Cosa succede quando l’accademia esce da sé stessa, rinuncia alle note a piè di pagina e ci prende per mano, per strada, invitandoci a peregrinazioni smarginate nello spazio e nel tempo? E cosa significa ridisegnare le mappe di una città tutt’altro che serenissima, devastata dal turismo di massa e dalla gentrificazione, proprio re-immaginando dall’interno il genere della guida turistica?

Paul Kaplan e Shaul Bassi ce lo mostrano con i dieci itinerari della loro Venezia Africana, pubblicati da wetlands nella collana Fondamenta, in doppia versione: italiana e inglese. Uno storico dell’arte e uno studioso di letteratura, entrambi legati dalle proprie ricerche e biografie alla città di Venezia, mettono a disposizione di chi legge il loro patrimonio di esperienze e conoscenze ma anche i loro occhi e occhiali, i loro piedi, le loro orecchie prestate a conversazioni e silenzi passati e presenti e le loro mani per puntare dita, indicare e re-inscrivere l’Africa dentro Venezia.

Venezia africana conduce chi legge – turisti consapevoli, cittadinanza accorta o lettori curiosi – alla ricerca delle diverse Afriche che, dal Medioevo al presente, hanno popolato arte, cultura, calli e canali di Venezia. Ci presenta i tropi del magio nero, del gondoliere africano, le brutali statue di schiavi neri a Ca’ Rezzonico e ai Frari, così violentemente disturbanti eppure invisibilizzate per secoli perché normalizzate, naturalizzate, estetizzate (su questo aspetto si veda anche, per esempio, la mostra Sustaining a Weight di Holly Graham, tenutasi a Roma nel 2023). Ci introduce alle complessità del presente, passando per un Novecento ambiguo e tutt’altro che breve, costantemente in bilico fra tentazioni coloniali e resistenza. Oltre ai numerosi esempi menzionati nella guida, il caso della variegata ricezione del film italo-algerino La battaglia di Algeri alla Mostra del Cinema di Venezia del 1966 incorpora bene le ambiguità della presenza africana in laguna negli anni della decolonizzazione. Così come si potrebbe ricordare il caso del padiglione nigeriano della Biennale del 2016, sito in un edificio nascosto sull’isola della Giudecca, da cui l’artista Ola-dele Kuku urlava al neon che l’Africa non è un paese: ancora una volta, per raggiungere quella Venezia africana era necessario cercarla, mettersi in movimento sull’acqua pagando un biglietto, desiderarla.

Venezia africana ci ricorda a ogni passo che il mare della storia è un mare violento; che dietro il corpo nero seminudo che in un dipinto di Gentile Bellini si accinge a tuffarsi per recuperare reliquie di cristianesimo c’è la schiavitù; che dietro il gondoliere africano in livrea ci sono guerre, potere e violenza epistemica; che dietro il caffè c’è il denaro, dietro la toponomastica africana il colonialismo, e dietro e dentro i padiglioni della Biennale le tensioni di un mondo solo in parte postcoloniale, che riproduce, più spesso di quanto non smantelli, dinamiche di potere imperiali. Ci ricorda anche che l’università e le istituzioni culturali hanno un potere immenso nell’invertire la rotta. A questo proposito, il festival letterario Incroci di civiltà è una delle iniziative più significative che Venezia abbia ospitato negli ultimi anni: voci provenienti da diverse parti del continente africano grazie al festival continuano a sbarcare in laguna, riattivando Venezia quale crocevia polifonico e spazio di contro-narrazione.

La scelta di cominciare, con l’itinerario 1, dal cuore turistico di Venezia, San Marco, e complicarne il racconto attirando l’attenzione su tutto ciò che non guarderemmo altrimenti, è una chiara dichiarazione d’intenti di Venezia africana: ripensare margini e centro; cambiare lenti; mettersi in ascolto. Riportare alla luce tracce di una presenza forte ma dimenticata o invisibilizzata è un esercizio storico dei più seri, che il libro permette di svolgere senza fatica, se non quella richiesta dal fare i conti con un passato e un presente violenti e con le angosce del futuro.

