Site icon La Balena Bianca

Il nuovo colore del giallo: Chi dice e chi tace di Chiara Valerio

In Come si scrive un giallo (1966), Patricia Highsmith sostiene che: «Per gli scrittori dotati di un’immaginazione feconda, scrivere racconti di suspense è un mezzo splendido per ampliare il proprio campo, e incrementare le entrate».

È proprio di questo «mezzo splendido» che Chiara Valerio – scrittrice, divulgatrice, matematica, attivista – si serve nel suo ultimo romanzo Chi dice e chi tace, uscito per Sellerio lo scorso 20 febbraio e attualmente in corsa per il Premio Strega – è tra i titoli della dozzina finalista.

Il libro di primo acchito risulta infatti essere un giallo: una morte inspiegabile, la conseguente indagine e il disvelamento risolutivo in conclusione. Da questo nucleo giudiziario, Valerio allarga però il raggio d’azione per poter «incrementare le entrate» narrative del libro: l’analisi della realtà asfittica ma dal forte senso di appartenenza del paese, lo scandaglio critico di alcuni dettami sociali tipicamente convenzionali e pregiudizievoli, la messa in discussione del concetto di identità alla luce dei recenti funesti eventi. Non è di certo la prima occorrenza di questo fenomeno – la stessa autrice in nota al testo dichiara di essersi ispirata ai romanzi non-Maigret di Simenon –, ma Valerio in questo caso offre al lettore pagine nelle quali, con originale maestria e sapiente perizia intellettuale, si va a rivoluzionare il genere giallo attraverso i codici letterari dello stesso. L’autrice intrude nel campo di questa specifica tipologia narrativa al pari di una radice ostinata, che si espande, si duplica, scava a fondo, fino a ristrutturarne l’intera fisionomia.

Del campo di Chi dice e chi tace la superficie viene rappresentata dalla vicenda: Valerio traghetta il lettore negli anni ’90, in una piccola frazione del litorale laziale – Scauri: luogo di nascita dell’autrice. Il corpo di Vittoria Basile viene rinvenuto nella vasca di casa sua, riconducendo la causa del decesso a uno sfortunato incidente, nonostante la vittima fosse un’abile nuotatrice. Basandosi su questa semplice ma rimarchevole discrepanza l’avvocato Lea Russo – voce narrante del romanzo nonché conoscente della defunta – decide di avviare la propria indagine: «Vittoria era morta e io non capivo perché. Ma ero certa che un perché ci fosse. Avevo bisogno del perché della morte di Vittoria» (p. 48).

Di qui ecco che prende avvio un’opera di scavo da parte di Lea, da un lato nella memoria – propria e della defunta –, dall’altro negli accadimenti del paese, andando a costruire retroattivamente il ritratto di Vittoria, la quale emerge, pagina dopo pagina, ammantata da un velo di inconoscibilità fascinosa e maliarda: «La morte di Vittoria ci aveva svelato ciò che per Vittoria era chiaro, e cioè che di lei non sapevamo niente» (p. 124). Vittoria lascia attoniti per acume e spiritico critico, tratti che si desumono dai dialoghi avvenuti con Lea nel tempo e che stupiscono per l’ampiezza di vedute, soprattutto se contestualizzati negli anni in cui il romanzo è ambientato. Molte sono le tematiche che attraverso il suo personaggio vengono toccate in maniera più o meno decisa, ma sempre brillante: femminismo, potere, giustizia.

«Non c’entra l’amore in queste cose, Lea, è il senso della proprietà, l’occupazione del territorio. Lo sappiamo tutti, comincia in famiglia. Non sto dicendo che le famiglie creano per forza mostri. Sto dicendo che tutti, perché abbiamo vissuto in famiglia, sappiamo che il senso di colpa nasce al pensiero che uno abbia una vita fuori, qualsiasi vita. Non parlo di tradimenti, basta un lavoro, un interesse. La prospettiva di un diploma, o di una laurea. […] Gli uomini sopportano meno delle donne, ma il fastidio è di tutti, maschi e femmine. Gli uomini però sono abituati al possesso, al controllo, la storia è dalla loro parte, e sopportano meno l’esistenza di una vita qualsiasi oltre la famiglia, la loro famiglia» (pp. 60-61).

