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Tra presagio ed esitazione, dal silenzio la parola di Angelo Andreotti

Si va ovunque, perché ovunque noi andiamo,
e non c’è posto che possa appartenerci
se non riconoscendolo in ciò che fu,
ma che mai tornerà a essere.

A. A.

Se in copertina a Porto Palos (2006), la sua raccolta d’esordio, Angelo Andreotti (1960-2023) dialogava con il Muro Paesaggio di Alessandro Savelli, con il colore materico che permane sulle fibre spesse ma esplicite della juta, ovvero il grado zero di un qualsivoglia costrutto sociale, per la copertina del terzo speciale del semestrale “Laboratori critici” (Samuele Editore) abbiamo scelto l’opera di Paolo Pallara che intitola la serie “Own Now. Labirintinterrotti”. Nel 2019 l’artista ferrarese aveva condiviso lo spazio della sua personale, nella Galleria Faro Arte di Milano Marittima, con la presentazione de L’attenzione (2019): «[…] non la soglia ti è ignota, ma oscuri sono i passi più in là del tuo mondo di cui sai tutto», precisava Andreotti. D’altronde, l’opera in questione richiama alla vista – e vivamente – il perimetro della nostra cinta muraria, il vincolo del nostro passato perenne. Perimetro, quello Estense, mai nominato esplicitamente dal poeta nei suoi percorsi, se non nell’indicazione sporadica di via San romano (cfr. Tra parola e mondo, 2021). Inoltre il rombo irregolare in risalto, definito dalla cesura di un segno seppure incosciente come un solco annerito, anticipa l’avvento di un significato dorato, fedele a ciò che raffigura. E dunque l’oro emerge da un presupposto ossimorico: sia Pallara sia Andreotti indicano un uso del grafema e del sema incipitale racchiuso, quasi fosse un seme, libero dall’ambiguità strumentale che confonde il contemporaneo.

Le verità individuali non sono altro che combinazioni casuali di esperienze vissute o acquisite che, una volta astratte, decodificano un segmento del reale. In questo frangente il tempo si interiorizza in quanto singolare, a misura di persona. «La verità non ha evidenze», affermava Andreotti già agli esordi e già seguace del fuoco di Bonnefoy, non può averne; così come i singoli tasselli di un mosaico rivelano l’insieme solo nel complesso ma, al contempo, il momento dell’incastro di ogni tessera risulta fondamentale per il significato universale.

Sottratti alla grazia. Poesie 2006-2023, che omaggia il poeta e critico d’arte ferrarese, cofondatore di “Laboratori critici”, è il terzo dei progetti territoriali, ossia tre approfondimenti su territori specifici quali punti di osservazione privilegiati per interpretare alcune peculiarità del panorama poetico attuale. I due titoli che l’hanno preceduto sono il “Nuovo Almanacco del Ramo d’Oro” (curato da Gabriella Musetti) che raccoglie e rinnova la storica rivista triestina, e lo “Speciale Ritratti di Poesia 2024” che accompagna il noto festival romano. Gli undici interventi analitici che compongono il volume e che seguono l’antologia di settantacinque testi selezionati dalla sua intera produzione in versi, sfiorano alcuni dei suddetti tasselli in modo squisitamente personale, ma non privato, come fossero albori, o meglio, le ombre di Andreotti su un muro bianco inondato da un chiarore mattutino. Le stesse ombre che per lui erano una mescolanza fortuita e inseparabile tra luce e oscurità, riaffiorano interventi firmati da Sergio Bertolino, Duccio Demetrio, Flavio Ermini, Giuseppe Ferrara, Giovanna Menegùs, Nina Nasilli, Niccolò Nisivoccia, Antonio Prete, Stefano Raimondi, Massimo Scrignòli e Paolo Vanelli, anticipati da due scorci inediti di Alberti Cappi e Giancarlo Pontiggia, che suggella così il suo ingresso nel Comitato scientifico della rivista.

L’ATTENZIONE AL TUTTO

«Molto spesso l’attenzione viene confusa con una sorta di sforzo muscolare. Quando si dice agli allievi “ora state attenti”, li si vede corrugare le sopracciglia, trattenere il respiro, contrarre i muscoli. Se qualche istante dopo si domanda loro a che cosa siano stati attenti, non sono in grado di rispondere. Non hanno fatto attenzione ad alcunché. Non hanno fatto attenzione. Hanno solo contratto i muscoli». A spiegarlo con sagacia era Simone Weil in Attesa di Dio (1950), riflettendo sulla differenza tra essere attenti (caratteristica odierna assai in voga) e prestare attenzione a ciò che si può ascoltare. L’attenzione ha un’intensa polarizzazione estroflessa, e una potenzialità di apertura eterodiretta. In una società in cui la frenesia detta i ritmi e si viene facilmente sopraffatti da una moltitudine non referenziata di informazioni e stimoli vari, la possibilità di riuscire ancora a prestare attenzione è una chance che può aiutare l’individuo a non vivere in un tempo sclerotizzato. E proseguiva Weil: «Nella nostra anima c’è qualcosa che ripugna la vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica. […] Ecco perché ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in sé stessi». Dedicarsi a qualcosa con estrema attenzione, è una estremizzazione del sé nell’altro, un atto totale di impegno, seppure transeunte, la capacità rimbaudiana di riconoscere che «io è un altro» e applicare tale (ri)conoscibilità al tempo e al luogo presenti, affinché tempo e luogo siano una dimostrazione dell’esistenza reciproca dell’io e del tu.

«Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione», chiosava Cristina Campo ne Gli imperdonabili (1987) con la sua lancinante lucidità. Il concetto di attenzione è un processo cognitivo da allenare affinché si impari a selezionare tra le molteplici sollecitazioni che arrivano in ogni momento, ma soprattutto a ignorarne alcune, disinnescando i meccanismi di disonestà intellettuale. Secondo la rilettura sottesa che Andreotti fa di Weil, essere attenti è prendersi cura dell’altro, dare fiducia all’interlocutore e riconoscerne i bisogni più profondi. È un’arma bianca di difesa e cura contro la guerra, contro la prevaricazione.

IL SILENZIO

È difficile capire gli esiti dell’ultimo decennio del lavoro poetico di Angelo Andreotti, se non lo si riconduce all’esperienza maturata con Duccio Demetrio e Nicoletta Polla-Mattiot nell’ambito dell’Accademia del Silenzio, di cui il poeta ferrarese è stato uno dei protagonisti.

«I due lussi di oggi, i beni di cui più sentiamo la mancanza sono il tempo e il silenzio», scrivevano Demetrio e Polla-Mattiot nel documento istitutivo dell’Accademia di Anghiari, esperienza che si è sviluppata tra laboratori, occasioni di confronto, scelta ecologica e viaggio di ricerca alla riscoperta dell’autenticità del vivere. Un silenzio che, nelle ultime opere di Andreotti, si fa strumento di comunicazione, filtro che collega l’esilio della parola alla sua ricerca, come nella conclusione di Mediterraneo, presente nella raccolta Parole come dita (Mobydick, 2011): «chiunque tu sia raccontami / come il mare disegna le tue rive, / e i colori del vento / e nel cielo le forme delle nuvole, / raccontami la vita / così come la vedo / e poi confida il tuo silenzio in me». Un confidare che unisce – etimologicamente – alla fiducia anche il proposito di «aprire il proprio cuore» quale scaturigine di un’istanza di verità. A quel punto non mancherà il risorgere della parola autentica, salvifica: «Cerca fra l’erba il canto, / cerca la voce che sa guarire».

L’ASCOLTO DELL’ALTRO

In questo incontro emerge il bisogno della cura di se stessi (si veda Esilio, ancora da Parole come dita) che, per il poeta, è «dono senza resa», alieno da ogni forma di scambio, gesto unilaterale del darsi all’altro da sé. Ecco allora la necessità di predisporsi all’ascolto del «fruscio lento / di questa vita in fluida transizione», con un’attitudine quasi panteistica (il bosco, il vento, il fiume) fino a diventare sia il proprio stesso passo, sia il sentiero che si percorre, sia l’aria, sia il respiro, in una ricerca di consonanza e corrispondenza tra l’io e la natura, attraverso un sé che aspira a farsi tutto nel suo perdersi e fluire. Una natura evocata con tratti sovente bucolici, nella quale riecheggiano Virgilio, le rêverie di Rousseau, la sinfonia Pastorale di Beethoven, sino a quel consolidato sentimento dell’esilio di mahleriana memoria nel Lied Ich bin der Welt abhanden gekommen (Sono diventato estraneo al mondo) che è rifugio dalla violenza della Storia, che è «ocra rossa, / che sia di sangue o di melma; e odori / scesi dalla fiumana / a infradiciare le spiagge di miasmi / eruttati dalle viscere / di civiltà macerate in certezze», in cui si avverte l’amara sensibilità politica e civile del poeta.

TEMPO E PAESAGGIO

Nello iato tra io e mondo, non resta che procedere nell’erranza, nell’esplorazione, tipica del Wanderer della tradizione romantica tedesca e nel rifugio nel mito, dove l’incontro con Nausicaa, Euridice e Persefone ci consegna al tempo degli albori della parola e alla sacralità degli archetipi che quel mondo ci offre, così cari all’immaginario dell’autore. Il tempo che è «un istante, che in sé contiene passato e futuro», che Andreotti declina sia come chronos (tempo cronologico), sia come kairòs (tra momento opportuno e momento supremo).

