Questa nostalgia per l’età dell’oro, se non del tennis, certo del suo racconto, è decisamente presente nel libro di Ferrero («per mia fortuna riuscii ad arrivare in tempo per vivere la fine di quel mondo»), insieme alla chiarissima denuncia di un’attualità in cui «nessuno insegna più nulla», mentre «tutto, proprio tutto può essere riprodotto». O ancora in cui chiunque, dai bancari in pensione agli scommettitori, può autodefinirsi “inviato”, “giornalista”, in cui non solo è arrivato il momento di salutare i maestri (Clerici nello spiazzare, Tommasi nel dettare i tempi), ma nel suo complesso «la casta dei giornalisti è sostanzialmente estinta, ne rimane solo un simulacro».

Se queste sono le premesse, si chiede e ci chiede Ferrero, siamo sicuri che la telecronaca continui a essere un valore aggiunto? Non finirà piuttosto «per prevalere il silenzio, ma quello definitivo»? Pur combattuto, l’autore sembra alla fine propendere per un cauto ottimismo (resisterà «il desiderio di farsi raccontare le cose» di cui parlava Gianni Clerici), ma ho scoperto che Ferrero è del 1976, come il sottoscritto, e allora è difficile dire quanto sia fondata questa sua previsione o quanto invece non sia l’illusione di chi ha imparato ad amare uno sport (e un mondo) attraverso i giornali, le fotografie su Tennis Italiano, le dirette su Rete Capodistria, e si ritrova oggi a seguire l’account Instagram di Nick Gyrgios e a impazzire su piattaforma tra i troppi match contemporanei di Flushing Meadows, tutti rigorosamente senza commento, solo silenzio, toc della pallina sulla racchetta, imprecazioni di qualche meteora del seeding, ancora silenzio.    


Federico Ferrero, Parlare al silenzio. La mania di raccontare il tennis, add editore, Torino 2024, 156 pp., 18,00€