Anche la contestualizzazione spaziale ha un ruolo fondamentale nelle pagine di Valerio. Scauri – e gli abitanti che vi abitano – è una cornice che si fa protagonista, alla quale l’autrice introduce il lettore non solo a livello descrittivo-territoriale, ma anche a livello linguistico: la prosa elegante nella sua semplicità diventa di forte levatura magnetica grazie a spie lessicali di carattere vernacolare.

È una realtà, quella di Scauri, in apparenza angusta:

«Tutti facevamo sempre le stesse cose. Tutti sapevamo tutto di tutti. Tutti ci accontentavamo di ciò che avevamo davanti agli occhi. Tutti attribuivamo un certo valore alla forma. Tutti sapevamo, per l’abitudine a passare e spassare sul lungomare, che le petroliere e i mercantili, fermi per settimane all’orizzonte oltre la punta di Gaeta, se avessero avuto un’altra forma, fossero stati cubi di ferro pieno, sarebbero affondati. Tutti sapevamo tutto di tutti. Tutti facevamo sempre la stessa cosa. Era facile trovarsi, è facilissimo evitarsi» (p. 43).

Nel procedere della narrazione, però, ecco che il paese diventa miniera di segreti e di ricordi e l’indagine svolta da Lea un mosaico di testimonianze collettive: «la memoria del paese è diffusa. La memoria del paese ha mille nodi. La memoria del paese somiglia alle piante. La memoria del paese ha radici che si scambiano informazioni. La memoria del paese è inesauribile. Volta per volta è inaffidabile, ma è sempre esatta» (p. 242).

Grazie allo sguardo di Lea si va poi ad approfondire il rapporto che la donna aveva stretto con Mara, la compagna di vita con la quale Vittoria aveva condiviso la casa e felici anni di vita. È questo uno dei detonatori narrativi che offre a Valerio la possibilità di aprire una delle più ampie e discusse entrate del romanzo: quella dell’omosessualità. Elemento, questo, che nel suo raccontarsi accoglie le dicerie della gente, l’esclusione dell’amante dalla ricomposizione parentale della defunta, l’ostica incombenza della distribuzione dell’eredità.

Il lesbismo custodito in queste pagine diventa inoltre il pretesto attraverso il quale la stessa Lea si mette in discussione negli aspetti più intimi della propria introspezione: «Non capivo bene né chi ero io, né chi era Vittoria, e per quanto cercassi di non collegare le cose, sapevo invece che un legame c’era» (p. 108).

Volendo allargare ulteriormente lo spettro d’indagine, poi, si potrebbe addirittura suggerire che l’autoanalisi di Lea permetta l’intromissione nel testo della voce della stessa autrice; è proprio quest’ultima, infatti, che nella nota al testo confessa alcuni aspetti di adesione al reale, dalla nominazione dei personaggi alla scelta dell’ambientazione del romanzo, premurandosi però di depistare immediatamente qualsiasi tentativo di collegamento diretto:

«[…] non esiste nessuno. Forse manco io. Ma ascolto i racconti di persone conosciute e sconosciute e li intreccio. I racconti esistono, loro sì, da qualche parte. Sono eco, omaggi talvolta, e niente altro, non c’è esattezza e non c’è cronaca, tutta è mischiato, frainteso, inventato, mentito» (p. 274).

Infine, l’elemento omoerotico – o per meglio dire, la genealogia dell’elemento omoerotico – serba un’ombra di mistero, la quale entra nella narrazione grazie alle allusioni dell’avvocato Pontecorvo: legale della controparte in una causa giudiziaria in cui Lea si trova invischiata, nonché vero marito di Vittoria. Questo personaggio sembra comparire direttamente dal passato mal digerito della defunta per offrire al romanzo il vero mistero da svelare: la reale storia di Vittoria e, di conseguenza, delle persone a essa legate. I personaggi risultano essere così cuciti uno all’altro da un trascorso tanto enigmatico quanto ermetico.