Nell’essere perennemente in cammino, la poesia di Andreotti, contesa tra i limiti della finitudine e certe aperture sull’ansia di infinito (streben si direbbe in tedesco a evocare un anelito che tende a superare la finitezza), esplicita, in uno dei passaggi più filosofici (frammento XIX da A tempo e luogo, 2016), il suo lascito più significativo in sede teoretica. Riprendendo il sottotitolo di Ecce homo (Come si diventa ciò che si è), Andreotti ci rivela che «Ciò che saremo / è già in ciò che siamo. Noi / non siamo in cammino, / noi siamo la via che andiamo camminando». Il viaggio del poeta è scoperta, ma soprattutto conferma, sostanza della sua e della nostra identità. La poesia ne costituisce il controcanto, il compiersi di un destino segnato.

OGNI GIUDIZIO

Ti direi che non si entra nel mondo
se non attraversando una ferita
ma non mi crederesti, poiché pensi
che il dolore annienti l’uomo.
Quanto questo sia vero, non lo nego,
tuttavia alcuni però ce li avrei…
Di certo intenderesti il tuo dolore
preso dal pathos della tua egolatria
che non conosce gli amari turbamenti
tra i segni di un volto, lo sguardo
sofferente che vuole nascondersi
alla tua indifferenza, o peggio
al tuo fastidio.

A conferma dell’intervento di Pontiggia durante la commemorazione nella Biblioteca Comunale Ariostea, il 2 dicembre 2023, la tensione a una parola “sacra”, volta integralmente alla verità, che Andreotti mette in pratica nella postuma Pietre di passo (puntoacapo, 2023) con un approccio armonico nei confronti del visibile e nella ricerca degli assoluti, di un Dio mai dogmatico né esclusivo (già da La faretra di Zenone, 2008) quanto degli elementi naturali fondativi, non osteggia tantomeno nega l’uso quotidiano della parola. Tuttavia il poeta intende mettere in guardia il lettore rispetto all’uso istintuale che i media attuali fanno delle immagini. Un uso del linguaggio rumoroso e pregiudizievole, che accede in maniera fuorviante al nostro bacino di archetipi. Il poeta, parimenti, non ama le espressioni di uso abituale, che ricadono nell’anonimato della routine, benché le impieghi per essere più comprensibile, specie nella prima parte della raccolta; «come parole mendaci che mostrano / una cosa per nasconderne un’altra» e si contrappongono a quelle oneste: “giudizio”, “superbo” e “riflesso” sono termini irrisolti che rilevano il suo sottostare obbligato a dinamiche relazionali che, sublimando tra le pagine, abbandona per allargare lo sguardo. «Talvolta le parole si sottraggono / e tutto quel che sanno lo nascondono», benché il poeta non intenda il nascondere sopracitato, dovuto a un fraintendimento doloso; il nascosto dell’opera non corrompe la limpidezza dell’atto poetico, ma è ciò che non dice fino in fondo e sfugge alla nostra comprensione. «La via non è più retta e il rettilineo / si è spezzato in segmenti scomposti / che uniti non fanno l’insieme». Nel processo relazionale la funzione del giudizio è assimilabile a quella della definizione nel processo cognitivo: il singolo è costretto a giudicare per definire consapevolmente un momento, pur scongiurando il lettore di non assoggettarsi al culto del “presente” da cui siamo soffocati.

LA PAROLA “SACRA”

Nella vita schiva di Andreotti, per riprendere un’epifania di Demetrio, non c’è contrasto tra il pensiero che domina la scrittura poetica e il suo sentire. In Pietre di passo il ritmo del verso è dettato dal passo stesso, dalle sue pause, da un camminare circolare che tiene insieme le raccolte precedenti. Si tratta di un volume metapoetico, concepito attraverso una purezza sintattica e un lessico selettivo, essenziale: il suo ordine formale rispecchia quello interiore in una serena altezza dello stile. Il paradosso che la parola scaturisca dal silenzio si risolve nei suoni pronunciati che diventano senso, e i significati determinati, a loro volta, ridiventano suono.

Con Rilke, Luzi e Zambrano, Andreotti condivide l’ombra del non detto e la dimensione sapienziale della parola. Lentamente il poeta aspira a una «giusta proporzione» tra l’io e la realtà, mantenendo i toni sommessi e la vaghezze dei rituali, della preghiera originaria. Soltanto chi si prende cura con umiltà delle cose del mondo sente che il dubbio ne fa parte ed è indispensabile.

Così ogni transito, come ogni tragitto,
è sempre un attraversare alla cieca
un passaggio dal noto all’ignoto,
e ignoto è anche il passo che ancora
non tocca pietra. E tuttavia, sempre,
tutto ha più di una sintassi.
Il percorso non è mai lo stesso
il ruscello dissotterra le pietre
cambia l’assetto del camminamento
e la tenuta non è più sicura.
Si va a intuito. Si valuta.
Si sceglie, ma ogni giudizio
è una scommessa dall’esito incerto
comunque ineluttabile.