Particolarmente persuasiva è l’articolazione delle analogie e differenze nelle strategie che Venezia ha adottato per assorbire o rigettare, integrare, confinare, marginalizzare, presenze africane ed ebraiche nel proprio corpo cittadino, a partire da Shakespeare per arrivare alla contemporaneità, così come la connessa riflessione sulla realtà e la metafora del ghetto (si veda, per esempio, il brano antologizzato tratto dal saggio Nel Ghetto di Caryl Phillips).

I curatori stabiliscono una complice alleanza con chi legge, basata sull’intenzione di condividere un percorso: Venezia africana è un libro alla seconda persona plurale, in cui il posizionamento dei curatori, la loro ego-storia, non emerge sempre in maniera netta, e che tuttavia costruisce un noi, una comunità. Kaplan e Bassi propongono un felice duetto tra visualità e testo, navigando consapevolmente tra insidie di ogni tipo: il rischio di feticizzazione, reificazione, voyeurismo, vittimizzazione del corpo nero; l’appiattimento di un continente e della sua diaspora sulle rappresentazioni stereotipiche che l’Europa ne ha prodotto; l’omogeneizzazione di culture e processi diversi; la riproduzione nel testo di gerarchie e rapporti di potere dominanti nei contesti e oggetti di cui ci si occupa. La prefazione di Igiaba Scego e la postfazione di Maaza Mengiste a Venezia africana incorniciano le voci accademiche dei curatori, stabiliscono con queste un vibrante dialogo, collocano il testo nel presente di cui è il prodotto, nella rete di tensioni che lo attraversano.

Con le sue ipotesi, i suoi audaci punti interrogativi, i suoi ‘forse’, Venezia africana è un vero invito alla ricerca sul campo. Come altri volumi usciti negli ultimi anni (uno per tutti: Memoria necessaria: guida critica a dodici luoghi della Roma coloniale, a cura di Caterina Borelli, Viaindustriae, 2022), usa la collaborazione come metodo, l’antologia come pratica straniante, la polifonia come rimedio, la non-linearità come paradigma per rileggere la storia e la geografia. Lo fa giocando con il genere ‘conservatore’ della guida turistica, la forma letteraria per eccellenza di una mobilità borghese e privilegiata. E lo fa con riferimento alla città italiana che, più di tante altre, incarna i paradossi più violenti legati al movimento – o all’immobilità – delle persone nella storia e nel presente: una repubblica marinara che ha recentemente scelto di chiudersi ancora, imponendo una tassa di ingresso giornaliero per regolare il turismo estrattivo e allo stesso tempo in tanti modi incoraggiando quel turismo; una città piena di barriere architettoniche; una città cara; una città in cui le grandi navi hanno riprodotto dinamiche predatorie; una città, in ultima analisi, spesso esclusiva.

Se chi vive o ha vissuto in laguna spesso concorda, a volte con sprezzo, sul fatto che il libro definitivo su Venezia non sia ancora stato scritto, è forse ora di riconoscere che nessun libro è un’isola o può contenerla, ed è semmai più proficuo ragionare in termini di arcipelago. Venezia africana si nutre di altri libri e opere, le incorpora, le giustappone senza paura. Nasce inoltre come snodo di una rete, un ecosistema di libri prodotti da wetlands, casa editrice no-profit attiva dal 2021 a Venezia e per Venezia, il cui catalogo è un vero tesoro di ricerche e contro-narrazioni della laguna dai suoi margini. Un paio di titoli, fra gli altri: La rivolta delle palle di neve: 1511. Murano contro Venezia, di C.J. de Larivière, e Non è città per poveri: Vite e luoghi della Venezia popolare di inizio Novecento, di Paola Somma.

Venezia africana e l’arcipelago di cui fa parte sono una sfida all’invisibilità. Gli unici capitoli che potrebbero essere aggiunti sono quelli ancora da scrivere, un mucchio di pagine bianche alla fine del libro, uno spazio perché chi legge possa ripensare le proprie mappe, disegnare itinerari, annotare scoperte, mettere nero su bianco la propria Venezia africana.


Paul Kaplan e Shaul Bassi, Venezia africana. Arte, cultura, persone, Venezia, wetlands 2024, 22€, 272 pp.