È su queste basi che il tessuto narrativo del libro fonda il proprio dinamismo: un movimento sfuggevole e avvincente che si illumina gradualmente ma che al tempo stesso è legato alle proprie zone d’ombra; che si traduce in spostamenti geografici – in particolar modo alla volta di Roma, serbatoio delle antiche verità di Vittoria – e in sovvertimenti emotivi. Chi dice e chi tace assume così la forma di un gioco a incastro, dove tutto concorre all’epifania rivelatrice delle ultime pagine. Nulla è dettato dal caso, d’altronde, come affermava Dürrenmatt in La promessa. Un requiem per un romanzo giallo (1958): «Nei vostri romanzi il caso non ha alcuna parte, e se qualcosa ha l’aspetto del caso, ecco che subito diventa destino e concatenazione».

L’elemento che innalza la caratura di originalità di questo libro è proprio il bersaglio dell’epifania succitata: non è più la causa della morte di Vittoria a divenire oggetto di curiosità – che potrebbe risultare addirittura scialba per un lettore appassionato del genere –, bensì il passato di questa donna, i motivi per i quali ha legato a sé la moltitudine dei personaggi presenti nel libro, compreso il paese stesso: «Vittoria aveva fatto per Scauri più di quello che Scauri aveva fatto per Vittoria» (p. 157). Qui si ha modo di osservare come le terre del genere letterario scelto vengono smosse e sovvertite: sull’elemento tipicamente noir predomina e acquista spazio la dimensione interna dei personaggi; la loro storia, i loro legami chiaroscurali, la loro stratificazione emotiva diventano i veri elementi di suspense del romanzo.

Roberto Cotroneo ne Il sogno di scrivere (2014) afferma che il genere giallo «più che un modo di scrivere romanzi è un modo di stare al mondo: in un mondo dove la gente ha paura e non capisce bene quello che accadrà. I gialli veri sono quelli che complicano le situazioni e non danno certezze. I gialli letterari che si scrivono in questi anni sono invece a soluzione finale: tutto alla fine torna in ordine». Chiara Valerio sembra contraddire – almeno in parte – questo paradigma: è vero che alla fine del romanzo tutto torna in uno stato di ordine apparente, dove le domande che hanno cesellato la narrazione trovano risposta, ma ciò che diventa complicato e privo di certezze è il sentire del lettore una volta giunto al termine della lettura. Valerio propone un giallo che ha come primo intento proprio quello di problematizzare un modo di stare al mondo, trovando in tale problematizzazione la proporzione del suo impegno morale – forse anche politico. Ecco allora che l’identità diventa una questione rarefatta, la verità perde la propria dimensione aprioristica, l’atteggiamento di interpretazione dell’altro assume i contorni di un ritratto complesso da maneggiare con cautela: «Non importa il senso in cui ti piace qualcosa, importa che ti piaccia, e alla fine, quando ti avvicini abbastanza, ci finisci dentro» (p. 79).

Chi dice e chi tace costudisce un’eredità preziosa, una voce riconoscibile che difficilmente può rimanere inascoltata, quella di Vittoria-personaggio che parla nel ricordo di chi la ha amata e quella di Valerio-autrice che parla dalle pagine di un romanzo di raro incanto: «Un’ultima cosa […], proprio perché non siamo fatti per soffrire, hai ragione tu, per vivere ci circondiamo di molte cose inutili e quindi abbiamo la possibilità, andando avanti, di alleggerirci, occupare meno spazio, nell’esperienza che chi viene dopo trovi il proprio e faccia meglio» (pp. 62-63).


Chiara Valerio, Chi dice e chi tace, Palermo, Sellerio, 2024, 288 pp., € 15.