“La foto dei ragazzi sul tavolino nell’ingresso è la stessa che avevano usato per la lapide” (p. 12).
Si apre così il primo dei novantanove frammenti che compongono Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa 2024), libro d’esordio di Michele Ruol, che scrive per il teatro e ha pubblicato racconti su riviste e in antologie.
Le micronarrazioni danno conto, come suggerisce il titolo dell’opera, di una serie di oggetti contenuti nella casa di una famiglia composta da Padre, Madre e dai figli Maggiore e Minore; e nell’automobile con cui la coppia abbandona la vecchia casa. Un’altra vettura sarà protagonista della vicenda: quella con cui i due ragazzi, in compagnia di un amico rimasto gravemente ferito, hanno avuto un incidente mortale.
Abbiamo già alcuni elementi che ci permettono di fare una prima considerazione. Gli appellativi emblematici in sostituzione dei nomi di battesimo dei componenti della famiglia, e l’espediente di utilizzare gli oggetti come pretesto per ragionare sui quattro, permettono a Ruol di mantenersi al riparo dal rischio del patetismo. Infatti Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è, anzitutto, un’indagine sul dolore di una coppia straziata da una doppia tragedia. Padre e Madre attraversano le varie fasi dell’elaborazione del lutto, provando ciascuno a gestire la propria quotidianità senza gravare sull’altro, ma al contempo non permettendo alla distanza creatasi tra loro di diventare incolmabile.
Proprio l’incontrovertibilità degli oggetti via via elencati, così come la metodicità di certi comportamenti, appaiono talvolta come appigli cui ricorrere per mantenere il contatto con la realtà, con la vita. Si legge nel frammento 78 (“Trolley da viaggio”):
“Nella valigia, la biancheria intima di Madre e Padre è disposta sulla destra, riconoscibile su base cromatica. Sui toni scuri del blu, del nero e del marrone ci sono i boxer e i calzini di Padre; le mutande, i reggiseni e le canottiere di Madre si distinguono per le gradazioni pastello che vanno dal bianco al lilla.
Era stata Madre a preparare la valigia: da sempre era compito suo.
[…] Padre svuotava la spazzatura; bagnava le piante; lavava la macchina, controllava la pressione delle ruote, si assicurava che ci fosse il pieno; sistemava le valigie nel bagagliaio.
C’erano cose che Madre e Padre non si erano mai detti, che da sempre funzionavano senza che avessero bisogno di spiegarsele: prepararsi a partire era una di quelle” (p. 163).
Va qui detto che le novantanove brevi sezioni non sono ordinate in senso cronologico, e possono riferirsi a momenti di intimità familiare anche precedenti lo schianto automobilistico di Maggiore e Minore. In alcuni casi, come nel brano appena citato, non abbiamo la possibilità di sapere se la scena avvenga prima o dopo l’incidente. Questa ampiezza (e ambiguità) temporale autorizza un secondo piano di lettura dell’Inventario, che non si esaurisce nella ricognizione di una coppia alle prese con il più terribile dei dolori. Un senso di precarietà e fatalismo grava infatti su di loro sin dai primi momenti della relazione.
Ritroviamo ad esempio Padre e Madre giovani sposi ancora senza figli, che coltivano progetti e sogni, ma che assieme covano paure e inquietudini. Come nel frammento 7 (“Cesto di vimini”):
“Sopra il televisore c’è un cesto pieno di gomitoli di lana e rocchetti colorati. Madre non aveva mai lavorato a maglia prima di diventare madre: si era procurata tutto il necessario quando era rimasta incinta.
[…] Madre era spaventata.
Temeva di non provare quello che avrebbe dovuto. Faceva fatica a esprimere come si sentiva, ma era piuttosto sicura che non fosse quello che tutti si aspettavano da lei. Aveva curiosità per quell’essere che percepiva muoversi, soprattutto se cercava di immaginare un futuro lontano. Eppure era un qualcosa di così vago che le sembrava inconsistente. Non era amore: anche l’attaccamento che provava non le pareva spontaneo, ma frutto di una scelta razionale – devo volerle bene” (p. 19).
Così scopriamo che, se la morte di Maggiore e Minore è certamente l’acme drammatico della vicenda familiare, il rapporto tra Padre e Madre (e tra i due genitori e i loro figli) è stato attraversato, negli anni, da sentimenti inconfessati e pulsioni conculcate (Padre, ad esempio, arriverà quasi a tradire Madre). Si ha la tentazione di pensare che se la coppia dell’Inventario non si è mai definitivamente disunita, è perché Padre e Madre hanno imparato fin da subito a calarsi ciascuno nel proprio ruolo (ed ecco che la figura retorica dell’antonomasia acquista ulteriore senso); comportandosi, in definitiva, con la medesima fissità degli oggetti. Come quando i due devono decidere come dire ai figli piccoli che la loro cagnolina malata verrà soppressa:
“Facciamo che torno a casa prima che i piccoli finiscono scuola. La porto via e gli diciamo che è scappata.
Facciamo che te ne stai al lavoro e di questa cosa me ne occupo io, gli aveva risposto Madre” (p. 170).
Lo stesso senso di immobilità è reso dallo stile studiatamente algido di Ruol, che non a caso sceglie la prospettiva dell’inventario, nel quale include quasi senza distinzione cose e stati d’animo. I periodi sono composti da frasi brevi, collegate tra loro prevalentemente tramite paratassi. Ciò non solo crea un ritmo ipnotico, ma azzera anche ogni ipotesi di causalità: come se la vita medesima fosse, al pari appunto di un inventario, una giustapposizione di accadimenti l’uno autonomo rispetto agli altri.
Occorre solo scegliere, sembra dirci Ruol, se affrontarli in solitudine (e forse con un maggiore grado di onestà) o cercando riparo in entità sociali più vaste di quella mononucleare. Con la possibilità di ricavarne maggior protezione, con il rischio di vedere moltiplicate le sciagure, con la certezza di dover accettare una certa quantità – propria e altrui – di segreti e bugie, come recita il titolo del film forse più lucido che sia mai stato girato sull’istituzione della famiglia.
Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, TerraRossa Bari 2024, 208 pp. 16,00€